Ascanio Ruschi

Un recentissimo editoriale di Riccardo Cascioli pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana (https://www.lanuovabq.it/it/questa-messa-non-sha-da-fare-parola-di-bassetti) mi ha sollecitato a riflettere nuovamente sull’attuale stato di crisi che ha colpito il nostro Paese.

Crisi, evidentemente, non solo materiale, ma anche spirituale. Crisi, ahimè, che ha colpito anche la Chiesa (umanamente intesa).

L’incapacità dei governi europei di affrontare e risolvere la crisi, ha rimesso in discussione l’esistenza stessa dell’Unione Europea. Parimenti, la Chiesa stessa sembra essere scossa da spinte centrifughe (qualcuno ha detto Conferenza Episcopale Tedesca?) che a mala pena vengono contenute. La crepa è oramai aperta, e anche se dopo il sinodo amazzonico la falla pare essere stata rattoppata, la crisi non accenna a diminuire.

Dopo la pachamama, il coronavirus ha messo a nudo il re.

L’articolo di Cascioli, bellissimo e che sottoscrivo in toto, ha il pregio di porre l’accento proprio su alcune criticità emerse in concomitanza (e in parte a causa) dell’attuale pandemia. Un passaggio in particolare mi ha colpito: “Ma deve essere chiaro che il messaggio che i vertici della Chiesa stanno dando è che la Messa, i sacramenti, per non dire della stessa presenza in chiesa, sono optional, elementi non essenziali e non richiesti per una fede matura. Forse l’epidemia passerà ma questo messaggio resterà”.

Ecco dunque il punto fondamentale: quale è il messaggio che in questa inedita situazione, i vertici della Chiesa hanno voluto dare? Sul punto temo che la sconsolante conclusione a cui giunge Cascioli valga più di mille mie parole.

Immerso dunque in queste amare considerazioni, il mio pensiero è riandato alle grandi crisi del passato che la Chiesa si è trovata ad affrontare: dall’arianesimo sino alla rivoluzione francese, per arrivare a quella del postconcilio, i cui frutti stiamo ancora amaramente assaporando.

E proprio riflettendo sul furore giacobino, che come un morbo pare aver oggi contagiato anche tanti sedicenti cattolici, il mio pensiero è andato, naturaliter, ai preti c.d. refrattari. Quei preti cioè che, rifiutandosi di giurare sulla Costituzione giacobina, furono perseguitati, incarcerati, e spesso uccisi, in quanto “nemici” dell’Uomo (si badi bene, in senso astratto).

Veri martiri della fede, i preti refrattari della Francia rivoluzionaria e bonapartiana, dettero uno dei più begli esempi degli ultimi secoli di fedeltà alla Chiesa e al Magistero. Mi pare oggi che la situazione sia analoga: si chiede ai sacerdoti cieca obbedienza alle norme dello Stato, a nulla rilevando quelle divine, evidentemente di rango superiore. Non che il prete sia al di sopra della legge, evidentemente, ma è chiaro che a fronte di una legge ingiusta, egli ha il dovere di non obbedirvi.

Vi è però una differenza tra quei giorni terribili e quanto sta oggi succedendo: allora essi ebbero l’appoggio esplicito di Pio VI, che li esortò a resistere e che condannò come empia la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Oggi la gerarchia ecclesiastica, sino ai suoi massimi vertici, pare assecondare e propagandare, inopinatamente, questo nuovo mito laicista della salute fisica (e quella dell’anima?).

Grazie a Dio, però, nei tempi di sventura emergono con maggior fulgore le figure di quei sacerdoti, talvolta semplici curati di campagna, che ancora coraggiosamente resistono. Sacerdoti refrattari alla nuovelle théologie dell’ambientalismo gretino.

