Muse che avete lasciato le penne aguzze e li agresti calami per le tastiere – e forse il baratto di Glauco fu più felice del vostro – poco vi chiede il mio servo ingegno: la pazienza per raccontare a un amico la nobile ancorché piccola impresa di tre giovani cristiani, che hanno subordinato la salute del copro a quella dell’anima e la cautela individuale a un più oggettivo dovere etico; temerità che forse le anime piccole dei secoli intransigenti additeranno sdegnose “barbari!” gridando “briganti senza scienza!”. Non per la curiosità di vedere le genti veneziane, che una nube di turisti abitualmente avvolge e confonde, non per l’orgoglio di sfidare una legge iniqua, non per il piacere della gola né per la lode del volgo – anzi, decisamente contro quest’ultima – ma per quel merito che risuona silenzioso fra le orecchie degli amici e, compagno della preghiera, sale fino alle Vette Celesti, dove ogni gloria è condivisa. Quantunque tu immerga la vista in questo mio scritto non vi troverai due parti di sapore uguale ma, come in quei piatti che dissimulano gusti alterni sotto un aspetto omogeneo, cui va la mia predilezione, riconoscerai confuso al balsamo della narrazione l’aguzzo pepe della satira. Ora ché s’indugia? Sleghiamo la galea ferma in porto e tu conoscerai, lettor, s’io sono bravo timoniere e tu felice rematore.
Dopo essermi provvisto di lucidissime istruzioni per la Messa e un’autorizzazione a prova di botolo ringhioso della polizia, con tanto di riferimenti puntuali a decreti e la copertura, qualora servisse, di un avvocato, Domenica delle Palme già viaggiavo senza ostacoli – prodigio di Mercurio o menzogna dei telegiornali? – lungo l’autostrada per Venezia. So che non ami particolarmente stringere il volante fra le mani ma, ti assicuro, percorrere su quattro ruote la strada deserta sotto un cielo mattutino appena ombreggiato da qualche errante nuvoletta, in questo clima primaverile e fresco non è meno esteticamente interessante di un viaggio in carrozza. Giunto sull’isola artificiale più brutta di Venezia, tralasciando qualche peripezia per trovare il parcheggio (il mio amico ne aveva indicato uno gratuito… ma quale? dove?) lascio la vettura al mercato del pesce, incrociando le dita: in fondo, gli sbirri hanno troppi vecchietti da inseguire nei campi per occuparsi della mia auto. Esco bramoso di trarre una lunga boccata d’aria, prima di ingabbiare il volto nella mascherina come fossi un operatore della disinfestazione. Una rapida occhiata agli specchietti mi rassicura: in fondo, mantenevo anche con quella un aspetto da galantuomo. Mi dirigo correndo verso la stazione, finché il fiato regge: nessuna pattuglia in vista. Viene ora un momento bello da ricordare. Approfittando dei pochi minuti guadagnati, mi sono fermato a meditare sulla sommità del ponte detto di Calatrava, appoggiandomi al corrimano. Da quella modesta altezza vedevo la cupola della chiesa di San Simeone Piccolo specchiarsi nelle acque mere del Canal Grande, che luccicando in superficie scorrevano curvandosi fin sotto i miei piedi. I raggi del Sole – quanto in quel momento mi sembravano cose preziose – gareggiavano con la brezza per rendere perfetta la temperatura, e in tanta bellezza ho rivolto una preghiera a Dio, chiedendo che mi sostenesse con la sua Grazia durante le Celebrazioni. Quanta era infatti la gioia di trovarmi in quel luogo, in quel momento, altrettanto temevo di farmi trasportare dalle sciocchezze della fantasia o lasciare che i pensieri delle contingenze mondane oscurassero le Sostanze Divine. Libertas, quae sera tamen respexit… ma noi non diremo inertem. La bellissima Venezia mi offriva la delizia dei suoi nobili palazzi e di quel ponte, detto degli Scalzi, che mai non vide se stesso così vuoto. In breve raggiungo la chiesa di San Simeon, entrando con disinvoltura dalla porta laterale che mi era stata descritta di un azzurrino sbiadito. Mentre percorro l’invero strettissimo corridoio, intonando un sonoro “Buongiorno!”, si avvicina a me per primo un barbuto giovane, il più maturo di un trio di fratelli che soprannomino Qui, Quo e Qua, per un certo giulivo ottimismo che li accomuna, e “Tieni, questa talare potrebbe andare bene per te!” fu il suo precipitoso benvenuto. Rimango lì per lì un po’ perplesso, ma proseguo oltre fino alla sagrestia, dove si presenta alla mia vista un confuso turbinare di cotte e paramenti.

