Quando alle 10,30 scendiamo alla stazione di Napoli ho, come ogni volta, un balzo al cuore, nel rivedere quel mio quartiere dove ho abitato gli ultimi due anni dei miei quattro di insegnamento a Napoli… sì, via Bologna, nel quartiere della Ferrovia, insomma piazza Garibaldi come fu ribattezzata, dopo la colonizzazione risorgimentale, piazza Stazione, dove, nel 1904, venne eretto un immenso monumento al barbuto Eroe dei Due Mondi (sic) opera (bruttissima) di Cesare Zocchi.

Ecco, allora, nei lontani anni Ottanta, avrei potuto scrivere un pezzo sul “colore napoletano” di questo quartiere – e lo scrissi infatti per il quotidiano svizzero «La Gazzetta Ticinese» del 9 ottobre 1982 – ma oggi cosa scriverei di questa “plaga” della città che non è più Napoli, che non è più Italia, che non è più Europa (un tempo quell’Europa che aveva portato nel mondo la Civiltà Cristiana si chiamava – tout court – Cristianità) ma che è diventata un suk, un agglomerato afro – arabo disordinato, dove non ritrovi più quella gente, quelle grida, quei saluti, quei vestiti ora eleganti, ora casual, ma sempre caratteristici, sì, anche quei panni stessi e perfino quelle donne che ti vendevano le sigarette di contrabbando e, la notte, con il freddo, accendevano anche il fuoco per scaldarsi… ma aumentavano il prezzo pretendendo la “tariffa notturna”; scendiamo e attraversiamo quel dedalo di strade dove, una volta, potevi acquistare la frutta fresca portata sui banchi di un perenne “mercatino” dai contadini della campagna, dove ti salutava Enzo, il barista che, quando entravi subito metteva la tazza sotto i “becchi” della macchinetta, e ti preparava quel caffè, doppio, amaro e basso. «Una squisitezza come piace a voi», poi il Salone con il parrucchiere dove me ne andavo, oltre che a farmi capelli, a scambiare quattro chiacchiere con Ciro, il proprietario, e a leggermi in pace il giornale. E siccome citai in un mio articolo su «Candido» – ero vaticanista di quel settimanale fondato da Giovannino Guareschi e, allora, diretto dal Senatore Giorgio Pisanò – il Salone di Ciro lui non voleva che pagassi il servizio di “barba e capelli” e io, in cambio gli regalai un abbonamento a «Candido» e siccome lo metteva nel salone, ogni volta gli avventori volevano sapere da me le ultime notizie sulla “politica vaticana”, che era già una politica “sinistra”, ma oro di fronte alla arrogante apostasia odierna …. ricordo perfino, in un “fazzoletto” di negozio, il venditore di brodo polipo, di color rosa, a cento lire il bicchiere, salatissimo da far prendere un attacco di ipertensione all’incauto acquirente, e quella elegantissima pizzicheria «Scarciello» (venivano anche dal Vomero a comprare le mozzarelle di bufala e il prosciutto dolce), e come dimenticare Franco, che la mattina intonava le canzoni napoletane, con la sua bella moglie, il giovane macellaio che mi suonava il campanello quando faceva la “zuppa forte” ed è sparita – forse vi avranno fatto una moschea – quella piccola cappella, davanti al mio portone, dove, ogni mattina, il parroco del Mercato veniva a celebrare la S. Messa per pochissime persone e dove – a quei tempi era impensabile! – io feci celebrare, alcune volte, la Messa nel rito romano antico, la Messa della Tradizione, la Messa di sempre e di tutti, da due sacerdoti amici che vennero a Napoli, l’argentino don Raoul Sanchez Abelende, un Docente di filosofia nell’Università di Buenos Aires e, poi, nel Seminario della Fraternità San Pio X di Mons. Marcel Lefbvre e don Luigi Cozzi… credo che ormai i cristiani rimasti in questo quartiere si possano contare sulle dita di due mani…. ormai qui regnano il “libro sacro del Corano”, Allah e il suo profeta Maometto!

