Se a Napoli il Quartiere della Ferrovia è un quartiere divenuto ormai “terra musulmana”, come abbiamo ampiamente documentato, non mancano, nella città, i ricordi – ahimè annebbiati – di quello che fu un vero e proprio combattimento, una resistenza tenace e convinta contro la Mezzaluna islamica. Da piazza Garibaldi dunque (ribattezzata “Piazza dell’Islam”) arriviamo, a piedi, sotto un sole di luglio che ti brucia, fino a Porta Capuana e alla chiesa di Santa Caterina a Formiello (dal latino formis = condotto) in quanto nei pressi di Porta Capuana penetrava in città l’antico acquedotto della Bolla. Nel 1492 Alfonso II d’Aragona, Duca di Calabria, fece traslare in questa chiesa dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, parte dei resti degli Ottocento Martiri di Otranto uccisi dai turchi, in quella città, nel 1480, per non aver rinnegato la propria fede.

E quante volte, nel corso degli anni, passai da quelle parti, percorsi quelle vie… Porta Capuana, Castel Capuano, i Tribunali, ma nessuno mi aveva detto mai come quella chiesa contenesse le sacre reliquie di quei Martiri cristiani che, oggi, sembra additino, invano, ai fedeli “dormienti” la via per raggiungere il Cielo. Ora grazie a un caro amico, il prof. Enzo Gallo, che in questi pochi giorni ci ha fatto da guida, rileggiamo un pezzo della nostra storia che nelle scuole non si insegna o, almeno, dal Sessantotto in poi (complici una serie di ministri ancor più asini degli energumeni discenti “sessantottini”) non si è più insegnato: nel 1478 il crudele Maometto II incorpora all’Impero l’Albania ma, prima della morte, egli volle tentare il grande colpo e portare la guerra sulle coste italiane e iniziò  dal Regno di Napoli, da Otranto, a un centinaio di chilometri dall’Albania che, proprio allora, era caduta sotto il giogo islamico. La cittadina, presidiata da truppe napoletane – spagnole, con soli quattrocento soldati, si trovò davanti la flotta di Gedik Ahmet pascià, che contava 90 galee, 50 galeotte e diciottomila uomini. I turchi invitarono alla resa, ma il vescovo Stefano, il governatore Zurlo e il baglivo Ladislao di Marco rifiutarono sdegnosamente. La piccola guarnigione si disperse velocemente nelle campagne ma la popolazione resistè eroicamente per due settimane nella vana attesa dell’esercito. I turchi invasero la città depredando, saccheggiando, stuprando e profanando le chiese: la cattedrale fu trasformata in una stalla per i cavalli (evidentemente Garibaldi, durante l’Invasione del Regno delle Due Sicilie, ripeteva le gesta di Gedik Ahmet pascià!) il vescovo venne fatto a pezzi a colpi di scimitarra, il comandante della guarnigione e alcuni prelati furono segati vivi a metà. I turchi pretendevano l’abiura della fede cattolica da parte dei cristiani: alcuni, dotati di ricchezze, riuscirono a salvarsi pagando un fortissimo riscatto, ma la maggior parte della popolazione rifiutò, con grande coraggio, l’abiura.

«Scegliamo piuttosto di morire per Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo» gridò per primo Antonio Primaldo Pezzulla, e per ottocento volte i turchi si sentirono rispondere di «NO» e per ottocento volte la scimitarra della Mezzaluna calò sul collo dei martiri cristiani. I corpi di questi 814 eroi vennero tagliati in due e ricuciti metà uomo e metà donna e impalati lungo le mura. In tutto furono uccise 12.000 persone e 5000 deportate, come schiavi, soprattutto bambini e donne…

Il Santo Padre Sisto IV emanò una bolla per la Crociata contro gl’infedeli … immaginate il Papa attuale di fronte a questa situazione; forse avrebbe trattato da “retrogradi” e “anticonciliari” i poveri martiri che si erano immolati per la Fede, invitando, poi, in Vaticano i carnefici… naturalmente in nome del dialogo ecumenico e dell’accoglienza.

