di Carlo Manetti

«Educare» significa, letteralmente, «migliorare traendo fuori»1 e si contrappone, concettualmente, ad «istruire»2, che rimanda al concetto di porre, all’interno del discente, concetti ordinati, che egli precedentemente non possedeva. L’educazione, quindi, è l’arte di far venire alla luce ciò che, almeno in potenza, l’educando già ha o, come vedremo, ciò che è. Istruire, quindi, è “immettere” concetti, possibilmente ordinati, nella mente del discente, arricchendolo di strumenti intellettuali, che egli potrà, tramite la sua ragione, utilizzare nel momento in cui gli dovessero tornare utili. Educare, invece, consiste nella delicata arte di far emergere, possibilmente nella sua purezza, la reale natura del discepolo.

Educare è la più alta forma di carità fraterna possibile all’uomo, in quanto si concretizza nell’aiutare qualcuno a perseguire il suo fine primario. Come giustamente insegna Aristotele (384-322 a.C.), ciascun essere ha come somma finalità quella di raggiungere la perfezione della propria natura; per le piante e gli animali, che, non essendo dotati di ragione, non hanno una libera volontà, questo scopo viene perseguito in maniera involontaria ed indipendente dal loro apporto individuale, mentre, per quanto riguarda gli esseri umani, esso è la meta spirituale e morale che ciascuno deve impegnarsi a conseguire per tutta la sua esistenza terrena; si può, quindi, affermare che tutta la vita dell’uomo non sia altro che una continua educazione e/o auto-educazione.

Tutto questo, sia detto per inciso, non contraddice il principio cattolico che vede nella gloria di Dio il fine ultimo di ogni azione di tutti gli esseri, perché il cristiano, reso dalla Fede più compiutamente cosciente della sua natura creaturale di quanto lo possa essere ciascun uomo per il solo uso della retta ragione, non può che vedere il perfezionamento della propria natura umana, redenta dal sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo in Croce, nella partecipazione alla divina gloria.

È di tutta evidenza che, per poter aiutare qualcuno a far emergere la sua natura, è indispensabile avere sempre chiaramente presente l’esistenza della natura umana e, più precisamente, in che cosa essa consista. Che esista una natura umana dovrebbe essere comune evidenza, ma, visti i tempi intrisi di assurdo irrazionalismo in cui viviamo, non pare del tutto ozioso soffermarvisi, sia pure brevemente. Il fatto che essa esista implica, molto banalmente, che «seguire la propria natura» non significhi aderire alle proprie pulsioni, ai propri desideri, ai propri sentimenti e neppure alle proprie aspirazioni, ma che voglia dire seguire un continuo cammino ascetico di adeguamento alla perfezione di quella natura che è comune a tutto il genere umano e deviare dalla quale non comporta altro che perversione del proprio essere.

L’uomo, sempre per seguire il «maestro di color che sanno»3, è sinolo di anima e corpo, vale a dire che è unione inscindibile di un elemento materiale, con le sue potenzialità vegetative e sensitive, e di un elemento spirituale, di natura razionale; quando l’anima si separa dal corpo, questo muore e cessa di essere persona per divenire cosa, in attesa di riunirsi con quella nella risurrezione. Questi due elementi rimangono distinti, ma uniti, tanto che si può affermare che l’essere umano non abbia un corpo ed un’anima, ma sia un corpo ed un’anima; concetto questo che sarà molto importante tenere presente quando parleremo delle derive gnostiche. 

Quanto detto non presuppone, però, che i due elementi costitutivi della persona umana siano su un piano di parità; tutta la Creazione è caratterizzata dall’armonia e questa non può sussistere se non in una struttura gerarchica di essenze e di funzioni. L’anima razionale deve essere sovraordinata al corpo ed incanalarne gli istinti, dominandoli e, quando è il caso, reprimendoli, ma il corpo rappresenta la realtà in cui l’anima è incarnata ed il suo mezzo per esprimersi in questo mondo: l’uomo è, di conseguenza, un essere materiale e spirituale insieme, nel quale ciascuno dei due elementi è imprescindibile.

