di Giovanni Tortelli

PRIMA PARTE

La fede precede Pietro”. Intorno a questa assunto p. Serafino M. Lanzetta costruisce e incardina il suo saggio più recente (Serafino M. Lanzetta, Super hanc petram. Il Papa e la Chiesa in un’ora drammatica della storia, Edizioni Fiducia, Roma 2022), uno studio sull’attuale Papato che si stacca dalle pubblicazioni finora apparse sull’argomento per la profondità e l’acutezza dell’indagine e per la novità della prospettiva in cui inquadra questa Chiesa spenta e crepuscolare in un’ora drammatica della sua storia, come l’eloquente titolo già suggerisce. 

La prospettiva con cui si guarda comunemente alla Chiesa d’oggi è quella di un Papa e di un Papato che si rivestono di un francescanesimo umile e povero che piace alla gente ma che presenta (e forse proprio perché presenta) delle carenze di munus, di quel fondamento petrino su cui deve poggiare la cattolicità della Chiesa, cioè la sua universalità, che per essere garantita dovrebbe invece restare immune da ogni carisma particolare, sia pure quello di San Francesco d’Assisi.

La prospettiva con cui un osservatore un po’ più attento vede la Chiesa d’oggi è quella di una certa opacità nelle relazioni istituzionali fra questo Papa e il suo Papato e la Chiesa, con una sovrapposizione della persona di questo Papa sulla Chiesa intera. 

Con un taglio che non vuole e non può essere né discorsivo né divulgativo, diverso da quello cui ci ha abituato la superficiale e tutto sommato vacua pubblicistica che in questo decennio ha affrontato il pontificato bergogliano, Lanzetta ce ne offre invece una lettura in chiave «onto-teo-logica», in senso proprio heideggeriano: l’Autore fa intendere fin dalle primissime pagine che solo interpretando la Chiesa come «ente» (la Chiesa come si presenta oggi nella sua dimensione storico-ecclesiologica) epperò nella inscindibile prospettiva del suo «essere» (la Chiesa come Divina Istituzione che non può mutare la propria causa e il proprio fine, che non può uscire da se stessa) si può avere ragione della Chiesa di oggi e dei suoi molteplici fronti di crisi (liturgico, vocazionale, magisteriale, dottrinale). 

Si tratta di una prospettiva anticipata a suo tempo e in altre circostanze da Romano Amerio, di una Chiesa «che diviene ma che non muta», di una Chiesa che diviene e dialoga con la Storia perché vive e opera nella Storia ma che non può fare un saltus ad aliud senza perdere se stessa. 

“La fede precede Pietro”: la ragione dell’asserto sta nella natura stessa dell’ufficio del Papa, che “è quello di confermare la fede, non di crearla o di abolirla a suo piacimento. In questo senso, la fede della Chiesa rivelata da Dio precede la persona del Papa”. Nella sua omelia per l’insediamento sulla Cattedra di Roma il 7 maggio 2005, papa Benedetto XVI ebbe a dire, al riguardo, che “il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo”.

Oggi più di ieri vediamo che invece la Chiesa premia una pastoralità fin troppo pratica e spiccia rispetto all’autenticità e all’autorevolezza della Tradizione, anche perché il metodo pastorale è certamente più adatto ad assecondare le mutevoli circostanze e quindi più efficace a rendere la Chiesa sempre più presentabile al mondo, scopo fin troppo dichiarato a partire dal discorso del 3 ottobre 1962 di papa Giovanni XXIII. E siccome l’ontologia riesce a spiegare ancora tante cose, possiamo dire con l’Autore che la Chiesa presenta oggi al mondo il primato dell’agire sull’essere, servito sul piatto d’argento di una autorevolezza spenta ma pur sempre residuo ed eco lontana di quell’autorità morale (quella temporale era finita a Porta Pia) che la Chiesa aveva da sempre incarnato di fronte al mondo. 

