Fonte: Osteria e Giornale

La finestra del mio studio domina non solo il paese, il mio “natìo Borgo selvaggio”, ma anche la vallata del Mugello.

Non così in questi giorni di pestilenza (il Coronavirus) e di forzata “quarantena”…il panorama non è certo cambiato, ma è come un paesaggio surreale, come certi, pur bellissimi quadri di De Chirico, ma che mettono angoscia : insomma paesaggi perfetti con colonnati classici e palazzi di precisa architettura, ma vuoti, senz’anima…insomma senza la presenza dell’uomo.

E cosi’, affacciandomi in questi giorni, rivedo le vie e le piazze del mio Borgo, il Corso, i Giardini, il Campanile longobardo e la Pieve romanica, l’Oratorio del SS. Crocifisso e quello della Misericordia, il viale lunghissimo della Stazione, il “Pratino” e il Bar della Corallina, il Palazzo Comunale e la vecchia casa del Fascio, poi “del Popolo” e ora, finalmente, sede della Legione dei CC…

Ma che tristezza, che malinconia…senza persone , un paesaggio silenzioso, astrale,senza voci, senza suoni, senza grida e canzoni, senza le acute voci argentine dei fanciulli, e senza colori… e allora io torno indietro nel tempo e fo rivivere questo mio Borgo silente e ridò vita e anima, ma anche voce, ai personaggi del mio paese.

Per rianimare il paesaggio mi vengono alla menti i canti, la musica…già, una volta la gente cantava, e cantava durante le festività e le cerimonie religiose, durante le cerimonie e le festività civili, i ragazzi cantavano a scuola, nell’agone politico, si cantavano, dai balconi e dalle finestre, inni all’amore e alla vitra e, allora, cantavano, fischiettando, anche gli uomini la mattina davanti allo specchio, quando si facevano la barba o quando, prima del lavoro, scendevano le scale….

Ecco, stamane io rivedevo quella bella fanciulla del mio rione popolare, “I Macelli”, che al balcone, cantava con la voce da soprano, quella triste canzone dell’ormai anziano notaio che riviveva i giorni belli dell’Università e gli amori giovanili:

Signorinella pallida 

Dolce dirimpettaia del terzo piano,

Non v’è una notte ch’io non sogni Napoli

E son vent’anni che ne sto lontano…

Al mio paese nevica

il campanile della chiesa è bianco,

tutta la legna è diventata cenere,

io ho sempre freddo e sono triste e stanco….

Al mattino nel mio paese iniziava la vita e i ragazzi, con grembiulino nero e cartella a tracolla, se ne andavano a scuola – allora non c’erano i pulmini e i “piedini” – da soli e, tra le materie, ce n’era una particolarmente amata, ovvero il “canto”; ricordo che la mia maestra faceva, nella stessa ora, sia religione che canto, e veniva a insegnarci le belle laudi mariane la signorina Anna Cipriani per cui, quando andavamo, la domenica, a Messa dai salesiani, sapevamo cantare più dei “grandi” dell’oratorio:

Mira il tuo popolo o bella Signora

che pien di giubilo oggi ti onora

Anch’io, festevole, corro ai tuoi piè

Oh! Stanta Vergine prega per me 

La stessa laude che all’asilo ci avevano fatto cantare le “suorine” e che cantavamo, in processione, insieme ad altre e ad una che non ho più riascoltato da quando ero bambino e avevo sei anni…ho saputo che era una delle tante musicate dal Maestro Bartolucci, con le parole di Mons. Bonardi:

Nel bel cielo d’Italia a trionfare

 vieni o Regina

Vieni a viver, con noi vieni dolcissima,

 Madre e Regina.

Per te la via s’infiora

di te i bimbi sentono la carezza

Deh siam tutti redenti dal peccato

per la tua tenerezza…

Poi c’era la novena di maggio, in pieve, a sera, – avevamo il permesso di uscire…fino alle 10,30- e, prima di andare a giocare a nascondino nei giardini di piazza Dante, si cantava, dopo la Benedizione Eucaristica, quella bella laude che ti faceva pregustare il Paradiso e la visione della Vergine:

Andrò a vederla un dì

in Cielo, patria mia ,

andrò a veder Maria

mia gioia e mio amor.

Al cielo al cielo al ciel

andrò a vederla un dì.

