Palazzo Pallavicini – Roma
di Roberto de Mattei  

22 novembre 1986

È difficile immaginare, almeno qui a Roma, un ambiente più consono di questo alla nostra commemorazione.

Palzzo Pallavicini Rospigliosi, infatti, non solo è una testimonianza viva — e sottolineo viva, vissuta — dello splendore dell’epoca del Barocco e della Controriforma, ma è anche ricco di memorie significative di questa epoca, che è quella in cui ci dobbiamo immergere.

Questi saloni appartennero per un certo periodo al cardinale Mazzarino che, giunto all’apice della sua potenza, in Francia, non volle privarsi del fasto di una residenza romana. E il cardinale Giulio Mazzarino, come qualcuno certamente sa, era il prozio del nostro personaggio. La madre di Eugenio di Savoia era infatti Olimpia Mancini, figlia di un fratello del cardinal Mazzarino, che nel 1647 aveva lasciato la modesta casa romana, per raggiungere, con le sorelle, l’illustre zio a Parigi. Qui aveva sposato nel 1657 Eugenio Maurizio di Savoia, conte di Soissons, figlio a sua volta del principe Tommaso, fondatore del ramo Carignano della dinastia sabauda.

 

A Parigi, il 18 ottobre 1663 nacque il principe Eugenio di Savoia, ultimo di cinque figli. Mazzarino era morto da due anni e il giovane Luigi XIV, seguendo l’ultimo consiglio del cardinale, aveva assunto nelle sue mani le redini del governo, dichiarando che d’allora in poi sarebbe stato il primo ministro di se stesso. L’astro del Re Sole iniziava la sua ascesa. Oltre ventimila operai lavoravano giorno e notte per costruire a Versailles il monumento imperituro alla sua gloria.

È questo il palcoscenico in cui il principe Eugenio trascorse la sua giovinezza. La madre, prima compagna di giochi di Luigi XIV, fu poi sua favorita e occupò il più alto rango che una dama potesse occupare a Corte, quello di soprintendente della Casa della Regina, ma finì per cadere in disgrazia e fu costretta all’esilio. Il padre, il conte di Soissons, mori in battaglia.

Eugenio era, secondo le testimonianze, un ragazzo malaticcio e sgraziato, destinato alla carriera ecclesiastica. Luigi XIV lo aveva soprannominato il « petit abbé ». Egli la pensava però diversamente: coltivava sogni di gloria militare e suppliva con molta forza di volontà alla debolezza del fisico. A vent’anni si presentò al sovrano e gli chiese di poterlo servire come ufficiale. Il re rispose con uno sdegnoso rifiuto. Dopo qualche settimana, Eugenio di Savoia ricevette la notizia che il fratello maggiore, Luigi Giulio, colonnello nell’esercito dell’Imperatore d’Austria, era morto combattendo contro i turchi. Decise di prenderne il posto, voltando le spalle per sempre al lusso di Versailles e ai benefici di una carriera ecclesiastica per cui non si sentiva portato.

 

Lasciò Parigi a fine luglio. Cavalcò da solo fino a Regensburg e costeggiando il Danubio raggiunse Passau, dove il 20 agosto incontrò l’Imperatore Leopoldo I e gli promise fedeltà alla Casa d’Austria e all’Impero: « Prometto la integra fedeltà costante e di sacrificare in tutti, anche i maggiori pericoli della guerra, tutte le mie forze fino all’ultima goccia di sangue, per il benessere e la potenza della Sua Maestà e della somma casa d’Austria ».

Finalmente raggiunse l’esercito cristiano, che si apprestava a sferrare l’assalto decisivo all’enorme esercito ottomano che da due mesi assediava Vienna. Pochi avrebbero scommesso sull’avvenire di questo giovane dal fisico infelice, senza nessuna esperienza militare, totalmente privo di mezzi, persino del denaro necessario a comprare quell’uniforme di colore azzurro, dal cappello piumato, con cui i volontari di alto rango si distinguevano dalle truppe regolari.