Voglio arrivare a dire che la missione della Chiesa oggi è tanto più povera quanto più povera è la sua consapevolezza di essere «divina» istituzione; tanto più povera – e non in senso francescano – è questa Chiesa che sacrifica volentieri la sua missione salvifica e il suo dovere di custodia del patrimonium fidei per assumere i panni mondani del solidarismo e della sussidiarietà, di un cristianesimo secondario filantropico, filomassonico e laicizzato. Siamo di fronte a un governo della Chiesa così poco attento al munus confermativo della fede, da compromettere la rotta della Santa Navicella con quella che Amerio chiamava “desistenza d’autorità magisteriale”.

Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt. 16,13-20). Su quale pietra Gesù dice di voler edificare la sua Chiesa? Sulla fede di Pietro, di quel tale pescatore di Galilea, oppure sulla pietra che è Cristo stesso? In altre parole – si chiede l’Autore – in quale rapporto si colloca Pietro rispetto a Cristo? Insistere sulla fede di Pietro quale pietra che fonda la Chiesa, e quindi insistere sulla fede soggettiva di Pietro quasi a scapito di Gesù Cristo, non significa altro che edificare la Chiesa su una piattaforma umana, “troppo umana”. D’altra parte, insistere sulla fede di Pietro come semplice proiezione della fede di Gesù Cristo in quanto Figlio di Dio, non significa altro che togliere alla Chiesa “ogni consistenza visibile e trasformarla in un corpo invisibile senza gerarchia e senza sacramenti”. 

Sarà allora proprio la fede di Cristo, che è roccia in se stesso, a costituire la fede di Pietro. È Cristo in se stesso il fondamento della Chiesa, la mediazione fra Cristo e il Padre è infatti perfetta, secondo I Timoteo (2,5), mentre gli Apostoli saranno mediatori in misura di Cristo e Pietro lo sarà ministerialiter vel dispositive, e quindi direttamente su mandato e in forza dell’autorità di Gesù Cristo, “invece i sacerdoti della nuova legge possono dirsi mediatori tra Dio e gli uomini in quanto sono ministri del vero mediatore quali suoi vicari, nel conferire agli uomini i sacramenti della salvezza” (Summa th. III, 26, a 1 ad 1).

A cominciare da Pietro e quindi ogni suo successore, deve credere insieme a tutta la Chiesa. È la fede di Cristo che sta al di sopra di ogni Papa e che lo giudica, e non viceversa.

“La fede precede anche la legge canonica”. Un problema si pone quando un Papa erra nella fede. Il can. 1404 cjc stabilisce il noto principio Prima Sedes a nemine iudicetur, quindi nessuno può mettere sotto accusa un Pontefice errante nella fede. La legge canonica non solo è fatta in conformità della fede, ma è fatta apposta per custodire e difendere la fede: di fronte alla forza imperativa del can. 1404, non vi potrebbe essere allora altro strumento che la correzione fraterna anche verso il Papa regnante, in forza di Mt. 18,15, il quale resterebbe nel suo ufficio anche nel caso in cui respingesse la correzione. Questo è stato un tema molto discusso dagli studiosi di tutti i tempi, con la canonistica più antica che riconosceva il solo obbligo di reverenza ma non di obbedienza verso il Papa errante. Il quale resterebbe papa anche in caso di errore, con la conseguenza che i fedeli potrebbero non seguirlo nell’eventuale indicazione erronea, senza però poterlo deporre. 

L’Autore considera e sviluppa anche in ricche note bibliografiche l’ipotesi di un Papa eretico, di un Papa che potrebbe perdere la fede e compromettere la confessione pubblica e oggettiva di Gesù Cristo (fides quae), non solo attraverso false dottrine esplicite ma anche attraverso il suo operato sottotraccia. Nemmeno in questo caso il Papa perderebbe l’esercizio del suo munus. 

Benché lungamente riproposta e discussa in questi tempi grami, a giudizio di p. Lanzetta l’ipotesi di eresia appare meno appropriata rispetto a quella di apostasia, cioè di allontanamento dalla fede professata, i cui tratti – dice l’Autore – si possono riscontrare oggi nel fatto che “errori vistosi e grossolani sono diffusi senza che nessuno di dovere li corregga apertamente, anzi spesso favoriti dalle gerarchie e dalle Chiese locali”. Così facendo il rischio è che l’errore soffochi la verità.