Nessuno mi ha presentato i membri di quella devota squadra così come io ora li conosco, ma sarà pregio della narrazione procedere con ordine. Colui dal quale, per amicizia, mi sarei aspettato la più sollecita accoglienza, e una doverosa presentazione coram populo, stava vestendo il sacerdote, tutto concentrato nel proprio dovere e al contempo, come sempre, attentissimo a ciò che lo circondava. Doveva infatti, ambo le mani occupate, indicare alla smarrita turba lo stipetto dell’incenso, nonché il ripostiglio dei rami d’ulivo con quant’altro occorreva. Questa sua formidabile percezione dello spazio, unita agli occhi da basilisco, nella mia mente hanno fatto collimare la sua immagine con quella dell’eroe dall’acuta vista cui nulla sfugge, Linceo. Così penso che lo menzionerò nei miei scritti, in qualche misura ispirato dal “Socrate” e dal “Lelio” petrarcheschi. In secondo luogo, conviene che ti parli di quel ragazzo di origini finlandesi dai baffi a manubrio che ci ha ospitati per i giorni del Triduo e di cui scandalosamente non ricordo il nome. Mi discolpi il fatto che quest’ultimo si sia sentito non dico con la stessa frequenza del nome di Dante nella Commedia, ma certo non più spesso di quanto il termine “piante” ricorra fra le opere di Ottavio Rinuccini nella sua accezione botanica; piàcciati dunque che lo indichi come il nostro Anfitrione. Alvise, il ragazzo barbuto sopra menzionato sommariamente, amichevole e bonario anche se un po’ goffo, ci rendeva forti dell’aiuto suo, come ceroferario, e dei due fratelli, collaboratori improvvisati ma non per questo meno zelanti: quello di mezzo, più paffutello e timido, con una cicatrice da piercing sul sopracciglio, copriva il ruolo di ombrellifero (the umbrella carrier, si direbbe oggi) e l’ultimo, il più spavaldo ed energico, si occupava delle riprese. L’altro ceroferario si chiamava di cognome Secco, (cog)nomem omen, uno scapolo sulla cinquantina, laureato in fisica, piuttosto coscienzioso e riserbato, il cui peggior difetto – limitatamente alla liturgia, s’intende – era l’essere scoordinato nei movimenti. Proseguo oltre: non avendo la chiesa di San Simeon un sagrestano vero e proprio, spesso si è costretti ad affidarla al custode Vincenzo, un rustico omaccione di origini napoletane, che aiuta volontariamente la chiesa tenendosi solo le mance dei turisti. Si raccontano storie sulla sua frequente incuria nelle pulizie, sulle reverenze ad libitum al Santissimo, ma forse la più curiosa riguarda la sua insistenza con i visitatori per accompagnarli, volenti o nolenti, nella cripta. Padre Kramer, invece, mi ha dato subito un’ottima impressione: sguardo lustro, fronte serena, gran garbo nel portamento; un autentico spirito germanico temperato dalle campagne italiane (e ci sarebbe da riflettere su questa virtù della latinità). Infine, l’arguto Bisson e il suo allievo tenore, dallo smaccato accento veneziano, in un angolo mutavano le vesti profane in quelle candide, solfeggiando di tanto in tanto. Ma ora – perché non mi si accusi con le parole di Orazio: Quid tu? Nullane habes vitia? – di me dirò che ero in gran ritardo: sarei dovuto arrivare venti minuti prima, tempo che mi è stato sottratto dalla ricerca del parcheggio. Così, nel mezzo dell’affaccendarsi generale, sprovvisto di talare e di cotta, ho dovuto snudare una gruccia dietro l’altra in cerca di una veste che cadesse decorosamente ai miei piedi, senza strascichi, nonché provvedere alla pulizia del turibolo. Sventura: le catene si aggrovigliano mentre porto a termine l’ingrato compito. Avrei anche voluto ripassare le istruzioni, ma alla mia destra i due chierici erano già ai lati del celebrante e i cantori mi fissavano spazientiti. “Ormai – penso – mi tocca abbassare le orecchie, come l’asino che si sottopone al carico, e dar di sprone alla memoria!” Entro per primo suonando la campana, confidando che la balaustra avrebbe dissimulato il groviglio imbarazzante del turibolo, e prendo il mio posto. Tutto bene fino alla distribuzione dei rami, quando uno di questi rimane impigliato nella cotta