di Pucci Cipriani

Napoli, 16 luglio 2018. Ci incamminiamo, nella mattinata, verso l’antica piazza del Mercato dove, nel 1268 offriva il collo al carnefice dell’usurpatore angioino il giovane Corradino di Svevia, sceso in Italia, per rivendicare il Trono, dopo la sconfitta del legittimo Re Manfredi, suo zio, morto nella battaglia di Benevento. Così Aleardo Aleardi immortala il giovinetto, onore della Casa Sveva «… pallido e bello,con la chioma d’oro / con la pupilla del color del mare… avea la Sveva /  stella d’argento sul cimiero azzurro…» mentre la bipenne francese calava sul ceppo recidendogli il capo.

Sì, in mezzo a questo intrico di vicoli “colorati” – e il giovane solerte Fabio Coppola, fotografo ufficiale e collaboratore, inizia a far lavorare l’obbiettivo –  dove i pescivendoli declamano la freschezza dei polipi di mare che scappano dalle piccole vasche, e gli ortolani inneggiano alle loro belle “percoche” e pesche così dolci e vellutate che sembrano aver “pazziato co o’ sole” …e intanto fuori dalle botteghe, dove è esposta “oggettistica varia”, campeggia il cartello con la scritta : «Noi non vendiamo “strunzate” cinesi», le donne si apprestano a fare le loro compere.

E intanto una folla di uomini e donne, giovani e anziani, si reca verso la barocca chiesa del Carmine e vengono dal Lavinaio, dalla Conceria, dalla vicina Ferrovia, dal Pendino e dalla Sanità e da tutti gli altri quartieri napoletani – ma anche da altre parti della Campania e delle Regioni d’Italia – per rendere omaggio alla Madonna del Carmine in questo mattino afoso del 16 luglio: la Madonna del Carmine, la dolce «Mamma do ‘o Carmine» come, familiarmente e affettuosamente, chiamano i devoti napoletani la «Maronna Nera» giunta a Napoli, portata dai frati del Monte Carmelo della Galilea (Kerem El = Vigna di Dio), intorno al 1200, mentre fuggivano dalle sciabole dei feroci saraceni.

Oggi è il 16 luglio… e fu nel 16 luglio del 1251 che la Beata Vergine apparve al Generale dell’Ordine Carmelitano San Simone Stock, il quale l’aveva pregata di dare un “privilegio” al suo Ordine, consegnandogli uno scapolare o «Abitino»,- ovvero una forma ridotta dell’abito dei Carmelitani consistente in due quadratini di lana di colore marrone o nero con su uno di essi l’immagine della Madonna da portare sul petto – dicendogli : «Prendi, figlio dilettissimo questo scapolare… chi morrà rivestito di questo abito non soffrirà il fuoco eterno», un’apparizione che si ripeté nel 1300 allorché la Madonna comandò a Papa Giovanni XXII di confermare in terra il Privilegio Sabatino da Lei ottenuto in cielo dal suo Divin Figliolo : «Questo grande Privilegio, offre la possibilità, a certe condizioni, quali la preghiera e l’astinenza, di entrare in Paradiso il primo sabato dopo la morte, ciò vuol dire che coloro che otterranno questo Privilegio resteranno, al massimo, una settimana in Purgatorio, e, se avranno la fortuna di morire il sabato, la Madonna li porterà con sé subito in Paradiso…».

Questa devozione dell’abitino («abbetiello») è viva nel popolo napoletano e, nonostante l’iconoclastica rivoluzione del Concilio Vaticano II, che ha cercato di demolire la “pietà popolare” nell’animo della gente, ancor oggi  tanti fedeli si affidano alla Madonna del Carmelo e, come avevano fatto i loro avi, specie nei momenti difficili della vita, indossano quell’abbetiello che ha protetto e protegge  dalle fiamme infernali, come ben descrive il poeta dialettale Gennaro di Franco in una bellissima poesia («A cchiù bella ‘e tutt’ ‘e mamme», che io ho sempre fatto imparare a memoria ai miei alunni (e non soltanto a quelli di Napoli) dove, dopo aver paragonato la «Madonna Nera» al più bel fiore dei fiori del cielo, a una stella polare che ogni persona guarda senza «s’abbaglià» la proclama «Riggina ‘e nu rione / che chiagnenno chiamma a Ttè…», poi il poeta continua:

…E tutt’ ‘e marenare ‘e Masaniello

senza paura vanno ‘mmiez’ ‘o mare,

perché porteno ‘mpietto n’abbetiello

e ‘st’abbettiello nun ‘e fa tremmà.