Però. Anche di fronte a queste ipotesi estreme, la Chiesa «rimane», non per nulla il Simbolo apostolico professa la Chiesa «santa», oggettivamente santa nonostante la fallacia degli uomini. 

È poi la Chiesa che accoglie ogni nuovo Papa alla sua elezione, è perciò il Papa che è in funzione della Chiesa, e già questo dovrebbe bastare per colmare l’aporia attuale di una sovraesposizione personale del Papa sulla Chiesa intera.

Se dunque un Papa imponesse dottrine eretiche frutto del suo intelletto, la Chiesa non verrebbe mai meno e – poiché l’infallibilità in credendo «precede» quella in docendo – “anche l’ultimo dei battezzati che professi il Simbolo della fede, sarebbe autorizzato ad insorgere e a correggere il Papa miscredente”. Questo per dire che un Papa anche formalmente eretico contraddirebbe sì il suo ministero petrino ma non per questo verrebbe meno la Chiesa. Se venisse meno al suo ufficio di confermare i fratelli nella fede, ugualmente la Chiesa non verrebbe abbandonata a se stessa perché supplirebbe il Pontefice eterno, il mediatore perfetto e senza macchia Gesù Cristo, l’unico a rimanere sempre fedele anche se il suo vicario risultasse infedele.

Proprio per questo, il Papa non è un monarca assoluto poiché – come affermava l’allora (sano) clero tedesco in una lettera di risposta al cancelliere von Bismarck nel 1848 – la potestas suprema, ordinaria et immediata viene conferita al Papa da Gesù stesso nella persona di San Pietro, viene esercitata nei limiti dell’autorità ecclesiastica e alle leggi date da Cristo alla Chiesa, bastando questo a escludere ogni apparentamento con una facile accusa di assolutismo papale.

Fede, dottrina e spirito del Concilio”. Già nel primo capitolo del suo magistrale Iota Unum, meditato e finito di scrivere alla fine degli anni Ottanta in concomitanza col finis vitae del suo Autore, Romano Amerio parlava di «crisi» della Chiesa apertasi col Vaticano II, dandole due significati: a) crisi come “fatto puntuale, incompatibile con la durata”; b) crisi come “momento decisorio fra un’essenza e un’altra, fra uno stato e uno diverso per natura”. 

Tale era il risultato a cui portava il suo lunghissimo studio sulle “variazioni” sullo «stato» (natura, essenza) della Chiesa durato ininterrottamente dal 1935 al 1987 col vaglio di documenti ufficiali della Santa Sede, indicativi di un autodiscernimento ecclesiale alla luce delle grandi spinte moderniste dei secoli XIX e XX e soprattutto alla luce del Vaticano II. Un lavoro documentale e cartaceo enorme, che non conosceva ancora le scorciatoie della digitalizzazione, e che metteva in evidenza l’importanza del secondo di quei due significati di “crisi”, vale a dire quanto la Chiesa fosse impegnata soprattutto a comprendere se stessa, la sua essenza, «con» e «dopo» il Vaticano II. 

Solo che questa crisi, per esser tale, avrebbe dovuto essere anche di breve durata, come voleva il primo dei due significati attribuitile, ma questo non è avvenuto e la Chiesa appare dibattersi ormai da più di sessant’anni in una crisi che non sembra aver mai fine, anzi peggiorare di anno in anno. 

Forse anche perché ieri come oggi una parte consistente della Chiesa nega l’esistenza di una crisi. Per usare le parole di Amerio di allora e sempre attuali: “Alcuni autori negano l’esistenza o la peculiarità del presente smarrimento della Chiesa, pur ammesso dallo stesso Paolo VI nel suo discorso del 7 dicembre 1968 al Seminario Lombardo di Roma quando parlò di «autodemolizione» della Chiesa”.