È rimasto il Caffé Mexico, il caffè più buono di Napoli che ti servono già inzuccherato, con la tazzina caldissima, per cui se lo vuoi senza zucchero devi prima annunziarlo: «un caffè amaro!», ed è rimasta anche la premiata pasticceria «Lauri», in mezzo a questo suk, ove si mescolano, per dirla con il Sommo Poeta

 

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore accenti d’ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle

 

sì, in mezzo a questa folla di “neri” in caffettano, con in capo delle papaline di lana, nonostante i 37 gradi e l’afa inconsueta, che fanno sobbalzare Fabio che strabiliato mi dice : «Ma come mai portano quegli orinali in testa?», resiste, come in trincea, una delle pasticcerie – l’unica in questa zona – più famose di Napoli dove ti servono al banco le sfogliatelle ricce o frolle ancora calde e i babà… con aggiunta di rum… e insieme alle sfogliatelle e ai babà da Lauri puoi ancora gustare quella cortesia e quell’umanità di cui pochi parlano, quelle doti di gentilezza e delicatezza che solo i napoletani sembrano avere quando ti salutano affidandoti alla Mamma celeste. «Che a’ Maronna v’accumpagne». E che oggi in questo quartiere del terzomondo cercheresti invano.

 

I “nuovi” padroni di Napoli hanno occupato, da ambo le parti i marciapiedi di via Bologna e di tutte le vie parallele e adiacenti dove hanno esposto la loro mercanzia fatta di “cineserie”; si alterna, in questo cesso a cielo aperto, l’odore acre dell’urina – e non solo di quella – con quello aspro dell’hascish, con il lezzo del kebab; mentre sto telefonando si avvicina velocemente al nostro fotografo (Fabio ha diciotto anni) un figuro che sibila : «Vuoi fumo? Coca? Ti porto tutto quello che vuoi» e al diniego secco di Fabio il figuro sguscia via come le serpi e, veloce come i topi di fogna, che, a sera, fanno la loro vistosa comparsa in questa piazza, abborda ora due ragazzine con la solita richiesta; acceleriamo il passo ed eccoci all’Hotel (ex) Cavour, un tempo, almeno fino gli anni Novanta, un bell’albergo a cinque stelle – ma i prezzi erano abbordabili – del quale ero, quando mi recavo a Napoli, cliente abituale. Ricordo, all’ingresso, la porta girevole con bussola modello Tourmiket 1903, la Reception con un grande banco e la luce soffusa, il grande salone e l’arredamento delle camere con look retrò, le poltrone damascate di color rosso, ormai lise, dove si sprofondava beatamente e i facchini che ti portavano la valigia in camera. Ora l’albergo di stelle ne ha soltanto tre e fa parte di una grande catena BB trendy… l’arredamento è dozzinale, da Ikea, anche questo fa parte di un “livellamento” dal basso dei gusti delle persone, del “mordi e fuggi”.

 

E dal balcone della mia camera che da’ su piazza Garibaldi si domina il paesaggio: manca soltanto il minareto; a sera si sentono i tam tam assordanti e assistiamo a uno spettacolo che sembra si ripeta, ciclicamente, durante tutta la giornata: a un certo punto – nonostante l’ora tarda i marciapiedi sono ancora affollati di “umanità varia” – si sentono urla belluine e tutti cominciano a correre, due gruppi di africani cominciano a darsele di santa ragione, mentre altri si intromettono non si capisce se per aizzare o per dividere. Sembra un mare in tempesta, uno spettacolo che mette paura. Mi chiedo se, questa volta, non ci scappi il morto. La battaglia continua e i gruppi si inseguono e si spostano proprio come le onde. Finalmente l’urlo lacerante delle sirene della polizia che arriva con due volanti e due motociclisti… la ressa si ferma…

 

Al mattino scendo di buon ora, ancora non è spuntato il sole, e frotte di gabbiani – non pensavo che i gabbiani fossero così grandi e così “aggressivi” – ti vengono incontro famelici sul marciapiede sinistro guardando la stazione, camminano minacciosi e lanciano lugubri gridi, divorando i resti – e ce ne sono in abbondanza abbandonati in mezzo alla piazza e sul marciapiede – di quel che resta dei rifiuti gettati alla rinfusa. Uno spettacolo surreale.