Fu aggregato alle truppe del duca di Baviera e all’alba del 12 settembre, il giorno dell’attacco decisivo, dalle alture del Kahlenberg, vide per la prima volta, avvolta dal fumo e dalle fiamme, Vienna, la città a cui avrebbe legato la sua vita.

La sua scelta di campo, per gli Asburgo e per l’Impero, non deve meravigliare. Nell’Europa di allora non esistevano i rigidi confini nazionali. Si era cittadini di un organismo vivo che, meglio che l’Europa, si dovrebbe definire la Cristianità. Sotto le bandiere dell’Impero, nella crociata contro i turchi, combattevano esponenti di tutta la nobiltà europea. Eugenio di Savoia del resto aveva nelle sue vene il sangue dei Borboni, attraverso la nonna paterna, ma anche quello degli Asburgo, perché il nonno era nipote di Filippo II, pronipote di Carlo V.

 

Sembra che Luigi XIV, quando fu informato della partenza dell’« abbé de Savoye », scrollasse le spalle osservando ironicamente che non si trattava di una grande perdita. Più tardi il Re Sole confessò che il suo rifiuto era stato l’errore più grande del suo regno. Non il solo errore, aggiungiamo noi, e probabilmente non il più grande. Nel 1689, giunse al Re un singolare messaggio. La superiora di un convento del suo regno, quello delle visitandine di Paray-le-Monial, fece pervenire al sovrano un messaggio che una sua suora, favorita da rivelazioni divine, aveva ricevuto dal Cielo. La suora era Margherita Maria Alacoque, oggi santa, conosciuta per la grande promessa dei primi venerdì del mese. Il Signore le faceva un’altra promessa, rivolta questa volta direttamente al re di Francia. Prometteva il trionfo del re di Francia sui suoi nemici, se questi avesse fatto non di se stesso, ma del Sacro Cuore, il sole del suo regno, dipingendolo sulle sue armi e sui suoi stendardi. Luigi XIV disdegnò questo appello. In quello stesso 1689, l’anno in cui secondo gli storici iniziò il declino del Re Sole, il principe Eugenio incrociò per la prima volta le armi con i francesi nell’assedio di Magonza. Gli ambiziosi piani di espansione di Luigi XIV erano destinati a trovare un avversario implacabile proprio in Eugenio di Savoia, il piccolo abate destinato a divenire, al servizio degli Asburgo, il più grande condottiero del suo tempo.

 

Dopo lunghe lotte su tutti i fronti europei, la pace tra i Borbone e gli Asburgo fu firmata ad Utrecht e Rastadt. nel 1713. Il principe Eugenio partecipò alle trattative. Sul piano diplomatico come su quello militare, fu lui l’avversario più implacabile dell’egemonia che proprio suo zio, il cardinal Mazzarino, aveva forgiato. La Francia era avviata ad una formidabile crisi che esploderà con la Rivoluzione, sotto Luigi XVI, mentre l’Austria raggiungeva il suo apogeo, divenendo il centro di un grande Impero danubiano nel cuore dell’Europa. Gli Asburgo erano in possesso dei Paesi Bassi spagnoli, del Belgio, di Milano, dell’Italia meridionale e avevano arrestato ad Oriente la minaccia ottomana. Vienna era divenuta un grande polo intellettuale e artistico europeo, il simbolo stesso dell’età del Barocco e della Controriforma.

Fu soprattutto ad Eugenio di Savoia che l’Austria deve questa grandezza, che avrebbe potuto essere forse della Francia, se Luigi XIV avesse accolto il giovane cadetto nel suo Esercito. La casa d’Austria in compenso non lesinò onori al suo eroe. Tre imperatori, Leopoldo I, Giuseppe I e Carlo VI, colmarono il loro « saggio consigliere » — così sta scritto sul suo monumento a Vienna — con lodi e riconoscimenti.