di Linceo, svolazzando indisturbato. Tento di spiccarlo senza destare acerbi sguardi di rampogna e il gioco di destrezza mi riesce: ogni cosa procedeva ormai dignitosa e schietta. La processione, invece, un disastro. Il crocifero parte senza di me, occorre farlo arretrare; passo dunque di fronte alla telecamera con il turibolo aperto in mano (dovevo pur districarlo in qualche modo!). Il custode, incaricato di seguirci con le riprese, per un proprio ghiribizzo artistico decide di inquadrare gli arredi e le candele, scordandosi di aprire le porte della chiesa. Trovatomi di fronte agli usci chiusi la processione si arresta, dovendo accorrere gli altri in aita con i chiavistelli. Fuori ci disponiamo come meglio riesce, tranne Vincenzo che, incurante delle occhiatacce di Linceo, vagava nel mezzo per carpire degli invasivi primi piani a tutti i presenti. Linceo borbottava, tentava di apostrofarlo sotto voce e quello, anziché intuire di spostarsi, si volgeva verso lui, costringendolo ad assumere immediatamente la consueta posa ieratica. Come se non bastassero i fenomeni umani, ecco pronti a ostacolarci gli eventi atmosferici: il vento, che sferzava con una forza inattesa, aveva causato lo spegnimento delle candele e i due ceroferari cercavano maldestramente di raccenderle. Così, dopo aver tentato invano di attirare l’attenzione con criptici colpi di tosse, il greco eroe approfitta della distrazione del regista per volare dall’altro lato del pronao e porre fine allo sfavillare intermittente degli accendini. “Empi, non era scritto nelle mie istruzioni!”. Infine, poco prima di muoverci, da dietro vediamo appropinquarsi le insegne di ignoti cineasti amatoriali, e qui davvero l’ortica del fastidio punse il Nostro fin dentro le ossa! Puoi ben immaginare da quale mano mi provenisse il comando di farli allontanare, con l’uso della forza se necessario. Finalmente, rientriamo nell’edificio sacro e diamo inizio alla seconda messa del giorno (mi è stato spiegato che la benedizione dei rami e la processione sono considerate una messa “secca” a se stante). A parte qualche commentuccio ilare sulle imbarazzanti vicende appena descritte, tutto procede e si conclude nel migliore dei modi.


Il tempo e la materia incalzano, breve è il giorno per chi scrive. Ben vorria soffermarmi sul ritorno e sul panino mangiato furtivamente per strada, ma temo che per mia impudenza troppo ti pesi la noia se mi prolisso nel racconto. Conciossiacosaché tre lunghi giorni stiano racchiusi in questo breve volgere di parolette: Petrarca e ozi e Dafne, Rosari e Sole e dolci amici. Ch’io mi sia troppo ermetico? 
Sonni stimabili in pochi giri di lancette quelli di mercoledì ma, per una fortuna sotto cui si cela la Provvidenza, intensi; così alle cinque di mattina ero sveglio prima che il Carro lucente uscisse a rischiarare il cielo. Tanto tempo occorreva per scegliere l’unico mio ascot da mettere in valigia… Scherzi a parte, il viaggio trascorre lieto e monteverdiano fino a destinazione. Mi pareva incredibile riconoscere nell’ultima sezione di un edificio a schiera la casa del mio amico Linceo; troppo mi piaceva immaginarlo vagabondare vestito di seta fra le stanze di un un’erma villetta. Il piccolo giardino offriva comunque uno spazio per la mia auto, là dove la mamma, uscita per accogliermi, stava indicando. Il treno fino a Venezia mi ha trasportato, immobile e pure a centinaia di chilometri all’ora, sorvolando le piagge e la laguna.Sulle soglie del corridoio di San Simeone… che bizzarra accoglienza! Linceo stava dietro il suo amico, che sventolava un mantello come i toreri delle arene spagnuole, minacciandomi: “Vattene via! Non entrare: non è il momento! Te ne pentiresti!” Interdetto, mi sono spostato nella nicchia a lato, credendo d’averli sorpresi nel mezzo di un cambio d’abito per cui aversi pudore. Invece, ecco che spunta dal corridoio, ondeggiando il collo con ostentata indifferenza, il colpevole di tanto subbuglio: un pettoruto piccione! Lo seguivano i due con passi felpati e meticolosa cura nell’ondeggiare il drappo senza