di Gildo della Querce

Non è facile mettere in fila una serie di banali idiozie come quelle che inanella Fratel Domenico Rosa; o meglio è facilissimo se si pretende di oltrepassare i confini del proprio conoscere, avendo per giunta l’ardire di voler illuminare il prossimo.

Nel pertugio da cui abitualmente scrive, il suddetto Fratel Rosa ha vergato in questi giorni un responsum dal titolo Doniamoci senza paura, che già dall’intestazione fa intuire al lettore avveduto di trovarsi difronte più ad un discepolo di Susanna Tamaro che di Gilbert Keith Chesterton (del quale il Nostro, con ogni probabilità, non ha mai sentito parlare e, se l’ha fatto, ha pensato si trattasse di un asso della pallacanestro d’oltreoceano).

Ebbene, sin dall’incipit il Rosa parte all’attacco, asserendo, col piglio del novello Savonarola, che “noi cattolici non possiamo fermarci a guardare la cristianità solo sotto il profilo della storia della civiltà, che sicuramente abbiamo contribuito a edificare apportando cultura e bellezza”. E già qui al predicatore basterebbe ricordare, ammesso che le abbia già udite, le parole di San Tommaso d’Aquino quando scrive: «Il bello e il bene si identificano nel soggetto, perché si fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come bello» (ST I, q. 5. a. 4, ad 1), per cui “apportare cultura e bellezza” alle umane vicende significa precisamente e cristianamente rimandare a Dio ogni cosa, facendo un vero e proprio apostolato (come avevano ben presente i costruttori di cattedrali, i cosiddetti medioevali), e non già, come vorrebbe far intendere Fratel Rosa, speculare oziosamente su qualcosa di accessorio e in definitiva inutile per la fede. Ma se intende lasciar chiuso in soffitta l’Aquinate, non dimentichi il Nostro l’ammonimento di San Giovanni Paolo II, senz’altro più adeguato al suo palato, quando disse: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (Insegnamenti, V, 1 [1982], 131).

E queste brevi note, si parva licet, sarebbero più che sufficienti a ridimensionare gli strali del Rosa; se non fosse che sia il titolo sia l’esordio non sono che un pretesto per dire, con la retorica mielosa e perbenista del cattolico adulto, quel che il Nostro apertis verbis non avrebbe né la scienza né il coraggio di dire. Tanto per “misericordiare” sia il peccato che il peccatore, Fratello Rosa ci spiega che i battezzati “che appartengono a questa categoria” (quale? quella dei cultori della storia?) sono, da un lato, coloro che “non mettono più piede in chiesa da decenni, tranne poi tornarci sulle spalle di quattro nerboruti vestiti di nero”, dall’altro, coloro che “hanno un’idea stramba della liturgia, non azione di un popolo in festa ma un evento che ha qualcosa di misterioso, nel senso più magico del termine”. Se non pare né utile né opportuno soffermarci sul moralismo spicciolo che individua la prima cerchia di misericordiati, qualcosa occorre dire sul pressappochismo liturgico in salsa Rosa: senza scomodare Gugliemo Durando o Ildefonso Shuster, verrebbe da chiedersi se chi scrive tali amenità abbia mai partecipato (actuose si capisce!) alla Santa Messa, dove subito dopo la consacrazione delle Specie, nel momento culminate dell’intera celebrazione, il sacerdote esclama: “Mysterium fidei”, propria a riassumere la natura trascendente dell’Eucaristia; mentre alle nostre scienze miserande non pare di ricordare che in alcun tratto della Messa, iuxta rubrias almeno, compaia il termine “festa”, senza che questo tolga uno iota alla letizia che promana da una liturgia celebrata come Dio comanda.

Ma anche il motivo giansenista o quello liturgico sono pretesti per andare oltre: “Sono costoro i conservatori di una regressione squallida, di una cultura cattolica di rifugio, nascosta sotto la difesa dei valori della nostra civiltà plurisecolare”. Evidentemente Fratel Domenico Rosa ha un profondo e doloroso dissidio interiore da sanare (e ci spiace per questo), ma ha deciso di farlo nel peggiore dei modi, col giudizio temerario, col parricidio, pensando così di rifarsi il belletto.

In tanta pochezza, che ispira infondo commiserazione, siamo però nuovamente confermati su chi siano, nella Chiesa, coloro che minano l’unità, si sentono superiori ai fratelli, si ritengono depositari del messaggio evangelico, a dispetto di chi invece non merita alcuna cittadinanza nella nave di Cristo.