Come giustamente dice Aristotele: l’uomo è un animale politico; vale a dire un animale politico; egli, infatti, vive in comunità strutturate ed organizzate. La base di queste comunità è la famiglia, che ne costituisce anche la cellula fondamentale, perché è lo strumento indispensabile alla perpetuazione della specie umana. In tutti gli animali, la procreazione è sempre unita a quel minimo di “addestramento” indispensabile per permettere alla prole di acquisire le capacità necessarie alla propria permanenza in vita. Visto che le bestie sono dotate, oltre che dell’anima vegetativa, unicamente di quella sensitiva, questo “addestramento” riguarda unicamente la sfera degli istinti. Per quanto concerne l’uomo, invece, egli è dotato di anima razionale e, conseguentemente, il bambino necessita di un’educazione che lo metta in grado di affrontare la vita sia sul piano materiale, che su quello spirituale. La famiglia è, come dicevamo, il “luogo” dove ciò può avvenire ed è questa la sua funzione fondamentale.

Il rifiuto di accettare l’essenza della natura umana e la sua universalità sono alla base di quella cultura gnostica, che impregna di sé quel filo rosso che, partendo da don Milani (1923-1967) giunge al Forteto, aprendo le porte ad ulteriori devastazioni del tessuto morale e sociale. La Gnosi rifiuta la materia, che assimila al non-essere di Parmenide (544/541-450 a.C.) o, nella migliore delle ipotesi, identifica con il male. In tale demenziale linea di pensiero, l’anima sarebbe prigioniera del corpo e, per questo, patirebbe ingiuste sofferenze; la vita stessa sarebbe il sommo male, in quanto incarcererebbe nel corpo un’anima fino ad allora libera nel mondo spirituale, con la conseguenza, sul piano etico, che il concepimento di un figlio diverrebbe il sommo crimine.

Dato che, come abbiamo visto, la famiglia è il mezzo di prosecuzione della specie umana, queste dottrine si caratterizzano tutte per l’odio nei confronti della famiglia e per il tentativo di sostituirla con altre forme di aggregazione umana, possibilmente sterili; nasce di qui il loro favor verso la pratica omosessuale, fino a definirla come espressione di «amore spirituale», proprio perché infecondo, contrapposta alla sessualità secondo natura, definita «amore materiale», proprio per la sua fecondità.

Quasi mai queste dottrine si presentano nella loro integralità, ma, normalmente, mostrano solo alcuni caratteri, molto sovente mistificati sotto le mentite spoglie di liberazione da vecchi stereotipi o tabù e, quindi, da antiche oppressioni. Ciò che, invece, appare sempre, sia pure in forme e con argomentazioni apparentemente diverse, è l’ostilità, fino all’odio, nei confronti della famiglia e, in modo particolare, nei confronti della figura paterna.

Una delle figure che maggiormente contribuì a portare queste idee nel mondo cattolico, anche se non lo fece tanto sul piano teorico, quanto su quello della prassi, fu certamente don Lorenzo Milani. Egli aveva un approccio marxistoide alla vita, anche se condannava, in teoria, le dottrine di Karl Marx (1818-1883), in quanto le riteneva, giustamente, incompatibili con il Cattolicesimo: riduceva la dottrina cristiana al comandamento dell’amore fraterno, che interpretava esclusivamente come «opzione preferenziale per i poveri» (anche se non utilizzò mai questa espressione), con una esasperata accentuazione della dimensione classista in essa contenuta. Il passaggio dal materialismo economicista allo spiritualismo gnostico, caratteristico di moltissime correnti del Novecento, è molto più facile ed immediato di quanto si possa, a prima vista, intuire.

L’anello di congiunzione, per il parroco di Barbiana, è l’esasperato egualitarismo, da cui deduce il rifiuto della famiglia, vista come causa e radice delle disuguaglianze sociali e, al tempo stesso, la svalutazione estrema della figura del padre, in quanto incarnazione dello stesso concetto di autorità, che il prete fiorentino identificava con quello di potere e in cui, conseguentemente, vedeva l’estremo strumento dell’oppressione delle classi dominanti ai danni di quelle subalterne.

In don Milani, il loro ruolo della famiglia è, nella migliore delle ipotesi, accessorio; esso, nella sua “logica”, deve essere sostituito da quello della scuola, ovviamente della “sua” scuola. Essa è concepita ed attuata come totalizzante, in modo che al ragazzo non rimanga tempo libero e la possibilità di sviluppare personalmente le proprie doti umane. 

«Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo [della scuola] orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico»4.

La “scuola”, per l’allievo, deve essere tutto. La vita viene concepita in chiave politica e collettiva: si tratta di una versione “cattolica” della Comune; è uno dei punti nei quali il materialismo e la Gnosi trovano il maggiore punto di incontro: la distorsione della natura sociale dell’uomo, ridotta a collettivismo, a partire proprio dall’eliminazione della famiglia come prima e massima espressione della socialità umana.

L’eliminazione della famiglia è, come abbiamo accennato, il passo essenziale che tutti coloro che desiderano modificare la natura umana devono compiere, perché, al suo interno, l’uomo apprende, tra le altre cose, il giusto equilibrio della sua dimensione individuale con la propria socialità. Al suo interno, si sviluppa il concetto e la pratica di ciò che la Chiesa cattolica definisce «dovere di stato»5: è qui che si sviluppa il rapporto tra sé e l’altro.

Qui la persona apprende i propri doveri verso Dio, verso se stessa e verso il prossimo. L’esistenza di Dio ed il fatto che sia Creatore, come dogmaticamente insegna il Concilio Vaticano I, sono verità raggiungibili dalla sola retta ragione umana. Questi concetti plasmano l’uomo nell’umiltà, vale a dire nella razionale consapevolezza di non essere onnipotente (né come singolo, né come intera umanità), impedendogli di cadere nell’übris)6. E nulla, come la quotidiana lotta della famiglia per la propria sopravvivenza, rende più immediatamente, diremmo quasi istintivamente, evidente il senso del proprio limite, fisico e spirituale, della propria oggettiva inadeguatezza al fine a cui si è chiamati. La famiglia è, quindi, la prima e migliore palestra di umiltà.

In famiglia, il bambino apprende di essere persona ed individuo, proprio nel rapporto con gli altri (genitori, fratelli e, più in generale, parenti tutti); comprende di essere unico, non fungibile e, al tempo stesso, di non essere in grado di bastare a se stesso. E, di fronte al bisogno di preservare la propria unicità ed alla propria insufficienza a tale fine, vede aprirsi due vie, entrambe necessarie: migliorare se stesso ed ottenere l’aiuto degli altri. Nel migliorare se stesso, egli scopre i doveri nei confronti della propria persona, tanto di carattere materiale, quanto e soprattutto di carattere spirituale.

Nel bisogno dell’aiuto altrui, il bambino scopre la bellezza dell’amore, che è sempre, almeno inizialmente, unidirezionale e, comunque, non è mai reciproco, nel senso di sinallagmatico7. Dall’amore della madre dipendono la sua venuta al mondo, la sua sopravvivenza e, conseguentemente, la sua possibilità di crescere ed adempiere ai propri doveri verso se stesso e verso gli altri. Questo amore è gratuito e non richiede contraccambio; il bambino impara la generosità e l’esigenza etica della riconoscenza e della gratitudine. «Non puoi fare questo alla mamma, che ti vuole tanto bene!» è la frase ormai proverbiale, con la quale il padre induce il figlio a comportarsi correttamente, non in virtù della propria autorità, ma facendo appello al suo sentimento di riconoscenza, prima, e di gratitudine, poi, nei confronti della madre, che dimostra tutto il suo amore gratuito nei confronti del pargolo con la sua stessa esistenza e con la perennità del suo comportamento. È il più alto e formale riconoscimento del ruolo di cuore della famiglia incarnato dalla mamma.

In famiglia, si impara anche il senso del limite e la gerarchia sociale. L’infante scopre di non essere l’unico fine del mondo e neppure di se stesso; ci sono, intorno a lui, altre persone che hanno la sua stessa aspirazione ad affermarsi ed a perfezionarsi, anche il suo stesso diritto a farlo, ma non sono uguali a lui, tanto per caratteristiche personali, quanto per funzione. Impara che, in famiglia come in ogni comunità, esistono delle gerarchie. 

