di Enrico Nistri

Di don Milani, in molte opere di taglio agiografico, si è parlato come di un eroe del nostro tempo, come dell’illustre rampollo di una famiglia di famosi filologi che, come una sorta di moderno Prometeo, ha portato ai ceti meno abbienti il dono della parola, la conoscenza del preciso significato dei vocaboli, dalla quale, per una congiura millenaria, sarebbero stati esclusi. In realtà, seguendo il suo breve ma intenso curriculum vitae quale è stato ricostruito anche da opere apologetiche come la biografia a firma di Neera Fallaci, non è difficile rendersi conto che la sua è stata un’esperienza più complessa e travagliata. Dapprima gli studi, relativamente facili per il figlio di una ricca e colta famiglia di professori universitari, poi una ribellione al mondo borghese comuni a tanti altri adolescenti: una ribellione, nella sua prima fase, essenzialmente esteriore, consistente – come ricordò il suo coetaneo Oreste Del Buono – nell’usare un linguaggio sboccato all’epoca poco usuale e nel fare la bohème in uno studio col portiere gallonato all’ingresso.

Poi, dopo questa ribellione esteriore, fu la volta della scelta definitiva: la sua “conversione”, dopo l’agnosticismo giovanile, e la vocazione sacerdotale. Il giovane Lorenzo Milani entra in seminario, con una scelta che egli avrebbe definito “aristocratica”. Ma aristocratica in che senso, visto che virtù fondamentale di un cattolico e in particolare di un sacerdote dovrebbe essere l’umiltà? È egli stesso a farcelo capire, quando presenta il sacerdozio, nelle lettere ai familiari, come: “un mestiere col quale posso divertirmi tanto senza declassarmi neanche un attimo.”

Un’espressione assai più rivelatrice di quanto possa sembrare a prima vista, perché ci conferma che, nonostante le conclamate scelte di campo “dalla parte degli ultimi”, Lorenzo Milani non perse neppure un momento la consapevolezza della sua superiorità intellettuale e persino sociale: non si spiegherebbe, altrimenti, l’utilizzazione del termine “declassare”, che sta a indicare una caduta di prestigio esteriore, piuttosto che un abbassamento morale.

Anche il suo comportamento in seminario – quale risulta dalle testimonianze dei suoi compagni di corso e dalle sue stesse lettere – ci conferma questa fondamentale mancanza di umiltà. Il futuro sacerdote sembra quasi snobbare certe materie, certi insegnamenti (e di conseguenza certi insegnanti) e perfino certi suoi colleghi, ritenuti intellettualmente inferiori. Anche nella benevola biografia della Fallaci si accenna a una “tagliente ironia” nei confronti di compagni di seminario, di cui più tardi disertò i periodici raduni.

Una volta cappellano don Milani conferma il suo atteggiamento aristocratico – o, se si preferisce, snobistico – con la sua indifferenza ( per non parlare di aperta insofferenza) nei confronti delle forme popolari, anche esteriori, di religiosità, come le processioni o la pratica delle “Quarant’ore”. Le considera, probabilmente, espressione di una religiosità popolana “sensuale”, esteriore, sottovalutandone, con un atteggiamento che non è forse azzardato definire giansenistico, l’influenza sull’anima dei fedeli e anche di quanti alla fede cercano di accostarsi.

Eppure come ricorda la recensione del gesuita padre Perego a Esperienze Pastorali, proprio il ricordo della Via Crucis seguita da ragazzo, più che l’accesa predicazione sociale del suo maestro, avrebbe condotto al pentimento e alla fede un suo allievo prediletto, quel Giordano che molto spesso vediamo menzionato in questo libro.

Un analogo spirito aristocratico, o snobistico che dir si voglia, si avverte nella sprezzante insofferenza di don Milani nei confronti della figura del prete “gestore di biliardini”, animatore di attività sportive per i suoi parrocchiani. Svolgere queste attività costituiva infatti una maniera come un’altra di mettersi al livello degli umili, condividendone divertimenti e interessi, forse banali, ma certo semplici e onesti. Un atteggiamento che don Milani non ama, nonostante i suoi atteggiamenti populistici, a ulteriore conferma della saggia osservazione di Manzoni, nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, in cui osserva che è più facile mettersi al di sotto degli umili, magari servendoli a tavola, che sedere alla loro stessa mensa ponendosi al loro pari

Non a caso don Milani, piuttosto che sedere umilmente alla loro tavola, o semplicemente discutere con loro di sport come tanti preti che avevano seguito una via diversa, preferisce salire in cattedra scegliendo la strada aristocratica dell’insegnamento.

Abbiamo così la “Scuola di Barbiana” e la celeberrima Lettera a una professoressa, vera e propria summa della pedagogia, o se si preferisce dell’antipedagogia di don Milani. Un’antipedagogia dominata da due elementi: un classismo rozzo e manicheo, già riscontrabile in tante citazioni di “Esperienze pastorali”, un neo autoritarismo rigido, fondato su una spiccatissima componente di egolatria. Quando don Milani parlava – ricordano a questo proposito i suoi stessi agiografi – pretendeva la massima attenzione; se qualcuno parlava disturbando la lezione si seccava subito e allora erano “espressioni tutt’altro che ritoccate e percosse”. Nella stessa: “Lettera a una professoressa”, del resto si può leggere che nella “scuola di Barbiana” si faceva, se necessario uso della frusta. Una pratica sulla quale tanti apologeti libertari del manesco priore hanno a lungo preferito scivolare.