Quanno chiù nera sta a tempesta a mmare

quanno cchiù forte ‘o viento sbatte l’onne,

na mano ‘a miez’ ‘e nuvole accumpare!..

Chiamma ‘sti figlie, pe’ ll’accumpagnà.

Chiagne a bbuordo n’emigrante

mentre ‘a nave s’alluntana…

Ma ‘o suono ‘e na campana,

‘o dà ‘a forza pe’ campà.

È commovente, e si tramanda da secoli, questa devozione alla «Maronna Bruna», che fu il baluardo spirituale del popolo meridionale anche dopo momenti storici difficili come il così detto Risorgimento Italiano che aveva imposto, con le baionette, nelle popolazioni del Regno del Sud, la Rivoluzione: quel popolo meridionale che viveva in “quelle terre benedette da Dio” e che fu costretto all’immigrazione di massa – l’immigrazione era un fenomeno sconosciuto fino ad allora – dopo la rivoluzione risorgimentale: partivano, i nostri immigrati, con moglie e figli, con le valigie legate con lo spago, cercando, non nuovi e inesistenti “Paradisi terrestri”, ma «solo ‘o ppane pe’ campà» , partivano stipati sui bastimenti, per quelle terre lontane, portando con sé la devozione alla Madonna, la nostalgia del bel Regno perduto, le loro tradizioni, la loro Fede popolare che fu sostegno ai tanti esuli…

Ecco, l’altro giorno a Napoli, arrivai nella chiesa del Carmine proprio a mezzogiorno mentre, in una chiesa stipata di gente devota, il sacerdote, dopo aver intonato una laude tradizionale che cantai, con gli altri fedeli, a “una voce”, iniziò, mentre il popolo la ripeteva in ginocchio, la Supplica :

«O gloriosa Vergine Maria, madre e decoro del Monte Carmelo che con la tua bontà hai scelto come luogo di tua particolare benevolenza, in questo giorno solenne che ricorda la tua materna tenerezza per chi piamente indossa il santo Scapolare, innalziamo a te le più ardenti preghiere…Vedi, o Vergine Santissima, quanti pericoli spirituali e temporali da ogni parte ci stringono: ti prenda pietà di noi.

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Per dimostrarci il tuo affetto, o madre nostra amorosissima, tu riconosci come simbolo della nostra divozione l’abitino che piamente portiamo in tuo onore e che tu consideri come tua veste e segno della tua benevolenza. Grazie o Maria per il tuo Scapolare.

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È grande, o Maria, il tuo amore per i diletti figli rivestiti del tuo Scapolare. Non contenta di aiutarli perché vivano in modo da evitare il fuoco eterno, ti prendi cura anche di abbreviare ad essi le pene del purgatorio, per affrettare l’ingresso in paradiso.

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Ma tante grazie vorremmo chiederti ancora, o Madre nostra dolcissima! …Impetraci la grazia di non macchiare mai di colpa grave quest’anima nostra, che tanto sangue e dolore è costata al tuo divin Figlio… Benedici i poveri peccatori, perché anch’essi son figli tuoi: nella loro vita c’è stato sicuramente un momento di tenerezza per te e di nostalgia per la grazia di Dio…benedici infine le anime del purgatorio: libera con sollecitudine quelle che ti sono state devote … Sii con noi nella gioia e nella tristezza, in vita e in morte…».

E, a fine, tra la commozione generale, mentre la gente si avvia per dare l’ultimo saluto alla «Maronna Bruna» , per mettere ai suoi piedi le speranze e le delusioni, i pentimenti e i proponimenti, per deporre nel grembo della cara Mamma Celeste le nostre lacrime, i nostri dolori e le nostre angosce quotidiane, le nostre accorate richieste di “soccorso”, – incredibile, in questi tempi di aperta apostasia in cui ciascuno si avvicina alla Comunione sacrilegamente, senza confessarsi, nel chiostro ci sono diversi padri confessori con lunghe file di penitenti – ecco il bel canto melodioso accompagnato dalle dolci note dell’organo : «Oh Maria quanto sei bella» e, al termine di ogni strofa, il ritornello, tra acclamazioni e uno sventolio di fazzoletti:

Evviva Maria, Maria evviva:

Evviva Maria e chi la creò.