Dopo qualche ora, mentre ci rechiamo al Duomo, alcuni giovani e dei consiglieri comunali e regionali di Fratelli d’Italia affiggono un grande striscione in mezzo alla piazza “Piazza dell’Islam – già piazza Garibaldi”… un uomo del popolo osserva il grande cartello e, approvando, se ne sorte con questa sentenza: «O’ vidite. Tutti ce l’hanno con Salvini e nun capiscono che Salvini simmo noi!». Parlo con queste persone e mi confermano nella mia prima impressione: la piazza è diventata “zona franca”, qui gli islamici la fanno da padroni… non siamo più a Napoli, ma in un qualsiasi villaggio afroislamico. Lo striscione, una “provocazione”, come ci dicono i responsabili, viene tolto dopo pochi minuti (abbiamo avuto però il tempo di fissarlo nell’obbiettivo) da solerti vigili di de Magistris che è una specie di Tito Boeri partenopeo: «abbiamo bisogno – dice Giggino – di più immigrati, ne debbono venire ancora».

Chi sa, forse, anche «Giggino ‘e Napule», come «Boeri oh caro!», pensa che grazie a questo formicolaio africano che fa impressione si potranno salvare le nostre pensioni!

 

Un tempo, tra i giornalisti, il primo che arrivava a Napoli ti faceva un pezzo contenente i soliti luoghi comuni: il paese della pizza, la confusione della città, il gioco delle tre carte, lo scippo, il borseggio e… poteva mancare, la camorra e il Sangue di San Gennaro che agli occhi del laicismo pecoreccio nostrano rappresenta un vero e proprio scandalo. Ho sotto gli occhi, l’ho riletto in questi giorni, un libro “razzista” nei confronti dei meridionali, di Giorgio Bocca: L’Inferno – Profondo Sud, male oscuro (Mondadori 1992). Bocca è uno scrittore che, a differenza di Saviano, conosceva la grammatica e la sintassi e soprattutto non faceva copia-incolla usando il lavoro altrui – ma che aveva, nei confronti dei napoletani, la stessa “puzza sotto il naso”, gli stessi pregiudizi che avevano i colonizzatori piemontesi e che si tramanderanno, di padre in figlio, quei circoli radical-chic, quei comunisti senza partito che furono gli azionisti, quei liberali di tutte le tinte, che, in nome del progresso, avrebbero voluto cambiare i cervelli, e, soprattutto, l’animo della gente del Sud.

 

Ora che ampie zone di Napoli si stanno trasformando in territorio islamico… nessuno che scriva un rigo su questa città che si vede invasa dalla Mezzaluna, dopo essere stata invasa e depredata dalla soldataglia francese nel Settecento e da quella piemontese nell’Ottocento. Nessuno che ricordi il valore di questa gente. E i napoletani allora non furono, come vorrebbe farci credere Bocca, una sorta di popolo di mandolinari, di gente accomodante pronta a ogni compromesso, di gente che “vive alla giornata”, priva di cultura, che perde il tempo ad andare in chiesa, che prega con forme devozionali ridicole, che crede alle lacrime della Madonna e al sangue di San Gennaro, di gente che non ha voglia di lavorare e che ama “il dolce far niente”… insomma di gente senza midollo e spina dorsale.

 

E invece il popolo napoletano non è fatto di mandolinari… ma di gente che ha radici profonde (e le radici profonde non gelano!) e che ha saputo difendere il proprio Regno, le proprie tradizioni, i propri focolari.

Ecco perché quando ho postato su facebook la foto dello striscione provocatorio «Piazza dell’Islam – Già piazza Garibaldi» molti sono stati i commenti di coloro che, più o meno, mi hanno scritto (riassumo): «Non è che tra gli islamici e Garibaldi ci sia molta differenza, ambedue sono “colonizzazioni” del nostro popolo».

 

«Sì, i sudisti volevano bene ai loro Borboni… Chi li vendette ai nuovi padroni – scrive Rino Camilleri – furono i ricchi proprietari, cui il liberalismo prometteva mari e monti… nel 1838 i “cafoni” di Casali di Cosenza reclamavano i loro antichi diritti di pascolo e di semina sui terreni ufficialmente demaniali ma di fatto da tempo in possesso dei latifondisti. Ferdinando II diede ragione ai contadini. Ancora nel 1849 il Re distribuì ai contadini poveri le terre tolte ai proprietari che non erano in grado di produrre documenti attestanti la loro proprietà. Nel 1860 Garibaldi (quello del monumento in piazza Stazione a Napoli n.p.c.) nominò governatore generale della provincia di Cosenza, e lo dotò di poteri illimitati, il rappresentante dei proprietari terrieri Donato Morelli. Questi dopo pochi giorni abolì i decreti di Ferdinando II e restituì i terreni toltogli dai Borboni al barone Francesco Guzzolini, che guarda caso era presidente del comitato rivoluzionario cosentino. Il nuovo Regno d’Italia completò l’opera abolendo ogni vincolo consuetudinario sulla proprietà terriera. Fu così che i meridionali dovettero prendere la via dell’America se volevano mangiare.  Tra il 1786 e il 1914 raggiunsero l’incredibile cifra di quattordici milioni, su una popolazione complessiva molto inferiore a quella odierna».

