di Roberto de Mattei
fonte: Corrispondenza Romana
Il 12-13 maggio 1974 il divorzio venne confermato in Italia da un referendum che vide prevalere i “no” all’abrogazione della legge divorzista del 1970 con il 59,3% dei voti. I risultati del referendum, secondo i mass-media, rivelavano l’esistenza di un paese ormai “avanzato”, nel campo dei “diritti civili”, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Scandinavia. “La Stampa”, il quotidiano della famiglia Agnelli, il 14 maggio titolava a tutta pagina: «L’Italia è un paese moderno. Vince il NO il divorzio resta».
In realtà, il sentimento cattolico era ancora forte nel paese. Molti italiani avevano votato il divorzio per rispettare il principio della “libertà di coscienza”, seguendo il sofisma per cui il matrimonio restava indissolubile per chi lo riteneva tale, ma dava la possibilità di divorziare a chi non ci credeva. Il problema in realtà non riguardava la vita dei singoli, ma le basi stesse della società che aveva nel matrimonio indissolubile un suo pilastro. Il crollo di questo fondamento avrebbe portato in breve tempo alla disgregazione della famiglia come istituzione sociale.
Pochi comprendevano che il divorzio era solo la prima tappa di una dinamica rivoluzionaria che non si sarebbe arrestata. Eppure, fin dal 1973, il padre della legge divorzista, Loris Fortuna, massone e deputato socialista, aveva presentato in Parlamento il primo progetto di legge per la parziale depenalizzazione dell’aborto. La campagna abortista fu inaugurata, immediatamente dopo i risultati del referendum del 1974. Questa campagna si inseriva nel quadro di due rivoluzioni culturali di portata planetaria: il Concilio Vaticano II (1962-1965) e la rivolta studentesca (1968). L’Italia aveva inoltre il principale partito comunista d’Occidente che nelle elezioni regionali del 1975, e poi in quelle politiche del 1976, conobbe un’affermazione senza precedenti.
L’esistenza di un’Italia cattolica dalle radici ancora profonde era confermata dal fatto che il PCI, nella sua marcia di conquista del potere, affermava di voler andare al governo “con”, e non “contro”, i cattolici. Era la strategia del compromesso storico, teorizzata da Enrico Berlinguer. Questa strategia prevedeva che, mentre il PCI tendeva la mano ai cattolici, una minoranza aggressiva avrebbe operato per scardinare le leggi conformi all’ordine naturale e cristiano. I comunisti e i socialisti aiutavano il Partito Radicale di Marco Pannella a raccogliere le firme per un referendum che avrebbe abolito ogni norma antiabortista del nostro ordinamento giuridico, ma il loro obiettivo, era quello di costringere i democristiani a trovare un compromesso sull’aborto in Parlamento. Nel dicembre del 1975, il presidente del Consiglio dei ministri Aldo Moro dichiarava la neutralità del governo in tema di aborto. La proposta di legge unificata abortista, grazie alla desistenza dei deputati della DC nei lavori delle commissioni, giunse nelle aule della Camera e del Senato dove fu definitivamente approvata il 19 maggio, con le defezioni determinanti della Democrazia Cristiana. Sulla Gazzetta Ufficiale del 22 maggio 1978, la legge n. 194, che autorizza l’omicidio, fu promulgata a firma di parlamentari tutti democristiani a cominciare dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
In quegli anni Alleanza per la Vita, l’associazione legata ad Alleanza Cattolica e presieduta da Agostino Sanfratello, si batté con vigore contro l’aborto, denunciando la diserzione dei deputati cattolici ed organizzando il primo convegno internazionale per la vita, che si svolse a Roma dal 25 al 27 aprile 1980 (https://www.corrispondenzaromana.it/alle-origini-del-movimento-pro-life-internazionale/). Al tradimento democristiano iniziò ad accompagnarsi da allora quello dei vescovi italiani. Negli ultimi cinquant’anni, tutti i direttori del giornale dei vescovi “Avvenire”, da Angelo Narducci (1969-1980) a Pier Giorgio Liverani (1981-1983), da Dino Boffo (1994-2009) a Marco Tarquinio (2009-2024), seguendo le direttive della Conferenza Episcopale Italiana, hanno avuto nel mirino, come i peggiori nemici, non le forze abortiste, ma quelle anti-abortiste che hanno sistematicamente denigrato o ignorato. Il primo di questi direttori, Angelo Narducci, eletto al Parlamento europeo nel 1979, il 18 luglio dello stesso anno contribuì, con il suo voto, all’elezione a presidente dell’assemblea di Simone Veil, la promotrice della legge sull’aborto in Francia. L’ultimo direttore, Marco Tarquinio, in un’intervista rilasciata il 15 giugno 2024, all’indomani della sua elezione a europarlamentare, ha criticato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per l’esclusione della parola “aborto” dai documenti finali del G7 appena conclusosi (https://www.corrispondenzaromana.it/puo-lex-direttore-di-avvenire-sostenere-laborto-e-dirsi-cattolico/).