spaventarlo, come in presenza di un ordigno pronto a esplodere. Non vola il pennuto ma, saltellando con esasperante lentezza le scale, si fa accompagnare fino all’uscio. Salvi sono gli arredi sacri da ogni bruttura! il mio amico si avvicina, recuperando la compostezza con un sospiro di cortesia: “Ben arrivato. Mi dispiace che ci hai trovati alle prese con il solito colombo: questo è l’unico di quelli che svolazzano nel campanile ad aver imparato la strada per scendere, così ogni tanto ce lo ritroviamo in sagrestia. In verità, ancora non sappiamo perché la porta che vi dà accesso rimanga sempre aperta.” Indi sogghignò volgendosi verso l’armadio delle talari. “Poco male!” soggiungo allegramente lasciando i miei bagagli in un angolo (e se non fosse stato per la famigerata polvere di muro veneziana, li avrei ritrovati ancora puliti). Con più tempo per svolgere la preparazione, scelgo con cura la talare, riordino il tavolino degli utensili per il turibolo, faccio notare che – 

gulp! – la scatola dell’incenso era vuota e ripasso le sempre puntuali istruzioni. A me spettava il compito di far suonare le campane al Gloria in Excelsis. Credo che allora, nei dintorni, si sia sentita la sonata di campane più scoordinata di sempre. “Beh, ma l’intonazione è del tutto irrilevante per il Rito” si è poi commentato sarcasticamente.. Dopo l’Ecce Agnus Dei, tutti riceviamo la Santa Comunione, come previsto da un decreto di Papa Sotero (l’informazione compariva fra le note in calce alle istruzioni liturgiche). Avresti visto allora, al canto del Pange Lingua, i passi solenni e coordinati degli accoliti precedere il mio cammino retroso, mentre innalzavo buffi d’incenso al Santissimo protetto sotto i panni dell’ombrello settecentesco. Figgere la mente, figgere lo sguardo nel Sacramento dei Sacramenti, così vicino e intimamente condiviso, nella chiesa vuota, è un incanto di rara sacralità. Da tanta bellezza tornati alla linda sacrestia, con frequente lampeggiare di sorrisi promettevamo di rivederci l’indomani. Per ultimi abbiamo lasciato la chiesa io e Linceo, che mi precedeva con l’abituale cappello stile Fedora, mostrando la via per raggiungere la casa del suo amico finlandese. Lungo la strada ci avvicinava solo la consapevolezza di stare distanti il canonico metro per non attirare i prepotenti taccuini della polizia. Passiamo i ponti, guizziamo fra le calli; finalmente tocchiamo il campanello a forma di protome leonina e siamo introdotti dal nostro Anfitrione, con l’annuncio che il pranzo era servito. Amico, se pensavi che certi soggetti fossero ai vertici del rigore tradizionalista, attendi il racconto delle ore che seguono e ti ricrederai: quelli viepiù stimando come statuette fra questi due pinnacoli! Verdure saltate con la cannella, pane azzimo e una torta ai chiodi di garofano con una moneta da due centesimi conficcata nel mezzo… tali le vivande. Da qui l’ovvia domanda: “Ma quella monetina…” “Ah, non ti preoccupare: l’abbiamo sterilizzata. Si tratta di un dolce tradizionale greco che ho avuto il piacere di assaggiare in uno dei miei viaggi.” mi spiegava il cuoco con occhi lucidi. “Va bene – proseguo – ma perché il pane azzimo?” e risponde l’esperto liturgista: “Volevamo infatti parlarti delle nostre usanze quaresimali. Vedi, anticamente il digiuno era una cosa molto seria e vissuta devotamente da tutti con sincero spirito di sacrificio, per ottenerne veri benefici spirituali. Noi abbiamo deciso di rispettare questa tradizione e da Mercoledì delle Ceneri non consumiamo più nessun tipo di carne, né uova, niente vino o bevande alcoliche e nulla che contenga latticini e preferiamo il pane azzimo.” “Scusate – lo interrompo scherzosamente – forse non ho capito bene: siete diventati vegani per cinque settimane?” riprende la parola: “Tecnicamente non proprio perché mangiamo ancora il pesce. Per fortuna quest’anno il mio amico mi ha aiutato a variare la dieta, essendomi limitato l’anno scorso a mangiare pasta al pomodoro tutti i pranzi di Quaresima. Ovviamente, se tu preferisci mantenere una nutrizione più ricca