E dopo il saluto alla Madonna via a far celebrare le Messe per qualche parente davanti alla scrivania, o a farsi imporre l’abitino dal sacerdote o da’ il suo nome per l’iscrizione all’offerta settimanale: una devozione popolare purissima – oggi, ahimè, bistrattata dal Modernismo asfissiante – che si tramanda, di generazione in generazione, per secoli, come descrive in una sua stupenda poesia, un vero gioiello che è, a un tempo, poesia e preghiera, Ernesto Murolo:

(…) mentr s’aspetta ‘a Benediziona,

cu ll’organo ca sona,

luce, fra cere e ncienzo, ‘o Sacramento.

E trase e ghiesce, ‘a dint’ a sacrestia,

cumm’ ‘a ffile ‘e furmicole, sta gente:

chi se ferma nnanze a screvania

pe’ ffa di’ qualche dì qualche messa a nu parente;

e chi caccia ‘o di’ solde e ‘o libretto

p’a firma d’ ‘a “Semmana ‘e l’Abbetino”

Veco a nu richiamato d’ ‘o Distretto,

ca ‘a lenta a ll’uocchie, ‘pile ianche ‘nfaccia,

cu ‘a mugliera vicino

cu nu figlio p’ ‘a mano a n’ato mbraccia.

Chi guarda, appesa a ‘o muro, na giacchetta,

na giacchetta ‘e sordato,

c’ ‘o pietto spertusato

‘a na palla ‘e scuppetta.

E appiso ce sta scritto:

“Carotenuto Alfonso,

invocando la Vergine, fu sarvo”

Quacche femmena chiagne…N’ata…E n’ata…

s’è già fermata na prucessiona

nnanz’ ‘a Cappella naddò sta cunzacrata

‘a Madonna ‘mperzona…

Quella funzione che mi ricorda tempi passati, mi fa commuovere fino alle lacrime e , «quant’è bello chiagnere», mi dico, parafrasando il dialogo di Filumena Marturano, infatti il mio cuore si riempie di gioia e di speranza: ho incontrato – e quarant’anni son passati in un fiat – un mio vecchio alunno, Salvatore Tranchita e, a sera, sulle colline di Posillipo abbiam fatto festa grande, facendo tornare alla mente tante “care memorie”, mentre dalla piazza del Mercato, di fronte alla chiesa del Carmine, si sentivano, a mezzanotte, i “fuochi d’artificio”… ultimo saluto del popolo alla Madonna. E con Salvatore ricordiamo – i capelli son bianchi ormai – quel tempo felice, quella chiesetta di Censi dell’Arco e quelle preghiere, recitate in latino, prima della lezione… e l’Angelus a mezzogiorno… e grazie alla devozione di Salvatore per la Madonna del Carmine e per Padre Pio ci siamo ri-incontrati su facebook e lui mi dice: «Professò io con la Madonna del Carmine e con Padre Pio ci parlo, li sento vicini, mi aiutano in ogni momento della vita…». E anche lui di “momenti tristi” ne ha passati tanti. Poi le nostre geremiadi sulla fine delle belle tradizioni… a cominciare da quella di perpetuare il nome paterno… «Noi siamo rimasti – mi dice ancora Salvatore -, dopo la morte di Lorenzo, in tre fratelli e ciascuno di noi ha chiamato un figlio Antonio… il nome di papà». Già sentenzio io, ora va di moda mettere il nome di persone ai cani e quello dei cani ai bambini… non c’è più religione. E mi dimentico di dire a Salvatore e a Fabio che non è così, perché la Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, continua anche nelle cose più piccole: un caro ragazzo, di diciassette anni, Ivan, che dopo la sua partecipazione al Convegno di Civitella mi scrisse: «La ringrazio di avermi dato la possibilità di partecipare al Convegno della “Fedelissima” Civitella del Tronto: ora vedo tutto con occhi diversi», poi, parlando delle tradizioni – anche lui è originario di Napoli – mi disse che il papà si chiamava Gennaro e che lui avrebbe voluto chiamare – fedele al motto «tradere quod et accepi» – Gennaro il suo primo figlio ma c’era già lo zio e il cugino con lo stesso nome, quindi aveva pensato di chiamarlo Ciro, ma chiamandosi di cognome Cerlino, Ciro Cerlino sarebbe stato cacofonico… ma Ivan non mollò e mi disse: «Al primo figlio voglio mettere un nome che, quando lo chiamo, a Napoli se ne devon voltare altri dieci… ecco Carmine, lo chiamerò Carmine».

Carmine… che bel nome e, soprattutto che gioia, in mezzo alle sporche teorie del gender, alle sfilate del gay pryde, alla dittatura omosessualista montante, sentir parlare ancora un giovane che pensa al matrimonio e a far figli… sì, la Madonna del Carmine continua ad aiutare i suoi figli.

Pucci Cipriani