Lo sviluppo fisiologico di questa crisi avrebbe dovuto portare – secondo Amerio – ad una “accomodazione essenziale della Chiesa nel non conformarsi al mondo” secondo Ep. Romani (12,2) “nolite conformari huic saeculo”. 

Il Concilio, e poi il postconcilio fino all’epoca attuale hanno al contrario  e pienamente giustificato e messo in pratica questo assecondamento della Chiesa al mondo col richiamo a un equivoco “spirito del Concilio”, idea né chiara né distinta ma semmai metafora che starebbe per “soffio” del Concilio, teso ad avallare semmai le opzioni di coloro che – non paghi del Concilio – vogliono continuamente oltrepassarlo. 

Sullo “spirito del Concilio” si soffermava anche Brunero Gherardini in Quod et tradidi vobis, quando spiegava che questo “spirito” era un vero e proprio marchio di fabbrica della (sinistra) azione di K. Rahner all’interno del Concilio: questo “spirito” non sarebbe altro che l’“anima e spinta propulsiva di tutta la realtà mondana (der Geist in Welt) che, come tale, conduce l’ermeneutica rahneriana di san Tommaso ad una «svolta antropologica», riducendo la stessa metafisica a pura e semplice antropologia. Cioè, praticamente, annullandola”. 

E in questo senso di forza antropica “animale”, vaga ma piuttosto semplice nel suo assunto ma anche complesso nelle sue conseguenze, penso che questo «spirito» sia stato preso e trattenuto da tutta la Chiesa del postconcilio e, anche se in buona fede, da buona parte dei fedeli della Chiesa neoterica.

Spirito del Concilio e spirito amazzonico”. Crisi autoreferenziale, desistenza di autorità, debolezza dottrinale hanno in particolare caratterizzato questo decennio del papato bergogliano. 

Il Sinodo amazzonico tenutosi a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019 ha sancito l’apertura a veri e propri “ministeri amazzonici” come l’ordinazione diaconale delle donne e il sacerdozio a diaconi permanenti anche con famiglia. In pratica, l’abolizione del celibato ecclesiastico e il sacerdozio femminile attraverso la porta di servizio.

In continuità con lo “spirito” del Concilio Vaticano II, il Sinodo amazzonico è metafora di un vero e proprio concilio, con potere di determinazione anche della sostanza del patrimonio della fede, soprattutto per aver lasciato dietro di sé il preoccupante sospetto di una sinodalità permanente della Chiesa aperta a tutto e capace di tutto. 

Dallo spirito del Concilio al Sinodo amazzonico è tutta una questione di nominalismo, cioè del trionfo dell’opinionismo e dell’opinabilità sulla certezza e sull’autenticità. Le parole non corrispondono più alla realtà, le reali intenzioni divergono dai fini dichiarati. 

Per questa strada – sostiene Lanzetta – la Chiesa oltrepasserà ben presto anche il già conseguito primato dell’agire (cristianesimo secondario solidale e sussidiario al mondo) sull’essere (cristianesimo autentico) per approdare al primato dell’esperienza sulla verità, un ritorno all’empirismo e una prossima apertura a un neopragmatismo che a sua volta vedrà il trionfo della prassi sul pensiero: la Verità non si mostrerà più in sé e per sé, ad esempio la SS. Trinità non sarà più adorabile in Sé e per Sé ma dovrà essere sottoposta alla prova dell’esperienza.

L’eterogenesi delle parole, cominciata col formale e vuoto nominalismo inaugurato dal Vaticano II che ha rispettato la Tradizione precedente svuotandola di sostanza e di significato oppure dando significati nuovi a termini antichi, porta all’eterogeneità dei fini: “Un insegnamento nuovo sviluppato con le medesime parole ormai si presta a raggiungere fini diversi da quelli perseguiti fino a pochi anni orsono dal Magistero della Chiesa”. Gherardini contava la parola “Tradizione” per ben diciotto volte in Lumen gentium e per ben tredici volte in Gaudium et spes, senza però che quei documenti esprimessero la reale convinzione di confermare la sostanza di quel termine. 