non c’è nessun problema: compriamo qualcosa e te lo prepariamo volentieri; forse però dovrei prima chiedere al nostro cuoco…” e il cuoco: “Non sarà un problema. A proposito di digiuni – e qui, lisciandosi i baffi alla Dalì, assume un cipiglio quasi provocatorio – noi pensavamo di astenerci completamente da ogni genere di cibo, bevendo sporadicamente acqua naturale, tutto Venerdì Santo fino al Mattutino di Pasqua.” “Che sarà recitato Sabato Santo a tarda sera! – lo interrompe l’altro – Ma, seguendo una tradizione ortodossa, consumeremo una breve refezione di sola frutta secca sabato a pranzo.” “Dicevo – riprende il cuoco – non so quale sia la tua resistenza: se pensi di svenire, avvertici prima!” “Ah, dimenticavo un ultimo particolare – aggiunge il pinnacolo occhiuto – questa sera, dopo la cerimonia delle Tenebre, pensavamo di restare svegli tutta la notte, come prevede un’antica usanza, in ricordo della Veglia di Gesù nell’Orto degli Ulivi.” Ora, caro lettore, se sei confuso dopo la lettura di questi precetti – diciamo – da satira quarta del secondo libro d’Orazio, non ti maravigliare, ché ero smarrito anch’io; nondimeno il petto ardimentoso mi suggeriva una sola, ferma risposta: “Amici, sto vivendo questa esperienza con voi e sono pronto a sopportare qualunque sacrificio soffriremo tutti insieme: per la vostra compagnia mi saranno piacevoli le rinunce, né sarebbe onesto ch’io fossi l’unico alleggerito.Quanto alla mia resistenza, sappiate che a Firenze mi accade spesso di dimenticare i pasti per troppo amore delle letture che nutrono l’anima.” Ciò detto, si è recitata la benedizione e abbiamo cominciato a pasteggiare. Foss’io diventato sordo allora, o lui muto, non si sarebbe sentita la domanda che nella quiete conviviale ha rotto i miei pensieri a guisa di fulmine impietoso: “Allora, come è andata con quella fanciulla di cui mi avevi parlato?”. Sospendo a mezzo una forchettata calandola nel piatto, non sapendo cosa rispondere. Raccolti i miei argomenti, riesco a formulare un giudizio sincero, senza mettere in cattiva luce quella ragazza che non merita più le mie attenzioni. Espongo con delicatezza cause, sentimenti e riflessioni più generali, in nulla piagnucolose, sulla sofferenza d’amore. Le posate rimaste oziose nei piatti dei due commensali segnalavano alla mia discrezione che era ormai opportuno spezzare con una battuta leggera la commovente eloquenza del loro silenzio. Finalmente potevo gustare le verdure, rese dolci e stuzzicanti dall’insolito accostamentocon prugne secche, ascoltando Linceo e il suo amico che parlavano fluentemente in russo e mangiavano introcque. Da quello che mi è parso di capire quando non trovavano le parole e ripiegavano sull’italiano, Anfitrione studia letterature slave e tiene uno zibaldone in inglese, per il quale chiedeva consigli; da quel punto ha cominciato a esibire una parlantina britannica, con la quale il Nostro non sapeva competere. Inorgoglito – era percepibile – di tanta vittoria, si rivolge a me: “Tu come te la cavi con l’inglese?” e io: “Benissimo, mi dicono che ho una pronuncia da madrelingua: pare l’abbia imparata a scuola, visto che non ho mai viaggiato in paesi anglofoni”. Si intromette allora quello che prima era stato costretto al silenzio a causa dello sconosciuto idioma, quasi chiedendo per sé vendetta: “Beh, sarebbe notevole se potessi parlarci di qualcosa in lingua” così rispondo: “Per esempio?” e lui riprende: “Rammento che una volta mi tenesti un discorso molto interessante in difesa dell’idealismo di Hegel, ma forse lo ricordo male o non ne avevo capito bene il senso. Potresti ora parlarcene in inglese, perché no?” Ridotto così in catene dall’elogio che avevo fatto di me stesso, avrei voluto ridimensionare la portata degli entusiasmi, ma Anfitrione già cominciava ad esporre la quaestio con un accento britannico da professorone. Come non di rado accade, salva la Provvidenza quando il merito viene meno; la mia lingua sciolta sembrava allora parlare come da se stessa mossa. Se mi si chiedesse di ripetere quel sermone ch’io dettava