A partire dal 1981 i vertici politici ed ecclesiastici trovarono il loro uomo di fiducia in un magistrato fiorentino, Carlo Casini, a cui affidarono il compito di guidare il neonato Movimento per la Vita. La consegna fu precisa: evitare in tutti i modi lo scontro politico e ideologico sull’aborto sostituendo allo slogan “No alla 194” quello “Sì alla Vita”. Soprattutto era necessario evitare manifestazioni di piazza, che potessero sfuggire al controllo dei vertici, come le Marce per la Vita che andavano nascendo un po’ dovunque nel mondo. Casini, fedele alle consegne, fu premiato con il seggio parlamentare alla Camera dei Deputati e quello, per lunghi anni, al Parlamento europeo, mentre la CEI assicurava il suo sostegno finanziario al Movimento per la Vita.
Agli inizi del 2000, alcuni giovani intellettuali cattolici, come Francesco Agnoli e Mario Palmaro, iniziarono a mettere in discussione la strategia disfattista del Movimento per la Vita, mentre Giuliano Ferrara con il partito Aborto? No grazie, cercava, senza successo, di portare il dibattito sulla vita in Parlamento. La CEI tentò di riprendere in mano la situazione organizzando nel maggio 2007 un grande Family Day che si rivelò però un fuoco di paglia. Nacque così, come un fiore nel deserto, senza negoziazioni al vertice, la Marcia Nazionale per la Vita che, dopo un felice esordio a Desenzano nel 2011, si svolse regolarmente per dieci anni consecutivi a Roma, sotto la guida di Virginia Coda Nunziante, all’insegna dello slogan “No all’aborto, senza eccezioni e senza compromessi”.
Intanto il neurochirurgo di Brescia Massimo Gandolfini, con un gruppo di collaboratori provenienti come lui dal Cammino Neocatecumentale, si proponeva come interlocutore al mondo politico ed ecclesiastico più sensibile ai temi della vita e della famiglia. Gandolfini, con l’ex-deputato del PD Mario Adinolfi, il 20 giugno 2015 promosse in piazza San Giovanni a Roma un nuovo Family Day, ma non riuscì a replicarlo negli anni successivi. Altrettanto insuccesso ebbe Adinolfi con il partito “Il Popolo della Famiglia” da lui fondato. La pandemia del 2020-20021, che divise i cattolici pro-life su questioni di ordine sanitario, spinse Virginia Coda Nunziante a lasciare la presidenza della Marcia per la Vita, da lei fondata con Francesco Agnoli dieci anni prima. Alla testa della nuova “Manifestazione per la Vita”, che si è svolta il 22 giugno 2024 è Massimo Gandolfini che nel marzo 2019, partecipando al Congresso delle famiglie di Verona, aveva dichiarato di voler far propria la linea indicata dall’allora presidente della CEI Gualtiero Bassetti: «non trasformare la famiglia in un’occasione di scontro».
La Manifestazione per la Vita del 2024 si è svolta sullo stesso percorso delle precedenti Marce, ma in evidente discontinuità con esse, nella forma e nei contenuti. L’obiettivo di abrogare la 194 non è mai stato affermato, mentre il corteo era aperto da alcune ragazze “Pon Pon” seminude, che davano alla manifestazione il tono di una “kermesse” priva di vigore morale e di spirito combattivo. E’ questo il futuro del movimento pro-life in Italia? Non si tratta di inutile polemica. La maggior carità che si può fare al nostro prossimo è sempre quella della verità, soprattutto quando è in gioco la vita umana e il bene delle anime.