E mentre ci rechiamo, passando davanti ai Tribunali, alla Basilica e al Monastero di Santa Chiara, Enzo Gallo ci racconta come anche nella basilica gotica più importante della città voluta da Roberto d’Angiò e della sua consorte Sancia di Maiorca,  ci sia un importantissima memoria identitaria della “guerra contro l’invasione islamica”: il 14 agosto 1571 vennero solennemente consegnate a don Giovanni d’Austria, l’eroico giovan, figlio bastardo di Carlo V, il Vessillo Pontificio di Papa Pio V ed il bastone di comando della coalizione cristiana prima della partenza della Flotta della Lega Santa per la Battaglia di Lepanto.

Ma il «munasterio ‘e Santa Chiara» è qualcosa che sta nel cuore di ogni napoletano grazie anche a quella dolce e melodiosa canzone di Murolo in cui un emigrante ricorda i tempi nei quali per una delusione d’amore la ragazza si chiudeva in convento e si sposava con Gesù:

«Quante ffemmene sincere / Si perdevano ll’ammore / se spusavano a Gesù…», a differenza di oggi che se perdono un innamorato altri cento ne trovano perché, come dice la gente, non c’è più una donna innocente : «Mo se perdono ‘n’amante,/ Già ne tienano ati cciento, /Ca, ‘na femmena ‘nnucente, / Dice ‘a ggente, nun c’è cchiù …» e allora il nostro migrante si rivolge, soavemente, al Monastero, evidentemente simbolo caro ai “malati d’amore”, e le narra tutta la sua nostalgia… e anche la nostra perché non c’è persona, anche fuori Napoli, che ricordando questa melodia non ricordi la propria giovinezza e le proprie pene d’amore, ponendosi l’interrogativo se tornare o non tornare nella bella Napoli:

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Munasterio ‘e Santa Chiara,

Tengo ‘o core scuro scuro.

Ma pecché, pecché ogne sera

Penzo a Napule comm’era?

Penzo a Napule cumm’è?

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E in questa chiesa, dedicata a Chiara, la Santa vergine che, sulle mura di Assisi, mostrando il Santissimo nell’ostensorio, mise in fuga i feroci musulmani, ci sono, ai lati, tante cappelle e ciascuna con un ricordo caro al mio cuore. Ricordo che nel 1984, sempre, allora come ora, con Enzo Gallo e con altri amici del Fronte Monarchico Giovanile e di «Fede e Libertà», quando ci recammo a ricevere, in una basilica gremita fino all’inverosimile di gente di tutte le età e di tutte le condizioni, le spoglie mortali di Francesco II, ultimo Re delle Due Sicilie, che tornavano nella sua Napoli, a riposare, in attesa del Giudizio Divino, insieme alla cara madre, ovvero a Maria Cristina di Savoia «‘a riggina Santa» e al padre Ferdinando di Napoli e, soprattutto, all’amata consorte Maria Sofia di Baviera. I due sfortunati Sovrani, a Gaeta, insieme ai Principi del Sangue che misero al servizio del Re la propria spada, combatterono con estremo eroismo sulle mura di Gaeta, assediata dall’invasore piemontese, dove imperversava il tifo e il colera, migliaia di bombarde. Sì, ripenso a quel pomeriggio piovoso di quarant’anni fa, ai miei “anni verdi”, ai miei sogni e a quel tonfo al cuore quando davanti mi passò il feretro con i resti dell’ultimo Re, il mio Re … quel Re che Ferdinando Russo così ricorda, insieme alla Regina Sofia, nel suo poemetto ‘O surdato ‘e Gaeta:

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Era ‘o Rre nuosto! Francischiello nuosto,

ca maie s’è alluntanato ‘a coppa ‘e mmura!

Nce aveva fatto o callo e ‘o core tuosto,

e nun sapeva che vo’ di’ paura!

Signò, sentite ‘o servitore vuosto!

Nun ce vuleva, chella jettatura!

O chiammavano scemo e Lasagnone,

ma annascunneva ‘o core ‘e nu lione!

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E a Riggina! Signò!..Quant’era bella!

E che core teneva! E che maniere!