Il padre incarna l’autorità e verso di lui si deve avere un sentimento duplice e, almeno inizialmente, contraddittorio di timore e di affetto. «Se ti comporti in questo modo, lo dico a papà» è la frase classica della mamma che ricorre all’estrema minaccia, per ricondurre il figlio a ragione, ma anche il massimo riconoscimento del ruolo di autorità ultima al padre; questo è il primo ruolo della figura paterna che il bambino incontra. Il ruolo del padre, però, è anche quello di sostegno, materiale e spirituale della famiglia; l’autorità paterna deriva, appunto, da questo ruolo, che viene riassunto nella proverbiale frase materna: «Ma come puoi mancare di rispetto a tuo padre, che si spacca la schiena tutto il giorno per noi?». Poiché l’aspetto materiale è il più immediatamente evidente, è quello che prima appare al figlio e dal quale egli trae anche quello spirituale; è di qui che l’Antico Testamento trae il principio, secondo il quale non esiste il figlio più grande del proprio padre; è lo stesso concetto che, nell’antichità pagana, è rappresentato dalla pietà filiale, simboleggiata da Enea che porta sulle spalle il babbo.

Tutto questo è completamente estraneo a don Milani, che, come abbiamo accennato, rifiuta la natura umana, tanto nella sua dimensione razionale, quanto in quella sociale. Il suo rifiuto della ragione dell’uomo risiede principalmente nell’arrogante perversione del suo fine: per lui, la ragione non ha lo scopo di riconoscere la realtà quale essa è e, conseguentemente, di adeguare il proprio comportamento ad essa, ma quello, satanicamente intriso di übris, di piegarla alla propria idea di giustizia, presunta migliore della stessa Creazione divina. Essa, in lui come in tutto l’Illuminismo ed in tutta la Gnosi, ha la presunzione di creare un modello astratto, immaginato come perfetto, e di adeguarvi la realtà; per raggiungere questo scopo chimerico, l’unico mezzo è la rivoluzione e l’imposizione violentemente totalitaria, tesa a snaturare le persone disgraziatamente soggette al suo potere.

Il delirio egualitario, cui aderisce senza riserve, gli fa rifiutare la natura sociale dell’uomo. Ogni società è, per sua natura, gerarchica e questa gerarchia prova nella famiglia il suo più compiuto paradigma, come molto bene ha compreso Confucio (551-479 a.C.), che ha spiegato come ogni autorità ed ogni potere, all’interno dell’umano consorzio, trovi il suo modello nella figura del padre all’interno della famiglia; di qui il suo disprezzo per l’istituto familiare e, in modo più specifico, per la figura del padre. Da ciò deriva il suo aberrante sistema pedagogico, teso non ad educare e, quindi, a far emergere, nella sua pienezza, tesa verso la perfezione, la natura umana, già insita, almeno in potenza, nell’educando, ma teso a snaturare il suo discepolo, per renderlo adepto e militante della sua ideologia rivoluzionaria, nella concezione leninista.

Questo si traduce in una femminilizzazione della natura umana, che parte, oltre che dall’eliminazione della figura paterna, dalla deformazione della madre. Impressionanti, a questo riguardo, sono i resoconti degli allievi di don Milani riguardo alle visite della «mamma» del sacerdote alla scuola di Barbiana. Quando Alice Weiss (1895-1978) visita i “suoi ragazzi”, don Lorenzo si trasforma: abbandona i panni burberi ed autoritari, a tratti violenti, del capo rivoluzionario, che lo caratterizzano normalmente, per acquisire una soggezione totale alla donna, anche a costo di tollerare, da parte degli allievi, disobbedienza ed insubordinazioni che ne minano l’autorità, la cui unica reazione consisteva in frasi, mormorate sottovoce, del tipo «te ne approfitti, perché adesso c’è la mamma, ma faremo i conti quando se ne sarà andata»; espressioni che sottolineano ulteriormente la mancanza di anche solo umana autorevolezza del parroco. Questo approccio è, palesemente, sintomo di un rapporto malato nei confronti della madre, cui sono attribuiti un’autorità ed un potere incompatibili con la virile autonomia che deve caratterizzare ogni uomo adulto, a maggior ragione se sacerdote. Questa esagerata soggezione deriva, nella migliore delle ipotesi, dall’eclissi della figura paterna, la cui autorità viene attribuita, in toto, alla madre, che viene ad accumulare in sé il ruolo di cuore e di capo non tanto della famiglia, che, in quanto tale, non viene riconosciuta, ma del figlio, che rimane totalmente dipendente dalla mamma; è la situazione che volgarmente viene stigmatizzata con l’espressione: «quell’uomo non ha mai tagliato il cordone ombelicale».

