di Giano Accame

A Prato, dall’industriale Baffi, si presenta un giovane prete, alto, pallido, emaciato, dall’espressione ascetica, dai tratti signorili. È don Lorenzo Milani, il cappellano della vicina S. Donato, che viene a raccomandare la assunzione di Mauro, un tessitore diciassettenne la cui famiglia versa in condizioni di indigenza.

L’industriale resiste un pochino, spiega al buon cappellano che la sua azienda non è un ente di beneficenza, però poi si lascia vincere, esaudisce la preghiera, raccomandando a sua volta di spiegar bene al ragazzo che verrà assunto e pagato per lavorare e non per piantar grane, che gli scioperi non gli vanno a genio, che se sciopera verrà licenziato.

Il buon cappellano ottenuto il favore ritorna alla canonica, annunzia al protetto l’esito felice dell’intercessione, poi si ritira a stendere le considerazioni dolci, serene, della sua giornata di benefattore. Inzuppa la penna, rivolge gli occhi al Cielo per invocarVi divina ispirazione, si gingilla un attimo con le pallottoline del rosario, si concentra e scrive: “Penso all’art. 40 della Costituzione, il diritto di sciopero. Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato, possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagata così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte?! E poi non è una legge qualsiasi. È quella che Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo… Ma no, Baffi, non ti meriti che queste cose io te lo dica in faccia. Avresti troppa soddisfazione mettendomi per strada Mauro e ridendoti di me e dei miei sogni. Ti meriti piuttosto che io dica a Mauro che t’inganni quanto può. Che finga pei cinquanta giorni di prova d’esser come tu lo vorresti. E poi, scoccati quelli, non appena tu l’abbia assicurato, gli dirò che lo sciopero è nulla. Gli dirò che ti macchi d’acido uno stacco di gabardine, che ti versi la rena negli oliatori, che t’accenda una miccia nel magazzino… Te la farò pagare, te lo prometto in nome dei poveri che calpesti…”

Fortunatamente alcune esigenze tattiche della rivoluzione proletaria costringono il serafico pastore a rinviare le azioni di sabotaggio contro gli impianti industriali pratesi: la “base” infatti non risponde all’appello con l’aggressività sperata; la famiglia del giovane protetto, avendo urgente bisogno della busta paga, preferisce “tirare a campà”.

Don Lorenzo Milani si rassegna a non lavare con gli acidi, la rena e gli esplosivi, la grave offesa arrecata all’ottavo sacramento dei preti operai, il “SS. Sciopero”, e annota amaramente nel diario l’occasione mancata: “Il bene di mettere Mauro sotto i piedi del Baffi. Perché il Baffi possa ben calpestare la sua dignità di cristiano. Io ho dunque chinato il capo dinanzi al Baffi, non gli ho sputato in faccia, non gli ho tirato il calamaio. E a Mauro non dirò di lottare per i suoi fratelli. Gli dirò di essere vile e egoista. Gli dirò che importante è solo di riportar la busta a casa”.

Gli industriali, secondo la vivace immaginazione di questo sacerdote, dovrebbero assumere i suoi raccomandati non per farli lavorare e guadagnare, ma per metterli nella miglior condizione di lottare entro le fabbriche per i loro fratelli. Cioè per esercitarvi attivamente il diritto di sciopero, soprattutto lo sciopero di solidarietà, in cui don Lorenzo Milani fiuta “il più puro profumo del sacrificio cristiano”, paragonandolo con ardito lirismo “alla spada dei cavalieri medioevali che veniva consacrata sull’altare in difesa dei deboli e degli oppressi”.

Anche il suo concetto dell’amore per il prossimo è estremamente dinamico e sociale: “Voler bene al povero significa mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese, fargli capire che soltanto facendo tutto al contrario dei borghesi potrà passar loro innanzi e eliminarli dalla scena politica e sociale”.

Ma eliminarli come: a colpi di turibolo alla nuca? I particolari tecnici dell’eliminazione non sono ancora chiari; il mostro in gonnella comunque, nell’attesa di averli precisati, non trascura di recarsi a piatire piccoli favori proprio presso la gente ch’egli vorrebbe fare scomparire.

C’è qualcosa di subdolo, una sgradevole doppiezza nella sua condotta, ma don Milani non tiene a esser simpatico. Egli anzi confessa con un certo gusto autocritico: “Non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Sono stato solo furbo”.

Del resto neppure “a Gesù o non è riuscito o non è importato” di farsi voler bene dalla gente.

L’importante è invece che “non bisogna essere interclassisti, ma schierati”. E don Lorenzo Milani nel libro di Esperienze pastorali, da cui stiamo cogliendo questi fiori, dimostra ampiamente di essersi schierato.