Una soluzione? L’auspicio di p. Lanzetta: riappropriarsi del vocabolario teologico, ad esempio con una radicale riforma degli studi e dei seminari che riprenda l’insegnamento del realismo della Scolastica, quell’adaequatio intellectus et rei, quegli universali che non ci ingannano perché derivano dalla realtà.

“La Chiesa in uscita” di Papa Bergoglio: il neoempirismo che si (di)mostra. Uno dei concetti fondamentali di Papa Francesco è stato quello di “Chiesa in uscita”, forse con la lontana intenzione di un richiamo biblico all’uscita di Israele dall’Egitto. Il Pontefice ne parlò in Evangelii gaudium in termini ancora generali, e poi in molte riprese verbali in interviste o in udienze generali: il Papa auspica una Chiesa che si faccia “comunità di discepoli missionari”, una Chiesa “accidentata, ferita e sporca per essere uscita nelle strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.

Questa prospettiva, nella visione di Francesco, ribalta il concetto di “Chiesa che accoglie” in “Chiesa che esce da sé e va verso chi non la frequenta, chi se ne è allontanato e chi ne è indifferente”. Questa prospettiva di Chiesa-comunità in uscita presuppone un “popolo di Dio” che però non sembra coincidere esattamente col Corpo Mistico di Cristo. Parlando ai Gesuiti dei Paesi Baltici nel settembre 2018, il Papa aveva chiesto che “Il Concilio si faccia strada nella Chiesa”, sì da aversi “un profondo rinnovamento spirituale” in opposizione “alla perversione della Chiesa d’oggi” che sarebbe il clericalismo. Aggiungeva anche che questo cambiamento radicale sarebbe avvenuto solo quando la Chiesa si riconoscesse davvero come popolo di Dio, fra l’altro uno degli slogan fatti propri dalla teologia della liberazione.

“Chiesa in uscita, popolo di Dio”: per tornare all’ontologia che riesce a spiegare tante cose altrimenti terra-terra, evidentemente per Papa Francesco il tempo è superiore allo spazio. Scrive Lanzetta riprendendo Evangelii gaudium: “Papa Francesco vuole che si attuino processi, perché il tempo è superiore allo spazio. Non bisogna occupare uno spazio, quasi immobili o fissisti, ma muoversi, innescando un processo, un cambiamento. E i processi costituiscono un popolo”.

Dunque le domande: la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo fomenterebbe – al contrario – la perversione del clericalismo? L’immobilismo sarebbe il sintomo di una cattiva Chiesa?

“La Chiesa in uscita” è spesso accompagnata dalla reprimenda del Papa contro il proselitismo, che pure è richiamato a chiare lettere nel Vangelo di Matteo (28,18-20), anzi esso costituisce la sostanza e il fine della missione salvifica cui la Chiesa è chiamata dal suo Fondatore. Ancora una metafora? Spesso il parlare di papa Francesco è sfumato, allusivo: l’argentino Jorge Mario Bergoglio come l’argentino Jorge Luis Borges il padre della metafora, dell’allusione e del detto e non detto? 

La chiosa di p. Lanzetta sulla “Chiesa-in-uscita”: “Se si tratta di uscire verso una nuova Chiesa, il prodotto sarà comunque un qualcosa fatto da noi e non più la Chiesa rivelata da Dio in Cristo per lo Spirito Santo”.

La gente se ne accorge, e le Chiese si svuotano.

SECONDA PARTE

Nella prima parte di questo articolo avevo osservato come l’Autore avesse dedicato buona parte del suo saggio (Serafino M. Lanzetta Super hanc petram, Edizioni Fiducia, Roma 2022), e precisamente tutto il primo capitolo, all’esame degli aspetti complessivi del pontificato bergogliano soprattutto in riferimento all’esercizio del munus petrino. 

L’Autore sottolineava infatti come fin dalle primissime battute del suo pontificato, il Papa appena eletto avesse tenuto a marcare una discontinuità con la tradizione e a consegnare urbi et orbi il programma di un pontificato fortemente personalistico, fino a comprendere una marcata distanza dalla Chiesa-istituzione e da tutto il patrimonio della tradizione che gli veniva consegnato. 

Un nuovo modo di esercitare l’ufficio petrino si intravedeva, seppure informalmente, fin dalle prime interviste e dai primi atti e interventi pubblici del nuovo Papa.

Si preannunciava una svolta epocale: un Papa figlio e prodotto del progressismo latino-americano più avanzato alla maniera di Helder Câmara e dei teologi della liberazione, vedeva la Chiesa ancora troppo vecchia, e con occhio critico e poco compiacente si proponeva di concludere in fretta e senza tante cerimonie il lavoro di svecchiamento-rinnovamento già iniziato sessant’anni prima. Un colpo d’acceleratore che nemmeno la Curia Romana s’aspettava.

Un atteggiamento che nel decennio di pontificato ha poi portato Papa Francesco a criticare come difetti gravi il clericalismo, il devozionismo, il proselitismo, fino a giudicare come anacronistici e inappropriati perfino alcuni aspetti del tutto secondari e marginali come i ricami, i pizzi e i merletti delle vesti ecclesiastiche e certe ritualità giudicate obsolete o sovrabbondanti. Va da sé il problema della Messa secondo il vetus ordo, un tema sul quale il Papa ha sempre manifestato la sua intransigente chiusura.

Tutti questi elementi delineavano un programma in netta discontinuità coi pontificati precedenti, elementi che dicevano di un esercizio «diverso» del munus petrino, la cui essenza sarebbe – ed è – la salvaguardia della fede cattolica nella sua unità e autenticità e quindi nella sua conservazione e trasmissione integrale, oltre che nella garanzia dell’unità del corpo episcopale e dell’universalità dei fedeli nell’unica fede apostolica e nei sacramenti quali mezzi efficaci di salvezza. 

E se il decisionismo di Papa Francesco – accompagnato da certe asperità temperamentali che lo potevano rendere talvolta ruvido e scostante – ha praticamente intimidito e reso prono quasi tutto il Collegio episcopale mondiale, frange sempre più ampie di fedeli hanno cominciato a condividere quelle perplessità su un rinnovamento della Chiesa così totalizzante, e direi totalitario, come quello portato avanti in questo sessantennio di postconcilio, e così marcato sotto questo pontificato.

Nello sviluppo delle sue argomentazioni, padre Lanzetta passa ad esaminare casi concreti di scostamento dal munus petrino. Fra gli altri casi presi inconsiderazione, il più importante è quello relativo all’Esortazione post sinodale Amoris laetitia del 2016 la quale, secondo l’Autore, “lascia sgomenti quanto a diversi punti dottrinali, su cui regna una forte ambiguità con la conseguente possibilità di interpretare l’insegnamento della Chiesa in modi soggettivi e perciò anche contrastanti, lasciando il giudizio morale in una sorta di incertezza, secondo i casi che si presentano”. Più che l’insegnamento di una dottrina, sembra che AL sia piuttosto l’espressione di un’opinione. Ma il fatto che in AL vengano formulati dei principi escluderebbe di essere di fronte a un’opinione personale e infatti la differenza non è immediatamente percepita dal lettore comune, “il quale prende quanto legge simpliciter come insegnamento del Papa” e non invece come “una dottrina suscettibile di errori”. Il Papa infatti “non è l’ultimo dei teologi”, anche se ciò che insegna non è sempre conforme al magistero della Chiesa “e per molti versi nuovo (…) in punti salienti della fede e della morale”. È il caso ad esempio in cui AL, appoggiandosi sull’autorevolezza dell’Esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II non ne cita però integralmente il punto 84 che nel testo giovanneo è ben chiaro circa l’inammissibilità dei divorziati risposati alla comunione eucaristica. Una citazione incompleta rende già di per sé inefficace l’assunto e il rinvio per relationem, una relazione che resta comunque molto discutibile perché AL da una parte e Familiaris consortio dall’altra hanno due modelli diversi di famiglia cui riferirsi: AL guarda alla famiglia concreta, storica, in divenire con le sue fragilità mentre Familiaris consortio crede in un modello di famiglia ideale e cristallizzato, fortemente radicata nel sacramento e nella vita soprannaturale. Il discernimento “dinamico” delle situazioni familiari più fragili è certamente nel segno della più ampia misericordia ma nello stesso tempo innesta un processo difficilmente governabile che parte da un giudizio (soggettivo, caso per caso) mitigato verso i divorziati risposati per passare poi all’acquisizione del loro status oggettivo all’interno della Chiesa e per finire poi a integrare a tutti gli effetti la dottrina tradizionale della Chiesa in materia, alterandola irrimediabilmente. Perché adulterio e fornicazione non possono far diventare meno colpevoli coloro che vi si trovano coinvolti a seconda delle circostanze soggettive, dal momento che nessuna circostanza può dispensare dai precetti negativi e il VI Comandamento obbliga semper et pro semper (il n. 52 di Veritatis splendor insegna testualmente: “I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo”). 

È la natura “pubblica” del matrimonio sacramentale che lo fa assurgere alla sfera del bene comune, nella stessa misura in cui un’unione illegittima danneggia lo stesso bene comune.

Non è possibile ricalcare in una recensione la ricchissima dottrina e la dotta documentazione del professor Lanzetta sul testo di AL, un testo così emblematico e significativo nel disegnare il carattere del pontificato bergogliano perché sintomatico di un metodo “nuovo” di indagine: approssimativo, basato sulla casistica e sulla prassi senza un attendibile apparato teoretico alle spalle. 

I lettori potranno trovare nelle pagine del saggio ogni più esauriente spiegazione sulla portata dirompente di AL e sulla precarietà del suo insegnamento.

Amoris laetitia è quindi importante non solo di per sé e come indice di un nuovo metodo ermeneutico esperienziale, ma anche come indice in riferimento ad altri documenti della Chiesa in questa materia. 

Il riferimento d’obbligo è quello all’enciclica Humanae vitae promulgata da Paolo VI in quel denso e dirompente 1968 la quale si distingue per il suo equilibrio fra legge morale, legge evangelica e legge naturale in riferimento all’amore umano e alla paternità responsabile. Essa rappresenta una corroborante e solida saldatura fra l’amore umano espresso nella coniugalità e il fine primario di essa che è la procreazione. Ma prima ancora, AL può esser vista in riferimento anche all’antica Casti connubii di Pio XI che nel 1930 riassumeva mirabilmente la dottrina sull’amore coniugale cristiano nei tre cardini già indicati da san Paolo e poi da sant’Agostino e da san Tommaso: prole, fede, sacramento. E prima ancora, AL può esser riferita al Cod.jur.can. promulgato da Benedetto XV nel 1917 che metteva in evidenza i tre fini del matrimonio: la procreazione e l’educazione della prole, il mutuo aiuto fra i coniugi e il rimedio alla concupiscenza. Unità ed indissolubilità ne erano le sue proprietà essenziali (can. 1013).

Ad ingrossare la materia era anche intervenuta nel 1965 la Costituzione pastorale Gaudium et spes, la quale cominciava però ad insinuare una visione personalista e più umanizzante dell’amore coniugale.

È interessante osservare, con l’Autore, come Casti connubii si richiami al catechismo tridentino e dichiari con chiarezza che non c’è opposizione fra natura e comunione fra le persone, cioè fra natura e sacramento coniugale; l’opposizione fra natura e sacramento si fa invece più evidente in Gaudium et spes grazie ad una visione “sbilanciata” a favore dell’amore in senso antropico (il § 47 è dedicato interamente all’amore umano mentre il § 48 declassa la procreazione da fine “primario” del matrimonio a fine solamente “intrinseco”); e ancor di più l’opposizione fra natura e sacramento è rilevabile nell’ostilità che all’interno della Chiesa stessa trovò la Humanae vitae.

Se Humanae vitae, che è del 1968, parlando adeguatamente dell’amore umano legato alla paternità responsabile, riesce a tenere uniti i due aspetti inscindibili del matrimonio, quello unitivo e quello procreativo, essa è altrettanto fondamentale nel colmare il vuoto e la reticenza di Gaudium et spes (che nel 1965 non aveva condannato la contraccezione).

P. Lanzetta osserva che in Humanae vitae Paolo VI metteva in guardia dalle etiche teleologiche, quella consequenzialista e quella proporzionalista (peraltro condannate da Veritatis splendor), che richiamandosi agli utilitaristi Stuart Mill e Bentham giudicano la moralità di un atto in base alle sue conseguenze, teorie che però godono di particolare favore e attenzione nel momento attuale e di cui AL è dimostrazione. 

Humanae vitae sarebbe dunque superabile da Amoris laetitia solo se si ammettesse una generale rilettura della morale cattolica in chiave di quelle etiche teleologico-utilitariste (l’esempio potrebbe esser quello dei due conviventi costretti a restare insieme per il bene dei figli, oppure quello dei conviventi che usano contraccettivi per la salvaguardia della famiglia) ma risulta non superabile perché non si può pretendere (come vorrebbe Amoris laetitia premiando l’intenzione sull’atto in sé) di annullare l’oggettività del precetto morale che è precetto divino semper et pro semper (cfr. Romani 3,8: “Non è lecito fare il male a scopo di bene”) arrivando ad accettare il “male intrinseco” cioè quel male la cui cattiva essenza non potrà mai farlo convertire in bene, un male certamente non ordinabile né rapportabile a Dio.

Quanto lontano bisogna andare per cercare le cause dell’attuale crisi morale della Chiesa? Una crisi morale che ha l’aspetto più evidente e grossolano nelle tristi vicende degli abusi sessuali su minori o su persone vulnerabili da parte di uomini della Chiesa, ma che nasconde cause più profonde e più remote, forse nella genesi dello stesso Vaticano II che “nel propiziare un cambiamento teologico generale, ha avuto delle conseguenze non irrilevanti sia per la teologia che per la vita morale”. Il ribaltamento di prospettiva adottato dal Concilio, il passaggio dalle fonti della Rivelazione alla Rivelazione stessa; il privilegio accordato alla Scrittura sulla Tradizione orale e l’aggiramento di quest’ultima, l’abbandono di una visuale giusnaturalistica, furono tutti fattori determinanti anche per un ribaltamento della morale, sempre di più fondato sulla Bibbia. 

Proprio così. Il Vaticano II determinò una frattura imponente anche sul fronte della morale tradizionale: si optò per una morale “della libertà creativa” o della “fedeltà creativa” secondo le definizioni di Bernhard Häring, già perito conciliare. E così i criteri e le norme morali non furono più fissati da un’autorità, legati ad una legge ma furono oggetto di una “ricerca creativa”, quindi anche in balìa di un processo culturale, storico, dinamico, di un libero divenire.

Il risultato, amaro, che Lanzetta ci mostra alla conclusione del saggio è appunto quello della separazione fra la legge (dimenticata dai vincitori del Concilio) e la libertà di coscienza (accolta a braccia aperte dai conciliaristi e da tutto il sessantennio seguente). E così il vero uomo è spirito, è libertà, è creatività anche morale, di pari passo alla “natura” umana non più legge naturale fondata sul “carattere” ma ridotta a materiale biologico o sociale e comunque ristretta in una aberrante corporeità.

Il Vaticano II tagliò il ponte alle sue spalle e parve cancellare tutta la Chiesa “precedente”. Ora e in futuro, solo il conciliarismo. Con quali prospettive? Lanzetta sembra chiudere con un cauto ottimismo. 

Gesù Cristo che ha portato a compimento, perfezionandola, la legge antica, ha portato però la legge nuova: “Amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv. 13,34). L’amore è pienezza della legge, non il suo rinnegamento. La misura è l’amore di Cristo (“come io ho amato voi”), la misura è Verità e questa verità è la Legge dell’amore.

Giovanni Tortelli