Per comprendere quanto ciò contrasti con un sano rapporto d’amore tra madre e figlio, può essere illuminante il confronto con il ruolo di mamma Margherita (1788-1856) nelle opere di don Bosco (1815-1888). Il Santo di Castelnuovo d’Asti, proprio perché nutriva un enorme rispetto ed un enorme affetto nei confronti di sua madre, mai ha abdicato al suo ruolo di padre putativo dei suoi ragazzi e di sacerdote, con la conseguenza di essere, per loro, l’immagine dell’autorità di Dio; mai avrebbe offeso la mamma, dandole un ruolo che non le competeva. E, sia detto per inciso, san Giovanni Bosco rimase orfano di padre all’età di due anni, a dimostrazione del fatto che, contrariamente a quanto sostiene la psicanalisi, più delle esperienze personali, è la retta visione della vita a condizionare l’agire e, addirittura, il sentire la vita. Dal canto suo, poi, mamma Margherita non si sarebbe mai sognata di imporre la propria autorità a detrimento di quella del figlio adulto e, ancor meno, di quella del figlio sacerdote, cui si sentiva, come ogni laico, gerarchicamente subordinata.

Quanto queste concezioni gnostiche e rivoluzionarie siano legate da un vincolo di causa-effetto con l’accettazione e l’esaltazione dell’omosessualità e, addirittura, dell’efebofilia8, della pederastia9 e della pedofilia10 è molto ben descritto dallo stesso don Milani nella sua lettera a Giorgio Pecorini11. In tale missiva, il prete di Barbiana ammette la sua attrazione sessuale nei confronti dei suoi ragazzi, ma non la attribuisce ad un suo disordine personale, ma all’«amare troppo»12 e dichiara di non aver dato seguito a questa sua inclinazione per l’amore nutrito verso Dio, la paura dell’Inferno ed il desiderio del Paradiso. È, quindi, evidente che l’amore di Dio, il timore dei Suoi castighi ed il desiderio dei Suoi premi non sono visti come convergenti a condurre l’uomo verso la perfezione della propria natura e, quindi, a seguire un’etica razionale, ma come dei limiti posti dall’esterno alla capacità di amare; l’amore è sempre visto come il sommo comandamento, indipendentemente dalla sua aderenza alla natura umana, in una logica che assumerà, come vedremo, espressioni deliranti nella vicenda del Forteto.

La svalutazione della figura paterna, così evidente in tutto l’insegnamento di don Milani, ma ancor più immediatamente percepibile nella lettera citata, dove se ne sfiora la messa in ridicolo, soggiace a questo approccio. Il padre è colui che è capace, nei confronti dei figli, di quell’amore tanto profondo quanto fisicamente distaccato da rendere impensabile, prima ancora che immorale, ogni coinvolgimento di natura sessuale, già anche solo a livello di pensiero. Ed il cerchio si chiude nella completa virilizzazione anche del sacerdote.

Per imporre una visione della vita tanto contro natura, oltre all’isolamento degli allievi dal loro contesto familiare e sociale, come abbiamo visto all’inizio di questo articolo, si rende necessario l’utilizzo sistematico della violenza, fisica e/o psicologica, che don Milani teorizza, oltre a praticare. «Quando ripresi la scuola nel 1952-53 avevo ormai superato ogni interiore esitazione: la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era la rovina della classe operaia. Con le buone o con le cattive bisognava dunque che tutti i giovani operai capissero questo contrasto e si schierassero dalla parte giusta.»

Mi perfezionai allora nell’arte di far scoprire ai giovani le gioie intrinseche della cultura del pensiero e smisi di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi occasione di umiliarli o offenderli.