Il principe Eugenio fu a soli 30 anni Federmaresciallo dell’Impero, la suprema carica militare nel Sacro Romano Impero; presidente del consiglio aulico di guerra, dal 1703 fino alla morte, tenente generale, cioè sostituto dell’imperatore; presidente della Conferenza segreta, ciò che corrisponde al primo ministro dei nostri tempi; fu inoltre luogotenente in Baviera, a Milano e nei Paesi Bassi ed infine vicario generale in Italia. Mai un funzionario pubblico nel Sacro Romano Impero e in Austria, né prima né dopo di lui, riunì nelle sue mani tanti poteri. Fu l’eroe della monarchia asburgica. La sua vita coincise con la parabola ascendente di quella che Adam Wandruszka ha definito l’epoca asburgica, l’età aurea della Domus Austriae, l’era del trionfo degli ideali della Contro-riforma e del barocco.

 

La notte in cui Eugenio di Savoia mori, il 21 aprile 1736, un animale prediletto del principe, un magnifico leone custodito nel serraglio del Belvedere, cominciò a ruggire angosciosamente per poi sdraiarsi muto nella gabbia e rifiutare ogni cibo fino a morire. Il popolo di Vienna credette che l’inizio dei ruggiti avesse segnato l’ora esatta della morte del principe e che la morte del leone simboleggiasse per l’Impero la fine della sua forza più potente, che era appunto il Principe Eugenio.

 

Eugenio di Savoia può essere considerato una personificazione dell’Impero asburgico, ma fu anche il maggiore difensore della Civiltà Cristiana contro i Turchi nel suo tempo. Tre nomi almeno vanno ricordati: Vienna, Zenta, Belgrado, tre vette nelle campagne militari che condusse per 34 anni contro i turchi.

Vienna 1683: il suo battesimo del fuoco. La città assediata da un’armata ottomana di oltre duecentomila uomini, è ridotta allo stremo. Papa Innocenzo XI ha lanciato un supremo appello ai principi cristiani per la crociata. Il piano turco è la creazione di un secondo impero musulmano, con il Gran Visir Kara Mustafa sultano d’Occidente. La meta finale è Roma; San Pietro è già destinata, nei piani del Gran Visir, a divenire la scuderia per i cavalli del sultano.

A Vienna, per la prima volta Eugenio di Savoia cinge la spada, aprendosi la strada combattendo dal Kahlenberg alla Burgtur. Al tramonto Vienna era libera, l’esercito ottomano in rotta. Il valore del giovane principe non era passato inosservato. L’imperatore lo fece chiamare e gli promise il primo comando di reggimento che si fosse reso vacante. Tre mesi dopo venne nominato colonnello del reggimento di dragoni di Kufstein. Iniziava così con questa battaglia così decisiva per le sorti della Civiltà cristiana il suo stato di servizio nell’Impero.

 

1697: Eugenio di Savoia ha 34 anni e, cessata la lunga guerra tra la Francia e l’Austria, viene nominato comandante supremo dell’Armata Imperiale contro gli ottomani che preparano una nuova avanzata contro Occidente. L’11 settembre riporta una vittoria sfolgorante contro il Sultano Mustafà II a Zenta, sul fiume Tibisco. Più di 10 mila turchi periscono nel fiume, oltre 20 mila sul campo. Le perdite dell’esercito imperiale non superano i cinquecento morti. Il sultano è costretto a firmare la pace di Carlowitz. Ungheria e Transilvania passano alla Corona degli Asburgo. La clamorosa vittoria diede ad Eugenio di Savoia fama europea.

 

Nel 1715 per l’ultima volta nella storia, i turchi tentano un supremo attacco contro l’Occidente. Questa volta il Papa è Clemente XI. Il Pontefice si ispira ai suoi predecessori san Pio V e Innocenzo XI e lancia un appello ai principi cattolici per difendere la Cristianità. Il vincitore di Zenta riprende il supremo comando. Ha 53 anni e lo accompagnano giovani principi di tutte le case d’Europa per apprendere da lui l’arte della guerra.

I turchi assediano Petervaradino, presso il Danubio, e sono comandati dal Gran Visir in persona. La mattina del 5 agosto 1715, festa. della, Madonna della Neve, i1 principe Eugenio offre battaglia, in campo aperto a, un nemico tre volte superiore. È una nuova splendida vittoria.

Tutta l’Europa giubila. A Roma, per volere de1 Papa furono suonate tutte le campane e illuminata la città. Clemente XI decise di concedergli il sommo onore del « Pileo e dello stocco ». Si trattava di una berretta è di una, spada benedetta che investivano l’insignito della dignità di Generale della Santa Chiesa. Il principe Eugenio volle che la cerimonia si svolgesse con la massima solennità militare e liturgica. Di tutti gli onori avuti nella sua, vita di condottiero era il più grande e significativo.

Il 13 ottobre libera la fortezza di Temesvar, che i turchi avevano soprannominato « Gazi », la vittoriosa. L’entusiasmo a Vienna sale alle stelle. La fortezza era stata in mano ai turchi per 164 anni. Il 22 agosto infine Eugenio di Savoia conquista Belgrado. Mentre cavalca verso Vienna, dove l’attende il trionfo, di fortezza in fortezza, di guarnigione in guarnigione, lo accompagna una melodia nata sul campo di battaglia: Prinz Eugen, der edle Ritter… « Il Principe Eugenio, il nobile cavaliere volle recuperare all’Imperatore la città e la fortezza di Belgrado… ». Per l’Occidente fu la fine della minaccia turca. Con questa battaglia, scrive Rohrbacher, il grande storico della Chiesa, « terminava la serie militare delle crociate, da Goffredo di Buglione sino a Eugenio di Savoia »[1].

 

Eugenio di Savoia fu un uomo di guerra, quasi un crociato. Ha senso commemorarlo nell’atmosfera di irenismo in cui viviamo, in una società in cui la parola crociata ispira un istintivo disagio e solo si odono appelli all’ecumenismo e alla pace?

La pace… Di poche parole oggi si abusa come di questa. Tutti gli uomini desiderano la pace, anche chi fa la guerra, perché come scrive Aristotele nella Politica, « lo scopo della guerra è la pace » [2]. E san Tommaso spiega come non vi è uomo che non tende al bene, o meglio a un bene, e la pace ha appunto per oggetto il bene[3]: è il riposo delle nostre facoltà nel bene conquistato. Il problema è di stabilire qual è il bene, il vero bene; qual è la pace, la vera pace.

Perché la parola pace ha un senso solo se ad essa attribuiamo un valore assoluto, oggettivo, valido per tutti gli uomini. Altrimenti ognuno di noi avrà un’idea diversa della pace, proporzionata alla propria visione del mondo. E poiché la pace è la tranquillità nell’ordine, dobbiamo chiederci qual è l’ordine politico e sociale in cui vogliamo vivere in armonia e tranquillità.

Quest’ordine, questa pace è un bene che merita di essere difeso. E quale ordine, quale bene possiamo immaginare al di fuori della Civiltà occidentale e cristiana, costruita nei secoli a prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifici? Questa Civiltà, salvata a Lepanto, a Vienna, a Belgrado, non corre oggi nessun pericolo? Non è forse minacciata da un pericolo ben maggiore di quello ottomano?

È necessario pronunciare un nome che oggi non si ha il coraggio di pronunziare: comunismo. Comunismo: non è un fantasma, è una realtà minacciosa, presente e vera. L’Impero del Cremlino è oggi oggettivamente tanto vasto che di fronte ad esso quello ottomano sembra piccolo. E lo studio dell’ideologia comunista, la storia degli ultimi 70 anni non lasciano dubbi in proposito: il governo del Cremlino, animato da un implacabile imperialismo ideologico, punta ad imporre a tutto il mondo il pensiero e il sistema di vita comunista: il suo scopo dichiarato è l’ordine internazionale socialista, cioè la pace rossa nel mondo.