con numinosa facondia, non saprei ridirne una parola, e ne ricordo a malapena qualche frammento. Resta il fatto oggettivo che i due amici ne sono rimasti impressionati e abbiamo concluso lietamente il pranzo con una preghiera. Calcolando il nostro rientro dalla chiesa approssimativamente verso le due e mezza, ti so dire che il pasto è durato circa tre ore. Allorquando ci sediamo stretti sul divano a due posti, la conversazione diviene via via più frivola e divagante: avrai sentito parlare di quelle miniature grottesche e talvolta oscene sui manoscritti, le drolerie, che spesso raffigurano indocili conigli nell’atto di uccidere qualche uomo; queste nugae ci hanno intrattenuto con crasse risate. A un certo punto Anfitrione estrae dal taschino una lista della spesa con alquante insolite illustrazioni degli oggetti da comprare, candidando me per la commissione. Ben felice, esco e procuro quasi tutto, compresa una bottiglia di merlot assai lusinghiera – parola di sommelier – e, su mia iniziativa, del salmone affumicato per la cena. Poco prima di rientrare ho incontrato una gattina miagolante. Quella peste voleva a tutti i costi salire sulle mie ginocchia imbrattandole di zampate, però si lasciava carezzare ed era affettuosa a suo modo. Credevo fosse una cucciola, fino a che il proprietario (dubitavo infatti potessero esistere randagi a Venezia), uscendo dalla porta di casa, mi ha accertato del contrario, raccomandandomi inoltre di stare attento “a quella volpona, che domanda coccole a tutto il vicinato”. Ma so che a te non interessano le storie feline, sicché ti sarà gradevole passare oltre. Raggiunto il campanello di Anfitrione, non lo suono, ma chiedo di entrare gridando verso la finestra la parola d’ordine “Conigli assassini!” e la soglia si apre. Saluto tutti e poggio il succulento salmone con la fiera bottiglia sul tavolo, rendendo noto, fra le righe, che la spesa sarebbe stata a mio carico (mi sembrava quasi un obbligo ricambiare l’accoglienza). Quindi mi ritiro per vestire gli abiti da casa: pigiama, vestaglia e ascot. Linceo, complimentandosi per l’abbinamento, mi sorprende con una domanda: “Come mai portavi il turibolo in mano alla processione di Domenica? Nessun problema ma, ti spiego, un amico inglese mi ha scritto che ha notato certe influenze ambrosiane durante il rito; a dire il vero gradendo la variazione sul tema, se così si può chiamare”. Ho risposto, allargando teatralmente le braccia in segno di innocenza: “Come vedi, quando noi commettiamo qualche errore, i fedeli sono sempre pronti a trovare giustificazioni anche fantasiose!”. Ne abbiamo riso insieme e ci siamo spostati in soggiorno per recitare il rosario. Poscia la cena: pasta al nero di seppia con olive; per contorno quel salmone affumicato che avevo comprato poc’anzi, servito su fette tostate di pane bianco e condito con aneto. Qui merita raccontare un veloce ma sapido aneddoto. Rimanevano soltanto due fette di pane sul piatto, una palesemente più abbondante di salmone rispetto all’altra. Io e il mio amico ci siamo scambiati uno sguardo incerto: “prego scegli pure”, “quello che va bene a te sta bene anche a me”. Nulla avendo risolto, eravamo tornati alla posizione di partenza. Ricomincia allora lui: “Beh, non vorrei lasciarti la fetta meno sostanziosa delle due…” così replico: “… e io non vorrei mai lasciare il mio amico nella difficoltà di scegliere ciò che lo imbarazza” e allungo la mano senza indugio verso la fetta meno ricca. Ben ci si accorge in questi momenti che fra i piaceri della gola e quelli dell’amicizia intercorre lo stesso rapporto che vi è fra i vini di Veio e di Falerno.Tosto che i piatti sono sgravati del loro delizioso peso, Linceo si reca in stanza e torna esibendo minacciosamente tre breviari; frattanto il comune amico aveva disposto sulla tavola quindici candele mezze consumate, per essere consumate nella loro altra metà. Non potevano sfuggire le Tenebre agli scrupoli filologici del Nostro, il quale salmodiava con eccellente abilità. A me l’incarico di spegnere a tempo le fiammelle, divenuto