«Per esempio capitava che andando in paese a telefonare trovassi 1 di loro nel bar a arrabattarsi coll’elenco telefonico. Se mi chiedeva di aiutarlo, invece di contentarlo alzavo la voce e lo infamavo: “Se avessi avuto a fare io la figura che hai fatto te ora, di doverti raccomandare a un prete, te operaio, sarei stato a’ patti di non mangiare e non dormire e di non conoscere domeniche né [sic] ferie finché non ce l’avessi sfangata da me. Gli operai come te sono proprio come li vogliono i signori. Non lo vedi che organizzano apposta il giro d’Italia e il cine per imboscarti e tenerti lontano dalla scuola e dal sindacato?”»13

Questo brano mostra chiaramente come il sovvertimento della retta ragione porti, inevitabilmente, al sovvertimento dell’etica. Si tratta, nel caso di specie, di una puntuale applicazione della cosiddetta «etica rivoluzionaria» o «doppia morale» di leniniana memoria; essa, poiché discende da una metafisica che nega ogni valore assoluto all’essere, non è altro che una specificazione del volontarismo14: essa, in estrema sintesi, afferma che nessun atto sia in sé buono o cattivo, ma che la bontà o la malvagità di ogni azione dipenda dal fatto che essa sia o meno utile alla causa rivoluzionaria; celebre è l’esempio che fa lo stesso Lenin (1870-1924): se un rivoluzionario uccide un reazionario, compie un meritorio atto politico, mentre, se un reazionario uccide un rivoluzionario, è un assassino.

Per don Milani, il sindacato e la sua scuola (o, più in generale, l’istruzione della classe operaia) sono gli strumenti rivoluzionari per eccellenza: ne consegue, dunque, che ogni atto teso a portare gli operai ad imparare a leggere ed a scrivere (o ad iscriversi al sindacato) sia di per sé buono, indipendentemente dalla sua intrinseca malvagità; di qui la giustificazione e l’esaltazione “etica” della crudele umiliazione pubblica di ogni operaio che, per qualunque ragione, si mantenga ignorante. Questo sovvertimento della morale naturale cristiana giunge fino all’apologia dell’uso della frusta come strumento “didattico”15.

Anche in questo caso, il confronto con don Bosco e con la sua pedagogia «dell’amorevolezza» e della prevenzione è tanto stridente, quanto illuminante: per il fondatore dei Salesiani, ogni punizione inflitta ad un discepolo è la conseguenza del fallimento del maestro, che non è riuscito a prevenire la mala azione dell’educando; per il priore di Barbiana, invece, la violenza è parte integrante e necessaria del metodo “educativo”.

Questi principi di vera e propria contro-educazione trovano la loro più “alta” teorizzazione ed applicazione nella comune del Forteto16. Tra il 1975 ed il 1977, nella frazione di La Querce di Prato, si gettano le basi di una comunità completamente alternativa alla famiglia e, più in generale, alla società “tradizionale”. Innegabile l’influenza della contestazione sessantottina, ma, senza nulla negare di questa esperienza di insurrezione totale contro tutto ciò che l’umanità era stata fino a quel momento, i riferimenti teorici si rifanno a dottrine più specifiche: è un misto di “pedagogia” donmilaniana, di tesi tratte dalla «Psicologia della liberazione»17 e di fascinazione della Rivoluzione Culturale cinese. A partire dall’agosto del 1977 la comune inizia la sua attività nel comune di Vicchio, in provincia di Firenze.

L’idea centrale è l’odio verso la famiglia, vista come strumento repressivo e struttura antiquata. Ad essa viene sostituita quella che al Forteto chiamano «famiglia funzionale», vale a dire un qualunque tipo di comunità, non importa come costituita, ma in grado di liberare la persona dai vincoli familiari; ideale è, secondo i capi di quest’iniziativa, il modello della comune, dove tutto viene condiviso e la totalità della vita è concepita come collettiva. In questa speciale comune, però, le idee di don Milani vengono portate alle estreme conseguenze. Il ripudio dell’istituto familiare è così profondo che le relazioni sentimentali esclusive sono bandite e gli stessi rapporti eterosessuali sono, per usare un eufemismo, molto scoraggiati, mentre vengono favoriti, in ogni modo, quelli omosessuali, senza distinzione alcuna, neppure di età.