Dopo quattro anni la maestra se ne andò in pensione e avemmo un maestro, a noi assai caro, che pur facendo lo stesso lezione di religione, non l’abbinava al canto, infatti ci faceva cantar canzoni “marziali” e patriottiche che ci infiammavano il cuore, da l’Inno nazionale al “Il Piave mormorava” e financo  quella graziosa canzone patriottico – amorosa che si trova nell’operetta di Nando Vitali : “Il Gatto in Cantina”

Quando la bella  m’ha salutato,

piangendo m’ha donato il tricolore

il bianco, ha detto, è il pianto che ho versato

il rosso è tutto il fuoco del mio amore,

E il verde è la speranza 

che un dì ritornerai,

e allor mi sposerai,

s’io morta non sarò!

Ma non tornar

se per la patria bella

di libertà una stella…

Lassù nel cielo non brillerà.

Già erano gli anni Cinquanta e allora eravamo tutti “risorgimentalisti”, poi, venne la contestazione e il “vilipendio alla Bandiera”, infine, una “sano revisionismo” che pur non mettendo in discussione l’Unità d’Italia andava a vedere anche le “ragioni dei vinti”.

Anche nei comizi politici gli inni erano importanti: negli anni Cinquanta, in piazza dell’Orologio, su un palchetto, davanti al posteggio della Giorgina, parlava il PCI e quando l’entusiasmante Siro Cocchi o l’Onorevole Palazzeschi stavano per salire sul palco, con la giacca sulle spalle, allora nella folla correva come una vampata bollente di entusiasmo, i cuori si scaldavano e le voci della

Comizio di Enrico Berlinguer a Borgo (1947)

folla sopraffacevano la musica dell’altoparlante, – che fino a pochi minuti prima aveva fatto ascoltare il canto malinconico di “Fischia il vento / urla la bufera/ scarper rotte eppur bisogna andar/ a conquistare la nostra primavera/ dove spunta il sol dell’avvenir… – ed era un coro unico di:

Avanti, o popolo alla riscossa,

bandiera rossa, bandiera rossa,

Bandiera rossa la trionferà,

bandiera rossa la trionferà

bandiera rossa la trionferà

evviva il Comunismo e la libertà..

Vogliam le fabbriche, vogliam la terra

ma senza guerra, ma senza guerra,

bandiera rossa la trionferà etc

La Democrazia cristiana non parlava in piazza dell’Orologio ma, al pari dei socialdemoctaici, dei liberali, dei repubblicani, dei missini e dei monarchici, in via Pananti, davanti all’edicola del Mattioli, dove veniva montato il palco e l’impianto altoparlanti e la corrente doveva dartela il Mattioli (che, per la verità, la faceva prendere a tutti, indipendentemente dalle idee)…l’Onorevole Vedovato, morto recentemente quasi centenario, l’Onorevole Adone Zoli e, poi, gli Onorevoli Caiazza e Nannini, il Senatore Ivo Butini…ma quello che più attraeva era Giorgio La Pira, il “Sindaco Santo” che, infatti, venne negli anni Cinquanta a parlare a Borgo San Lorenzo. Ed io ho negli occhi e negli orecchi quel comizio che mai vidi (avevo sei anni) ma che mi ha sempre raccontato, con dovizia di particolari, il mio defunto amico Beppe Paladini…e come ridevamo di cuore a quel ricordo…

Prima che La Pira prendesse le parole l’altoparlante fece dunque ascoltare le note di ” Bianco fiore”  che non è come potrebbe sembrare una canzoncina per “Battelli senza vapori” ma un inno piuttosto marziale, allorché si parla di

“Udimmo una voce: corremmo all’appello

nel segno di croce ciascun sia fratello!

nel segno struggente di mille bandiere

vittoria alle schiere di fiamme e d’ardor

Oh bianco fiore simbolo d’amore,

con te la gloria della vittoria.

con te la pace che sospira il cor.

Insomma – mi raccontava Beppe – la folla faceva corona intorno a Giorgio La Pira che, amabilissimo, stringeva mani e dava pacche sulle spalle e ad ascoltarlo c’erano anche due noti dirigenti del PCI locale che, pur non essendo certo gli anni Cinquanta, periodo di “dialogo”, facevano eccezione per il “Sindaco Santo”…che almeno, dicevano molti esponenti della Sinisstra, non andava in giro a dire che “i comunisti mangiano i bambini”. Comunque quel comizio era stato annunziato come una manifestazione in difesa della Patria, della famiglia, e della proprietà privata, allora, per la DC, messa in discussione dal programma del partito comunista.

La Pira montò sul palco e, più o meno, fece questo discorso : “La DC è il vero partito del popolo, perché intende risolvere davvero i problemi della povera gente e ha anche un metodo per farlo: a tutti va data la possibilità di vivere dignitosamente con la propria famiglia. E i soldi? – si domandò retoricamente Giorgio La Pira – i soldi si trovano, si levano dalle banche e si danno ai poveri…”

A questa apologia dell”esproprio proletario i democristiani rimassero “spiazzati” ma ci fu perfino chi, bon gré mal gré, applaudì, ma, improvvisamente uno dei due dirigenti del PCI, con voce stentorea, urlò : “…Già, ma in banca i soldi un ce li hanno messi mica i poveri!” ….gelo tra gli astanti.