d’ufficio dopo essersi provato che con il canto facevo perdere a li altri la nota… L’ultima candela, come sai, passato che sia il fragore enosigeo, deve rimanere accesa fino a esaurire ogni sua sostanza arsibile. Stavamo bellamente a discutere i nostri casi quando il lumino, famelico di paraffina, si incendia su tutta la superficie. “Segno funesto – osservo per primo – Che facciamo?”; risponde Linceo con olimpica risolutezza: “Non possiamo spegnerla perché rappresenta la Speranza in Cristo: aspettiamo che si estingua da sé in modo naturale.” “Naturale? – replico – qui ci siamo inimicati una presenza demonica!”. Così la guardavamo tutti e tre, commentando: “Ipnotica, sembra la doppia fiamma d’Ulisse e Diomede.”, “Sì, è veramente sorprendente”. Quando però ci siamo accorti che la base rossa del cero stava lentamente muovendosi da sola verso il basso, Anfitrione infuria e la spegne con un canovaccio lì vicino: l’infervorata candela aveva sciolto i due strati del copritavolo in plastica, trapassato la tovaglia e stava abbruciacchiando il tavolo istesso. E qui via ai sollazzi, giù risate fino a piangere! L’intesa era formidabile: “Guarda come è rimasto immobile Anfitrione, sembra una statua!” “Avremmo dovuto lasciare libera la candela di sprofondare nel pavimento!”; ci prendevamo gioco e trastullo di chi guardava atterrito i propri arredi fusi o consunti. Rinsaviti, riprendiamo il caritatevole abito cristiano proponendoci di dividere il danno, ma Anfitrione ricusa, ammettendo che erano cose di scarsissimo prezzo. Una pacca sulle spalle risolve tutte le tensioni.Seduti attorno al tavolo, di più mesta tovaglia rivestito, concordiamo assieme lo schieramento per fronteggiare le insidie del sonno. Il nostro cuoco, addentrato nell’ombroso quadrilatero della cucina, lavorava illuminato soltanto dal tenue barlume della cappa del fornello, essendosi folgorato da tempo il lampadario; Linceo al computer dettava la ricetta e intanto scriveva un articolo per il suo blog personale; io, non so per quale bislacca delibera dei consoli, stavo seduto sulla poltrona a leggere e commentare passi della Commedia. Ognuno poteva vigilare sulle palpebre dell’altro. Ogni tanto dalla cucina fuoriuscivano richieste di tal sorta: “Chi viene ad aiutarmi con la frusta a manovella?” così mi alzavo a fare due passi, ben attento a non macchiare la vestaglia. I diletti culinari mi offrono l’occasione per una battuta; chiedo al padrone (cioè all’affittuario) di casa: “Per caso da questi vetri si riesce a vedere l’orto?” mi risponde lui: “Ma cosa dici!?” scuotendo la testa, quasi volesse compatire la mia ignoranza; “Ma certo, dovrebbe essere da quella parte” risponde poco dopo una più dotta voce che, ridendo, approvava la mia agudeza. E s’io cercassi allora alcun erbaggio, la gente grossa il pensi! In verità qualche verdura avrei preferito vederla in cucina, dove s’alternavano sotto i miei occhi soltanto uova, formaggi, zucchero e ogni genere di affettato. “Mi potresti rammentare cosa sia esattamente questa pietanza che stiamo preparando?” chiedo, e lo chef comincia a zampillare un entusiasmo quasi caricaturale: “Si chiama pizza chiana: è una specialità napoletana, simile a uno sformato, composta da strati alterni di vari affettati, crema all’uovo e formaggi assortiti; io aggiungo anche una croce di lardo ogni tanto. Praticamente contiene tutto quello che è vietato in quaresima. Ah, che peccato che non posso ancora assaggiare questo ben di Dio!”