Questa esperienza nasce nel mondo dell’estrema sinistra cosiddetta cattolica e si autodefinisce come una continuazione dell’opera di don Milani, di cui il capo carismatico, che si faceva chiamare «il Profeta», Rodolfo Fiesoli si dichiara seguace; egli dichiara, inoltre, di aver avuto come suo direttore spirituale quel don Raffaele Bensi (1896-1985), che fu ascoltata guida spirituale anche, tra gli altri, dello stesso don Milani, di Giorgio La Pira (1904-1977), di Padre David Maria Turoldo (1916-1992), di don Ernesto Balducci (1922-1992) e di Nicola Pistelli (1929-1964).

Il 30 novembre 1978 Rodolfo Fiesoli viene arrestato su richiesta del giudice Carlo Casini, Sostituto Procuratore della Repubblica di Firenze, nell’ambito dell’inchiesta sugli abusi sessuali perpetrati al Forteto.

Il 1° giugno 1979 Fiesoli lascia il carcere torna al Forteto, dove, lo stesso giorno, arriva il primo bambino down, inviato dal giudice Giampaolo Meucci, Presidente del Tribunale dei minori di Firenze, grande amico di don Milani e di don Ernesto Balducci, grande sostenitore, anche lui, della comune toscana. È l’inizio di una collaborazione con il dottor Meucci ed il suo Tribunale, che durerà anni e che servirà al Forteto quale grande accreditamento e difesa da ogni critica.

La cooperativa cresce economicamente a ritmi molto sostenuti, tanto da poter comprare, nel 1982, 500 ettari di terreno nel comune di Dicomano, dove si trasferisce.

Nel 1985 Fiesoli viene condannato a due anni di reclusione per maltrattamenti, atti di libidine violenta e corruzione di minorenne, con una sentenza che parla di «istigazione da parte dei responsabili del Forteto alla rottura dei rapporti tra i bambini che erano loro affidati i loro genitori biologici» e di una «pratica diffusa di omosessualità». Nonostante questa sentenza e nonostante la morte di Gian Paolo Meucci (18 marzo 1986), gli affidamenti al Forteto, da parte del Tribunale dei minori di Firenze, continuano.

La cultura laica e “cattolica”, nella sua grande maggioranza, sostiene il Forteto. Si distinguono in quest’opera di propaganda, per parte laica, la casa editrice Il Mulino, che pubblica diversi libri apologetici, e, per parte “cattolica”, i seguaci di don Milani, tanto che Rodolfo Fiesoli rimane influente consigliere del «Centro di documentazione don Lorenzo Milani e scuola di Barbiana», fino al suo arresto del 20 dicembre 2011. Politicamente, la sinistra toscana e nazionale difende «lancia in resta» il Forteto, tanto che il gruppo regionale DS e l’Istituto Gramsci organizzano, per il 31 gennaio 2003, a Firenze il convegno «Minori, diritto o punizione», cui viene invitato tra i relatori Luigi Goffredi, Presidente della Fondazione Il Forteto ONLUS ed ideologo della comune, e, addirittura, il gruppo Pd al Senato organizza, per il 4 febbraio 2010, la presentazione del libro di Rodolfo Fiesoli «Una scuola per l’integrazione».

Il 27 dicembre 2011 si costituisce il «Comitato Vittime del Forteto».

Non possiamo addebitare personalmente a don Milani i crimini del Forteto; è, però, innegabile la contiguità ideologica, come è innegabile che la comunità di Rodolfo Fiesoli nasca come un’espressione più coerente ed estremistica del pensiero del prete di Barbiana. Mentre don Milani viene trattenuto dall’amore verso Dio, dalla paura dell’Inferno e dal desiderio del Paradiso dal commettere abusi sui suoi ragazzi, Fiesoli ed i suoi non hanno tali remore, ma di tale mancanza di scrupoli don Lorenzo porta una qualche responsabilità, nel senso che la sua stessa visione dell’amore e, più in generale dell’etica, quando accolta da persone meno disponibili di lui ad osservare il comando divino, può, se portata alle estreme conseguenze, divenire giustificazione di tali comportamenti aberranti.

Per concludere, possiamo affermare che tali aberrazioni nascono dalla rinuncia alla metafisica e, in particolare, dall’incontro dei due filoni dottrinali che maggiormente ad essa si sono opposti: l’Illuminismo e la Gnosi. Essi si incontrano, come dicevamo, nella negazione della natura umana e, in modo particolare, nell’odio verso la famiglia, perché in essa emerge, molto più che altrove, la natura razionale, sociale e sessuata dell’essere umano; è in odio a questa triplice caratterizzazione dell’uomo che illuministi e gnostici combattono la famiglia.