 

La nostra situazione è più difficile di quella degli assediati di Vienna, perché non si odono supremi appelli e non si vede un esercito liberatore in marcia. Eppure la Civiltà cristiana non perirà. I nostri antenati hanno sempre ritenuto che per vincere, accanto al valore delle armi, fosse necessario l’aiuto di Dio e in particolare quello della Madonna. A Lei fu attribuita dai Papi il trionfo di Lepanto, la liberazione di Vienna, le vittorie del Principe Eugenio a Petervaradino e a Belgrado. Come pensare di fare a meno di questo aiuto? Ma con questo aiuto, come dubitare della vittoria?

È vero: senza un intervento straordinario della grazia nulla si può sperare. Ma in compenso, con questo intervento si può sperare tutto: sperare per l’Italia, sperare per l’Europa, sperare per il mondo. È un grande pensatore e uomo di azione contemporaneo, Plinio Corrêa de Oliveira ad affermarlo, ricordandoci come « quando gli uomini decidono di collaborare con la grazia di Dio, allora nella storia accadono cose meravigliose: la conversione dell’Impero romano, la formazione del Medioevo, la riconquista della Spagna a partire da Covadonga »[4].

Noi non possiamo fare a meno di Dio, ma Dio vuole la nostra collaborazione. E questo incontro, la grazia di Dio e la collaborazione dell’uomo, produce effetti straordinari: anche la resurrezione di un popolo, anche la restaurazione di una civiltà.

 

Non ho voluto parlare della vita privata di Eugenio di Savoia, di cui ben poco sappiamo, né di tutti gli aspetti della sua multiforme vita pubblica, ma solo sottolineare i maggiori titoli della sua grandezza. Grandezza che ha la sua fonte nella lotta, nel sacrificio, nella forza messa al servizio di grandi ideali. Se questi ideali non sono morti, se vera grandezza fu quella del principe Eugenio, non sarà grandezza, non sarà nobiltà, non sarà eroismo, quello di chi, confidando nell’aiuto di Dio, vorrà dedicare le sue energie a difendere anche oggi, nel nostro tempo, l’Europa e la Civiltà cristiana? O questa grandezza o la resa.

Oggi non é da temere il nemico, ma sono da temere coloro che negano che esista un nemico, coloro che non vogliono sentire parlare di lotta o di sacrifici in difesa della Civiltà cristiana, per vivere immersi nel loro tranquillo egoismo, nella loro tranquilla mediocrità, nella loro incapacità di sollevarsi ad ideali più alti dei propri bisogni ed interessi immediati, invocando una pace che non è altro che il proprio stare in pace. Si, io non temo i nemici della Civiltà occidentale, ma coloro che chiamano pace la capitolazione e la resa.

Eugenio di Savoia, il grande servitore dell’Impero Austriaco, il grande difensore della Civiltà Cristiana, può essere considerato la personificazione dell’uomo che respinge la tentazione della mediocrità e della resa e pone innanzi a tutto la fedeltà, il dovere, il sacrificio, la lotta. La sua scelta deve essere la nostra scelta. A questa scelta non si può sfuggire. È necessario sacrificarci e lottare oggi perché la Civiltà cristiana non perisca e perché il nostro avvenire, il futuro delle nostre famiglie e delle generazioni che verranno sia un futuro non di odio e di violenza, ma di ordine, di tranquillità, di pace, di quella vera pace a cui con tutte le fibre del nostro cuore, tutti noi sinceramente e profondamente aspiriamo.

[1] F. de Rohrbacher, Storia Universale della Chiesa Cattolica, tr. it. Marietti, Torino 1869, vol. XIV, p. 433

[2] Aristotele, Politica IV, c. XIII, 133, a. 14-15.

[3] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, q. 29, a. 4

[4] Plinio Corrêa de Oliveira Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, tr. it. Cristianità, Piacenza 1977, p. 151