Corollario dell’egolatria di don Milani era del resto il suo esclusivismo, che si manifestava anche nella gelosia nei confronti delle altre persone di cultura che avrebbero potuto esercitare un ascendente sui giovani. Nella missione dell’insegnamento popolare don Milani non voleva concorrenti istruiti e i professionisti della zona – ricordano i professionisti della zona – erano ammessi alle conferenze purché se ne stessero “zitti e buoni in un cantuccio”.

A ben guardare, inoltre, nella Lettera a una professoressa affiora un’altra componente della personalità del sacerdote: una vena di misoginia, che lo spinge a vedere nella professoressa, appunto, non nel professore – forse non solo in quanto la classe docente è composta in prevalenza da donne – il “nemico di classe”. Non è da escludere, inoltre, che all’odio, per certi aspetti classista, di don Milani nei confronti degli insegnanti si unisse una sottile vena di disprezzo, derivante da un sentimento di superiorità sociale. Don Milani, proveniente da un’abbiente famiglia dell’alta borghesia, che annoverava al suo interno molti docenti universitari, non è da escludere che disprezzasse nell’intimo il lavoro di maestri e professori di scuola, di estrazione piccolo – borghese, che il linguaggio della contestazione pre-sessantottesca iniziava già a definire “le vestali della classe media”. Nella sua polemica con gli insegnanti perché “lavorano troppo poco”, rispetto agli operai, c’è, a guardar bene, sotto il velo populistico, un tipico atteggiamento da “padrone delle ferriere”, che vede in ogni lavoro la mera componente quantitativa.

Quel che colpisce di più, nell’atteggiamento di don Milani nei riguardi dei problemi educativi, è il radicalismo nella critica all’istituzione scolastica: una critica che si estende all’intera cultura “borghese” con alcune grossolane generalizzazioni. Il priore di Barbiana critica la scuola dalle radici, non accetta compromessi e soprattutto non si pone, come obiettivo dell’istruzione, la formazione dell’uomo di cultura senza aggettivi, nella sua completezza. Dei suoi allievi vuole fare dei sindacalisti, o tutt’al più degli insegnanti politicizzati ( e, infatti, molti di loro lo divennero, per altro con risultati alquanto mediocri).

Il suo odio per la cultura tradizionale a volte raggiunge forme impressionanti. A un amico che era redattore della Biblioteca Universale Rizzoli, benemerita della diffusione della cultura, egli scrive chiedendogli di compilare un’edizione de I Promessi Sposi depurata di tutte le parole difficili, perché riteneva che un testo non si dovesse studiare con l’ausilio delle note (troppa fatica), ma dovesse essere comprensibile di primo acchito. Se una parola, col passare del tempo, aveva assunto un significato diverso doveva essere cancellata o ammodernata, con buona pace delle ceneri del Manzoni del Monti, “colpevole” di aver composto una traduzione troppo bella ma anche troppo “difficile” dell’Iliade. E quale fosse il suo atteggiamento nei riguardi di chi non condividesse queste sue opinioni, appare del resto da questa sua franca minaccia: “Se qualche professore storce il naso, gli diremo che amava i signorini raffinati della media di ieri che hanno la cultura come privilegio di pochi, gli diremo che stia attento perché quando andremo al potere quelli come lui li manderemo in Siberia”. Parole, queste, che non mi sono inventato io, ma che si trovano nell’edizione delle “Lettere” di don Milani pubblicate da Mondadori in un’edizione, per altro, già ampiamente espurgata di molte intemperanze verbali dell’autore dai suoi stessi, imbarazzati, apologeti e, comunque, se, come molti altri miti, anche quello del priore di Barbiana reggerà al vaglio del tempo e della storia.

Ricordando questa verità, in un’epoca in cui parlar male di don Milani – o anche parlarne in termini non entusiastici – equivale a parlar male di Garibaldi, è imbarazzante, ma al tempo stesso doveroso. Resta da vedere, comunque, se, come molti altri falsi miti, anche quello del priore di Barbiana reggerà al vaglio del tempo e della storia.

Intervento al Convegno: “La pedagogia cattolica da San Tommaso ai falsi profeti di oggi”, tenutasi il 3 aprile 1977, a Firenze presso il “Circolo Borghese e della Stampa” per iniziativa della sezione fiorentina di “Una Voce” con la partecipazione del teologo Padre Tito S. Centi, O.P., del Docente Universitario Danilo Castellano, del prof. Adolfo Oxilia e del dottor Enrico Nistri. Il testo è stato tratto dallo “sbobinamento” del nastro registrato della conferenza ed è stato mantenuto lo stile discorsivo. L’intervento è apparso, tra l’altro, in “Controrivoluzione” n. 22 del novembre-dicembre 1992.