Sacerdoti che eroicamente, non esitano a ricordare che la Verità è una, ed è immutabile, e che la salvezza delle anime è il fine ultimo della Chiesa. Penso ad esempio al compianto Mons. Livi, deceduto pochi giorni fa. Aderimmo all’appello promosso da Stilum Curiae per la raccolta fondi per Mons. Livi, gravemente malato e dato addirittura per morto anzitempo. Di lui apprezzai la schiettezza, tipicamente toscana, unita ad una conoscenza e una chiarezza di pensiero che non temeva smentite. Le sue battaglie, sino all’ultimo, sono state contro quella falsa teologia che, come amaramente constatava, si era impossessata dei centri di ricerca e di insegnamento della Chiesa, arrivando financo a conquistare buona parte dell’episcopato europeo e nordamericano. Un gigante, Mons. Livi, che non aveva paura a chiamare le cose con il loro nome, e a denunciare “l’eresia al potere”.

E come Mons. Livi sono tanti i sacerdoti che, rimanendo fedeli al loro giuramento (tu es sacerdos in aeternum) hanno continuato nel loro ministero salvifico.

Talvolta anche a costo della propria vita.

Gli ultimi dati parlano di quasi cento sacerdoti morti per coronavirus. Tra questi voglio ricordare in particolare don Savino Tamanza (qui un bellissimo articolo del Prof. Del Nero: http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=9252&categoria=5&sezione=30&rubrica=).

Ma ancor più sono i sacerdoti che, sfidando i pericoli del coronavirus, nonché i divieti normativi, e quelli ancor più perniciosi emessi dalla gerarchia ecclesiastica, hanno voluto render pubblica testimonianza della Fede.

In tanti paesi sono state portate in processione le statue dei Santi e della Madonna, segno di antica devozione. Numerosi i casi di sacerdoti che hanno benedetto i fedeli, percorrendo le strade deserte con il Santissimo. Esempi di umili sacerdoti, spesso confinati nelle “periferie” diocesane (per usare un termine divenuto di moda). Ma tale rifiorire di una devozione popolare, semplice e autentica non poteva passare inosservata.

E così sono fioccate le denunce, e in certi casi si è assistito ad episodi che avremmo pensato (e sperato) di non vedere; episodi sconcertanti, degni della peggior dittatura comunista: S. Messe interrotte dalle forze dell’Ordine (quale?), evidentemente avvisate dal Giuda di turno, preti denunciati, fedeli chiamati alla delazione, sacerdoti ripresi e minacciati privatamente.

Sui social network un fiorire di insulti e contumelie dei “cattolici adulti” nei confronti di quei sacerdoti, rei di aver sfidato i divieti e di aver percorso le vie cittadine con il Santissimo.

Numerosi sarebbero gli esempi.

C’è, ad esempio, l’anziano sacerdote, quasi novantenne, che viene denunciato per aver celebrato davanti alla mastodontica folla di 8 persone.

C’è quello denunciato invece per aver celebrato un battesimo di un neonato con quattro (quattro!) persone. Per par condicio, stessa sorte è capitata al prete che benediceva la salma del defunto.

C’è il prete denunciato per aver presieduto l’adorazione eucaristica, e quello per non essersi attenuto, nella benedizione, alla distanza di sicurezza.

A fronte di tali tristissimi episodi, non una voce si è levata dalla gerarchia ecclesiastica in difesa di questi sacerdoti refrattari. Non mi pare che alcun vescovo abbia fatto sentire la solidarietà al povero prete di turno, né tantomeno che si sia offerto pubblicamente di pagare l’ammenda. Mi sarei aspettato che alcuni soprusi, come l’interruzione della S. Messa, sarebbero stati stigmatizzati dall’autorità ecclesiastica. E invece silenzio, nel miglior caso. Nel peggiore, una pubblica reprimenda allo sventurato di turno.

Ma a questi sacerdoti refrattari, che talvolta mi ricordano, commuovendomi, il caro don Camillo di Guareschi, va la mia e la nostra riconoscenza.

A loro, contraltari viventi della pavidità della gerarchia descritta da Cascioli, va la nostra gratitudine e la nostra riconoscenza. Il loro coraggio e il loro esempio ci danno la forza di continuare la buona battaglia.

La loro Fede ci rassicura che le parole del Signore non saranno smentite: non praevalebunt!