 

E poi quella guerra civile, sanguinaria, feroce, portata al Regno delle Due Sicilie per liberarlo da una dinastia di Re che erano amati dal popolo… una «libertà che» – dice l’eroe di Carlo Alianello ne L’Alfiere –  «che quando te la portano con le baionette non è più essa»… ma torneremo sull’argomento.

Ma ecco quel Sangue di San Gennaro che, periodicamente si liquefà, quella devozione popolare al martire cristiano protettore della città, è uno dei motivi che scandalizzano le “eccelse menti” dei laicisti antichi e odierni che, giornalmente, consultano gli oroscopi almeno tre volte al giorno. Si realizza il miracolo del Sangue di San Gennaro: il sabato precedente la prima domenica di maggio e gli 8 giorni  successivi, il 19 settembre (data del suo martirio avvenuto a Pozzuoli nel 272 durante la persecuzione di Diocleziano) per tutta l’ottava delle celebrazioni e il 16 dicembre; il sangue del Santo fu raccolto – com’era in uso a quei tempi – da Eusebia e messo in due ampolle e portato, insieme alle altre reliquie, in un primo tempo a Napoli poi, a Benevento dove Gennaro fu vescovo. La potente famiglia patrizia dei Carafa (il cardinale Oliviero e il fratello, l’arcivescovo Alessandro) riuscì, nel XV Secolo, a riportare a Napoli le reliquie e a porle in una cappella costruita sotto l’altar maggiore del Duomo (Cappella del Succorpo), poi fu costruita un’altra splendida cappella (la Cappella del Tesoro di San Gennaro) che fu consacrata soltanto nel 1646 .

Garibaldi, astuto rivoluzionario, si recò, al suo ingresso in Napoli, a “rendere omaggio” a quelle ampolle e si portò dietro Fra’ Pantaleo, un frate rivoluzionario in camicia rossa, con la spada e due pistolone ai fianchi, una tragica macchietta giacobina (una sorta dell’odierno Padre Antonio Spadaro) che proclamò, salendo sull’ambone della chiesa: Garibaldi come l’inviato da Dio dopo Gesù Cristo.

Cosa in realtà pensasse del miracolo di San Gennaro Garibaldi – un personaggio che chiamò il suo ciuco Pio IX, definendo, poi, quel Papa Beato «un metro cubo di letame»- lo scriverà, dopo, in un suo libro di scritti politici allorché definirà il Sangue: «Un’ umiliante composizione chimica» invitando a «frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno!».

 

Poi ancora anche il Giacobinismo clericale, quello più schifoso e odioso, tentò di far tacere per sempre la voce del popolo in quella commuovente devozione popolare, ovvero – come scrissero allora le Gazzette – di «mandare il Santo in serie B» modificando il calendario liturgico e mettendo alcune memorie dei santi obbligatorie, altre memorie, come San Gennaro, facoltative.

I napoletani – e non solo loro – risposero al concilio con una sonora pernacchia e una ignota mano scrisse davanti al Duomo di Napoli : «San Gennà fottitene». 

Io ho, al capo del letto, oltre al Crocifisso, alla Madonna del Carmelo e alla Sagrada Famiglia, anche San Gennaro e il 16 dicembre andrò a Napoli, nuovamente, per assistere al miracolo del Santo beneventano e vi andrò con devozione e umiltà – alla faccia del laicismo imperante che non crede al miracolo del sangue, ma frequenta pitonesse, psicologi, fattucchiere e maghi – reciterò, nel bel dialetto napoletano, quella preghiera che recitavano (e credo recitino ancora) le “Parenti”:

 

San Gennare…Tu sempre ci hai cunzulato, e sempre nce’ haie conzula’.

Sempre nce’ haie aiutate, e sempre nce’ haie aita’.

E in vita e in morte nun ce ‘ haie abbandunà.

Fonte: Europa Cristiana

 foto di Fabio Coppola