Le gravi responsabilità di don Milani sono, quindi, quelle di chi più di altri e, soprattutto, in un campo tanto delicato come quello della pedagogia della scuola, ha dato coloritura “cattolica” a queste aberrazioni, promuovendo, sia pure involontariamente, i crimini del Forteto e, cosa, se possibile, ancora più grave, l’assoluzione, anche all’interno della Chiesa, della cultura del volontarismo allo stato puro, che prescinde dalla natura umana e pretende di “migliorare” la divina Creazione. Da qui tanta incomprensibile tolleranza cattolica nei confronti di tutti gli attacchi alla famiglia, dall’ideologia Gender all’ideologica sottrazione dei figli ai loro genitori.

1 Dal latino educare = allevare, alimentare, nutrire, curare, educare, istruire, formare, intensivo del verbo educre = estrarre.

2 Dal latino in = dentro (moto a luogo) e strure = disporre in ordine.

3 Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, IV, 30.

4 Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, 18 ottobre 1965.

5 Per «dovere di stato» si intende tutto ciò che ogni singolo uomo è chiamato a fare nella situazione (stato di vita) in cui Dio lo ha posto in quel preciso momento.

6 L’übris è, fin dall’antichità greca, l’atteggiamento di orgoglio, che pone l’uomo al di sopra delle leggi divine, portandolo a sentirsi misura di tutte le cose ed a compiere atti ingiusti, normalmente violenti, non tanto a causa della debolezza umana, ma come affermazione della propria presunta onnipotenza. L’übris si contrappone alla Diké ( Giustizia), che è, essenzialmente, equilibrio e proporzione, che porta l’uomo a compiere il suo dovere di stato, senza eccedere, vale a dire senza superare i limiti che le leggi naturali divine impongono.

7 Il sinallagma è il nesso di reciprocità nei contratti ad obbligazioni corrispettive; il pagamento della pigione è sinallagma del diritto ad utilizzare la cosa locata. Deriva dal verbo greco sünallasso, che significa «contrarre, stipulare» e, a sua volta, è l’unione di sün = insieme e allasso = prendere o dare in cambio. Anche fuori del linguaggio giuridico, significa reciprocità delle obbligazioni, con il conseguente venir meno dell’una al cessare dell’altra.

8 Per efebofilia si intende l’attrazione sessuale provata da un adulto nei confronti di adolescenti, indipendentemente dal loro sesso.

9 Per pederastia deve intendersi l’attrazione di un maschio adulto nei confronti di un adolescente maschio.

10 Per pedofilia si intende l’attrazione sessuale di un adulto nei confronti di bambini, indipendentemente dal sesso.

11 Lettera di don Milani a Giorgio Pecorini, in Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini e Castoldi, 1996, pp. 386-391.

12 Lettera di don Milani a Giorgio Pecorini, in Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini e Castoldi, 1996, pp. 386-391.

13 Don Lorenzo Milani, esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1957, pp. 128-129.

14 Per volontarismo deve intendersi la dottrina che pone la volontà al di sopra della ragione e ritiene che la prima determini la seconda.

15 Cfr. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, pp. 82-83.

16 Cfr. Il Covile nn. 729 (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_729_Forteto_.pdf), 730 (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_730_Forteto_dottrina.pdf), 735 (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_735_Forteto_Prequel.pdf), 766 (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_766_Forteto_Maestri.pdf) e 878 (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_878_Forteto_5_Lettera_don_Milani.pdf).17 Per «Psicologia della liberazione» si intende il tentativo di porre la psicanalisi al servizio della Teologia della liberazione. È stata fondata dal gesuita spagnolo, seguace della suddetta eresia marxisteggiante, Ignacio Martín-Baró (1942-1989), ucciso, il 16 novembre 1989, nell’assalto delle truppe salvadoregne all’Università Centroamericana José Simeàn Caàas di San Salvador, gestita da gesuiti seguaci della Teologia della liberazione ed ideologicamente vicini ai terroristi comunisti del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale.