Tratto da: Provita e famiglia

Coronavirus sponsor dell’eutanasia? Apparentemente provocatorio, è in realtà un interrogativo drammatico che diviene perfino ineludibile alla luce del documento emanato nei giorni scorsi, precisamente il 6 marzo, dalla Siaarti, acronimo che sta per Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva. Si tratta di alcune indicazioni sulla possibilità, vista l’emergenza, di dover addirittura scegliere se curare tutti o – vista anche la scarsità di mezzi e posti di terapia intensiva – di dover prediligere alcuni pazienti a scapito di altri.

Tecnicamente, parliamo di raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di discrepanza tra necessità e risorse disponibili, che partono appunto dalla constatazione dell’«enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive»; non si tratta, cioè, di un documento relativo al fine vita né di uno scritto di bioetica. Ciò nonostante, non è giustamente sfuggito il dilemma avanzato dalla Siaarti sulla scelta dei pazienti da curare.

Un dilemma che, se da un lato in determinate situazioni può persino – e purtroppo – arrivare a porsi concretamente, dall’altro è allarmante che ci si ponga così, per iscritto, e gettando le basi per valutazioni più ampie che non tengono conto di fattori decisivi. Per esempio, il numero dei posti letto di terapia intensiva. La Germania ne ha 28.000il quadruplo dei posti di terapia intensiva dell’Italia (5.600) in rapporto alla popolazione e questo significa che ha molte più forze di noi per resistere all’epidemia in corso.

Ma se mancano i posti letto – ecco il punto – occorre fare pressing sulle istituzioni affinché ne vengano resi disponibili subito in numero maggiore; l’«enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive» non va cioè preso come un dato di fatto, ma come un problema da superare. Viceversa, mettersi a ragionare su quali pazienti curare per primi – così, in astratto, come se si trattasse di una realtà ineliminabile – rappresenta una grave resa alla «cultura dello scarto», che è quella corrente di pensiero basata sull’orrendo distinguo fra vite degne e indegne di essere vissute.

Ne consegue la necessità, non solo per la Siaarti ma per tutti noi, di riscoprire il valore dell’accoglienza e dell’assistenza incondizionata della vita umana dato che, come osservava già sant’Agostino, «ogni uomo è una persona» (De Trinitate, XV, 7, 11). In ballo non c’è difatti una posizione etica o una questione accademica, per pochi addetti ai lavori, bensì il fondamento della società e, a ben vedere, dello stesso stato di diritto. Apriamo a questo proposito una parentesi per dire che è tristemente paradossale che, in un’epoca in cui i diritti civili sono sistematicamente all’ordine del giorno, basti la comparsa del Covid-19 per far dimenticare ad alcuni l’esistenza del fondamentale diritto alla cura.

Tornando alle raccomandazioni Siaarti, concludiamo con un pensiero relativo al fatto che, per qualcuno che in modo grave e discutibilissimo ragiona su quali pazienti curare per primi, esistono non tanti, ma tantissimi medici, infermieri, operatori sanitari e farmacisti che, da ormai diversi giorni, lavorano affrontando turni massacranti e, spesso, rimettendoci la salute e in qualche caso pure la vita.

Ecco, la migliore risposta a taluni surreali dilemmi è probabilmente proprio il loro sacrificio. Un sacrificio che sta lì, con tutta la forza di una testimonianza, a dimostrare che, quando si pone il dubbio su quale vita salvare, tanti medici non esitano a stabilire quale debba essere messa in discussione: la loro. Questo è motivo per cui è giusto parlare non di professione, ma di arte medica; ed è anche la ragione per cui è doveroso rendere omaggio agli innumerevoli eroi che popolano le nostre corsie.

di Giuliano Guzzo