Quando pochi mesi fa (il 4 novembre 2019) , durante una riunione conviviale a casa dell’Avv:Ascanio Ruschi, raccontai il fatto a Giovanni Pallanti ex vice sindaco di Firenze, discepolo e “pupillo”del “Sindaco Santo” e al suo biografo Domenico De Carlo, Giovanni salomonicamente mi disse : “La Pira era anche questo…ma non solamente questo…”e  Domenico Di Carlo mi regalò una copia del suo ultimo libro : “Giorgio La Pira: operatore di pace, profeta di speranza e di nuovo umanesimo” – Ed Solfanelli-Chieti 2019 con la seguente dedica : “A Pucci Cipriani testimone della cultura e della cultura firentina con profonda stima e amicizia”

Quando invece a Borgo San Lorenzo – e mi riferisco sempre ai racconti degli anni Cinquanta – parlava il MSI (i “missini”) allora la piazza era semivuota e la poca gente si tenava a distanza, raso i muri, quasi a voler far finta di esser passata di lì “per caso” e, prima che gli oratori “missini” (l’avv.borghigiano Valerio De Sanctis, i Colonnelli Mario Bassi e Gino Mordini, il Geom. Benfatti, il prof. Piero Mazzoni, il giovanissimo Nando Ventra, il prof Ugo Stoppato…) prendessero la parola, su un vecchio giradischi veniva fatto suonare un disco a 78 giri, graffiato, con sopra l’Inno

a Roma e l’inno del MSI, un inno molto bello e suggestivo ma che, nell’ambiente di Destra, si diceva portasse “sculo” :

Siamo nati da un fosco tramonto

di rinuncia, vergogna, dolore,

siamo nati da un atto d’amore

riscattando l’altrui disonor

Siamo nati nel nome d’Italia 

stretti intorno alla nostra bandiera

è rinata con noi primavera

si è riaccesa una fiamma nei cuor…

Nel mio rione dei Macelli, abitava anche Giancarlo Stefanini, il “Metato”- ovvero il Narciso Parigi borghigiano – suonava la fisarmonica in un complesso e, a noi ragazzi, sulla sua porta di casa, con la fisarmonica, ci faceva ascoltare i motivetti che, poi, avrebbe cantato, nelle balere e, nei giorni di Carnevale e per la Pentolaccia, al Teatro Giotto, ed erano motivi “lenti”, malinconici come:

Arrivederci Roma,

good bye, good by, au revoir.

Si rivede a spasso in carrozzella

e ripensa quella “ciumachella”

che era tanto bella e che gli ha detto sempre “no!”

erano le canzonette allegre del napoletano Renato Carosone, allora molto in voga.

Tu vuò fa’ l’americano

“mmericano! ‘mmericano!

Siente a me, chi t’ ‘o fa fa?

Tu vuoi vivre alla moda,

ma si bive “Whisky and Soda”

po’ te siente disturbà…

E, poi, la rivoluzione, la canzone moderna, con Mina, che ti prometteva la felicità e la gioventù con un gettone da cinquanta lire:

La felicità

costa un gettone,

per i ragazzi del Juke -box.

La gioventù,

la gioventù,

la compro per cinquanta lire e nulla più…

Per non parlare di Celentano che non ti prometteva un “bacetto d’amor”, bensì ventiquattromila baci:

Con 24 mila baci

felici corrono le ore,

d’un giorno spendido, perché

ogni secondo bacio te….

…e, pertanto:

Niente bugie meravigliose,

frasi d’amore appassonate,

ma solo baci chiedo a te;

ye ye ye ye ye ye ye!..

Ricordo la mia nonna materna, Maria Assunta, che, quando sentiva queste canzoni si alzava disgustata esclamando :”Io queste imbecillità non le posso neanche sentire!”…e se ne andava, silente, in camera sua, a recitare il Rosario… e, forse, non aveva torto se si pensa a quel che sarebbe venuto dopo!

Nei “Meravigliosi anni Cinquanta” non c’era la televisione e, in casa, le notizie le dava, tre volte il giorno, la radio – ricordo la nostra radio a valvole Magnete Marelli – insieme a programmi culturali, ad esempio,la mattina, in classe, alla ricreazione delle 10,30, ci facevano sentire una bella trasmissione “La Radio per le scuole”…

Ricordo, non andavo ancora a scuola, che dalle finestre si udivan le donne cantare che, a un tempo, facevano le soliste e il coro…già, una canzone del 1947 di Redi – Olivieri – Nisa, : “Eulalia Torricelli”, portata al successo dal cantante Gigi Beccaria. Ed era la canzone di una ragazza di Forlì, innamorata della guardia forestale De Rossi Giosuè:

Voi non la conoscete, ha gli occhi belli…

(coro) Chi?