La più impegnativa delle sue esperienze pastorali è stata la costituzione di una scuola parrocchiale dalla quale ha severamente escluso i benestanti, sostenendo “la necessità di ordinare le nostre scuole con criteri rigidamente classisti… Se aprissimo le nostre scuole, conferenze, biblioteche anche ai borghesi verrebbe a cadere lo scopo stesso del nostro lavoro”. Seguendo un criterio di selezione alla rovescia, di cui del resto non mancano neppure alle camere e al governo alcune esemplari applicazioni, egli conia il motto che a suo avviso sarebbe degno di un vero partito cristiano: “Borse di studio ai deficienti e un branco di pecore da badare ai più dotati!”. E conclude trionfante: “Questo è appunto ciò che abbiamo tentato di fare a S. Donato”.

Don Lorenzo Milani è un prete di buona famiglia, che per motivi rimasti a noi ignoti ha concepito una avversione furibonda contro l’ambiente in cui si è formato. Forse la sua idiosincrasia per i divertimenti e i giochi l’hanno fatto schernire dai compagni. In tutte le sue pagine si avverte lo squilibrio nervoso del giovane isolato in un complesso di esigenze intellettuali insoddisfatte. Schifato e non compreso dal suo prossimo, si è rifugiato in una professione di apostolato verso gli umili, con chiaro senso di superiorità e frequenti reazioni di fastidio e di disprezzo verso tutto e tutti: i borghesi, gli studenti, i preti suoi colleghi e infine i poveri, nei confronti dei quali a volte manifesta sentimenti non diversi da quelli che si possono provare presso la società per la protezione degli animali.

Sui poveri montanari riproduce, dimostrando di approvarla, questa delicata dimostrazione di affetto di un prete di montagna, che gli scrive: “Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori”.

Queste espressioni sono sintomatiche, sono rivelatrici di una mentalità che va studiata e meditata a lungo, giacché i cristiani sbandati alla sinistra troppo spesso riescono a giustificare il loro livore antiborghese attraverso l’alibi dei trasporti filoproletari. Il sacrificio dei primi potrebbe infatti compensarsi per assurdo con la carità esercitata nei confronti dei secondi, se questa non fosse un po’ troppo pelosa, se non puzzasse lontano un miglio di zoofilia.

Purtroppo queste forme di estremismo non promettono nulla di buono ai ricchi, ma nemmeno ai poveri; sono soltanto contorcimenti morbosi di gente volontariamente incanagliata per assaporare in una cerchia più bassa della loro le ebbrezze di una certa superiorità.

È lo stesso gusto che attrae nelle file del partito comunista i disertori della borghesia; i quali ben si guardano dall’abbandonare una ereditata condizione di benessere (perché mantengono gelosamente lo stesso tenore di agiatezza) ma piuttosto disertano dai compiti, dai doveri, dalle responsabilità e dallo stile della loro origine.

Don Lorenzo Milani, zoofilo verso i proletari, presta ai borghesi gli stessi suoi sentimenti rovesciati e li dipinge come dei maltrattatori inveterati di animali. Lo studente, ad esempio, come tratta e considera un modesto fattorino di corriera? Per lo studente il fattorino “non è molto diverso da una mattonella del lastrico delle strade su cui ognuno può passeggiare da padrone e anche sputare.” E le contesse, come si comporteranno allora le contesse? Ecco cosa fanno: “Un contadino tremante, col cappello in mano, annunzia alla contessa Digerini che ha avuto un bambino. ‘Coglioni!’ risponde la contessa infuriata…”

E non gli si stia a parlare dei professionisti: “Per Grazia di Dio nessuno viene a Messa tanto poco quanto il farmacista e il medico”.

Per Grazia di Dio, capito? Gli indesiderati!

Penso che molti lettori ora si domanderanno se era veramente il caso di dare tanto spago a questa quasi incredibile raccolta di brutte cattiverie e di sciocchezze. Un prete matto può sempre capitare, ma, di fronte a una simile disgrazia, per un cattolico rispettoso della Chiesa e del suo prestigio, il partito migliore sarebbe non parlarne.

E non l’avremmo certamente fatto se il libro di don Lorenzo Milani non fosse stato pubblicato da un noto editore cattolico, se non fosse stato recensito con favori entusiastici sui giornali della Democrazia Cristiana, se non portasse il nihil obstat di un autorevole padre domenicano, Reginaldo Santilli, l’imprimatur dell’Arcivescovo di Firenze e una lunga prefazione elogiativa di monsignor Giuseppe D’Avack, Arcivescovo di Camerino.

Noi non vorremmo che a propiziare i favori di certi ambienti politici e ecclesiastici a quel libro fossero stati argomenti teologici di sapore un po’ ricattatorio, come questo: “Ammettiamo pure che il mio giudizio sia totalmente sballato rispetto a quello che darà Dio. Ma sta di fatto che il popolo e i ragazzi vedono con gli occhi esteriori come me e il loro giudizio assomiglia molto più al mio che a quello di Dio”.

Che la voce del “popolo” stia veramente arrivando negli arcivescovadi e nelle sacrestie con più immediatezza e autorità di quella del Signore?

* Da “Il Borghese”, Milano, 9 ottobre 1958.