Mo na bona parola ‘a sentinella,

mo na strignuta ‘e mana a l’artigliere…

Steva sempre cu nui!..Muntava nsella

currenno e ncurraggianno, juorne e sere,

mo ccà, mo llà…V’ ‘o ggiuro nnanz’ ‘e sante!

Nn’ èramo nnammurate tuttequante!

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In questa cappella dove riposano nella pace del Signore le ossa dei sovrani di Napoli recitiamo devotamente il De Profundis e ricordiamo le parole di re Francesco vergate in una lettera all’Imperatore dei francesi prima di lasciare Gaeta:

«Io sono stato vittima della mia inesperienza, dell’astuzia, dell’ingiustizia. e dell’audacia di una Potenza ambiziosa; ho perduto i miei Stati ma non la fiducia in Dio e nella Giustizia degli uomini. Il mio diritto è ora il solo mio patrimonio, ed è mestieri che per difenderlo io mi faccia seppellire se fa d’uopo sotto le fumanti ruine di Gaeta…».

Riposa in pace o amato Sovrano dei miei verd’anni e, ora, dell’ultima mia stagione!

Ho gli occhi pieni delle bellezze di questa chiesa, ma la tristezza nel cuore quando, prima di uscire, Enzo Gallo ci indica la tomba del Servo di Dio Vicebrigadiere Salvo D’Acquisto: onore a questo carabiniere eroico che vorremmo veder subito salire alla gloria degli altari!

Era nato nel 1920, da una famiglia religiosissima, ad Antignano, primo di cinque fratelli, e nel 1939, a diciannove anni si arruola nei Carabinieri e – ecco il legame dell’eroe napoletano con la mia Firenze – nel 1942 frequenta la scuola sottufficiali della Città del Fiore, quindi viene inviato, nel 1943 a Torre di Paliduro presso la locale stazione dei carabinieri. I tedeschi, che avevano occupato una caserma della Guardia di Finanza, subiscono un attentato e una bomba uccide due militi delle SS e scatta la tremenda rappresaglia. Vengono prese ventiquattro persone: a ciascuna viene consegnata una pala per scavarsi la fossa: il macabro rituale va avanti dalle 10 del mattino fino alle diciassette… viene chiamato anche, per dare una parvenza di legalità all’eccidio, il Comandante della locale Stazione dei CC… ma il Maresciallo quel giorno non c’è, è in permesso, e allora si reca subito sul luogo il giovane Salvo, il vicecomadante. Salvo cerca, prima, di consolare i morituri, le cui grida, le cui preghiere, i cui lamenti gli spezzano il cuore… ma non resiste a tanto scempio, comprende del resto che l’unico modo per salvare la vita a questi sgraziati è quello di immolarsi per loro e dichiararsi il solo responsabile dell’attentato alla caserma e corre dal comandante tedesco e, scattando sugli attenti, gli dice: «Liberate subito questa gente, sono tutti innocenti… l’attentatore sono stato io». Fu fucilato e perfino i suoi carnefici rimasero colpiti e commossi da quel gesto. Pochi giorni prima aveva scritto alla mamma: «Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio a prezzo di qualsiasi dolore e di qualsiasi sacrificio».

Il 23 settembre del 1943, è il giorno della nascita al cielo del giovane vicebrigadiere.

Anche Salvo, dunque, fa parte del “cuore” di Napoli e, penso, che, dall’alto, protegga la sua gente, la sua città, la sua storia e le sue tradizioni.

Così il prof De Gioia lo ricorda in questi suoi versi dialettali:

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Guaglione d’Antignano,

carabiniere

era graduato

vice brigadiere,

D’acquisto Salvatore

anima ardente,

è stato salvatore

‘e tanta gente

…………………………………….

“Mammà nun chiagnere!”

dicette certamente,

“puro si moro

salvo chi è innucente!”

…………………………………

A Santa Chiara sempe

sta ‘na luce

na lampedella

sotto a chella croce,

appiccia fuoco mpietto,

appiccia ‘o core,

è stato troppo grande

Salvatore! 

E, in certi casi, solo il dialetto, la lingua del popolo, sa esprimere certi sentimenti…

 

Foto di Fabio Coppola

Fonte: Europa Cristiana