Eulalia Torricelli di Forlì…

Voi non la conoscete, ha tre castelli..(coro) Chi?

Eulalia Torricelli di Forlì…

E la Vanna mi chiamava dalla sua finestra :“Oh, Pucci, alle due Villa canta ‘L’acqua del Torrente”…Villa, La Nilla Pizzi, Natalino Otto, Gino Latilla, Carla Boni, Achille Togliani… e nel 1951 nasce il Festival di Sanremo che, di lì a poco, diventerà la manifestazione nazionale (e non solo nazionale) più importante: non la televisione ma la radio diffonde, lunedì 29 gennaio 1951, le prime note del festival nelle nostre case. Nunzio Filogamo presenta il Festival e saluta i cari amici “vicini” e “lontani” e presenta le venti composizioni scelte dalla RAI e a cantarle sono soltanto in tre : Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano.Vince Nilla Pizzi con “Grazie dei fiori” e, all’indomani, nel mio paese, era tutto un cantare o un fischiettare l’aria di “Grazie dei fiori”…e Tonino, il lattaio, che faceva la corte sommessamente a una bella biondina, che abitava accanto a casa mia, gliela cantava, a sera, quando veniva nelle case a portare la bottiglia del latte col tappo di stagnola che lasciava davanti alla porta:

Grazie dei fior,

fra tutti gli altri li ho risconosciuti;

mi han fatto male, eppure li ho graditi…

Son rose rosse e parlano d’amor…

Di “Grazie dei fiori” si venderanno 36.000 dischi un successone per l’epoca.

E così parte il Festival sanremese che, nel 1952, verrà ancora vinto da Nila Pizzi con la canzone “Vola Colomba”…destinata a divenire famosa e che molti vedranno, come un po’ reazionaria” perché riproneva – a detta di qualcuno – “un’Italia prevalentemente arcaica e rurale, i cui simboli sono la campana, il vespro” la dedizione al lavoro, e perfino l’amor di Patria ….ma questa non era “ideologia” : era la fotografia dell’Italia d’allora – di cui il mio “natìo borgo selvaggio” era una piccola componente – quando le persone, pur divise dai partiti, avevano saldi alcuni valorie sani principi, come quello dell’amor di patria, della religione e della famiglia…io li ricordo i comunisti d’allora che incorniciavano, in un quadro col lumino, il nonno bersagliere morto, con onore, nella “Grande Guerra” e, quando passava la processione del Corpus Domini, eranoi primi a mettere i lumi alle finestre e stavano chini a far le infiorate..e in famiglia eran loro a portare i pntaloni e ad esigere una sana disciplina…per cui le ragazze dovevano essere morigerate e “stare alla larga dai mosconi”…

E allora salutiamola..questa “colomba bianca” con la quale concludo il mio “pezzo”

Dio del ciel, se fossi una colomba,

vorrei volar laggiù, dov’è il mio amor 

che, inginocchiato a San Giusto,

prega con l’animo mesto:

“Fa’ ch il mio amore torni…ma torni presto!”…

Vola, colomba bianca, vola…

Diglielo, tu, che tornerò…

Dille che non sarò più sola

e he mai più lo lascerò!… 

Mah…io ricordo nel mio Borgo gli amori adolescenziali , i messaggi segreti, la gioia, alla domenica,di andare al cinema e -come  trasgressione – stare, tutto il tempo della durata del film, con la mano nella mano; ricordo i primi regali: il Tabacco d’Arar, la “Lavanda Coldinava”, un disco con la canzone “Marina”, i bigliettini con i cuori trafitti e le frasi amorose:“Scrissi il tuo nome sulla sabbia e il vento lo cancellò / lo scrissi nelmio cuore e lì restò”…ricordi  tutti legati a una melodia di una canzone d’amore…e non era l’amore che intendono i giovani d’oggi..anche se, in effetti, l’amore è sempre stato amore, ma, allora, con un pizzico di buon gusto e, soprattutto di pudore, come ci suggerisce il Foscolo ne “I Sepolcri” (vv.176 -179 ) citando il Petrarca

“quel dolce di Calliope labbro,

che Amore in Grecia nudo nudo in Roma

d’un velo candidissimo adornando

rendea nel grembo a Venere celeste”

Come non trovarsi d’accordo?

Pucci Cipriani