. Esattamente come dicevo una volta: il sacrificio quaresimale trasformato in una forzata privazione produce un desiderio quasi violento per quella medesima cosa sottratta. Io non sono nessuno per giudicare l’altrui usanze, e può anche darsi che se ne ricavi qualche beneficio spirituale, nondimeno sto bene con abitudini che mi sembrano più equilibrateNon sono mai stato tanto tempo affacciato alla finestra come in quell’occasione, conquiso dalle mille vaghezze della notte veneziana. Lo scorcio di un angolo, un ponte ravvivato dal vicino lampione, la barca sottostante lambita dalle cime flessuose delle alghe parevano essenze e non cose tangibili; più di tutto, era degna delle lodi degli antichi e dei moderni la luna di cristallo che serenava la volta celeste, balenando sulla superficie cerulea delle acque: la sua posizione mi ricordava che la parte maggiore della veglia era trascorsa. Gli impasti – almeno loro – riposavano in frigo, mentre vinti dalla noia azzardavamo un’improbabile partita di briscola a tre. Dalla libera associazione di idee emerge una felice intuizione: Anfitrione avrebbe realizzato un ritratto a chi si fosse sottoposto alla posa per un’oretta o due. Ti par poco? Nulla è tanto atroce per la schiena quanto la fissità; non ne potevo più di guardare quella penna che favoleggiava sul foglio chissà quali deformazioni inverosimili dei miei capelli. Il risultato – devo ammettere notevole – lo si può vedere tutt’oggi appeso sulla parete della mia camera. Linceo, firmato l’articolo, si stacca dalla sudata tastiera (e non è solo un’astratta citazione leopardiana), cercando rifugio contro il pungolo del freddo presso il termosifone, mentre in cucina si strascicava ancora qualche timida operazione. Infine, quietati i fornelli, con il Nostro avviticchiato alle coperte, comincio a declamare un mio scrittoNessuno m’interrompe fino alla fine, anzi il silenzio seguito alla lettura mi permette di esclamare sorridente, volgendomi ai primi chiarori dell’alba, un ironico, ma non per questo privo di delicatezza, “Già s’imbianca l’alba e viene il dì… buongiorno a voi”. Linceo, come destato da un torpore, alza lo sguardo al soffitto e si rivolge a me con una voce fattasi tiepida e sincera: “Devo assolutamente farti i miei complimenti: hai uno stile elegantissimo. Credevo, verso l’inizio, che si trattasse di un testo sul modello didascalico medievale; invece, con il procedere della lettura, il gusto squisito per le metafore secentesche e i termini ricercati mi ha lasciato ammirato”. Raccolgo il sempre gradito elogio, quasi commosso, e mi volgo all’altro, che era rimasto impassibile fissando il tavolo: mi pareva di leggere in quell’espressione fumosa e un po’ amareggiata un pizzico d’invidia, oppure una crescente gelosia per il complimento rivolto altrui dal prezioso amico, o forse era soltanto sonno… Ne sorrisi, avvicinandomi a lui e ringraziandolo ancora per il bel ritratto. “Signori – soggiunsi compartendo lo sguardo fra l’uno e l’altro – io esco a fare una passeggiata”. Erano quasi le sette del mattino. Dalla finestra si avvertiva lo spiro d’una brezza fresca pungente che mi suggeriva un’insolita prudenza: avrei messo anche la giacca leggerissima del completo sopra la camicia che copriva il petto nudo. Quindi uscii a riveder le calli. Non immaginarti lunghe camminate o i passi lenti e svagati dei flaneur parigini: talvolta ignorando quello che si cerca la meta si rende nota per se stessa. Così vagando alla cieca, voltato un angolo o forse due, ho trovato la pace su un pontile d’attracco bagnato dal Canal Grande. Il doppio sfarzo dei palazzi che si rispecchiavano nell’acqua e l’ondeggiante moto delle alghe riposavano a tal punto il mio sguardo, che per poco non cadevo assopito fra le molli piante. Lodi pure il figlio di Petracco la sua Roma; io, felice di imprese meno grandiose, terrò sempre un posto nel cuore per quella Venezia conosciuta sotto il lucore della nascente aurora. Profumava l’aria, non una barca né uno straniero in vista, occasione assai opportuna per un’intensa preghiera. Non mi angustiava la fretta, né la vanità di snodare con la lingua una grande orazione: ho chiesto a Dio la quiete dell’anima, la Grazia per ricordare il bene compiuto e ricevuto, la consapevolezza con cui lodare e ringraziare Lui, che mi ha tolto dal novero degli indifferenti alla sua Grandezza – tanto corta è la nostra vista che facilmente ignora non solo l’Artefice, ma lo stesso bene ricevuto – e sono stato esaudito. In questi pensieri sono rimasto un bel pezzo a meditare finché, spinto da un certo sconosciuto brivido sulla pelle, ho deciso di rientrare a casa vagheggiando le tiepide coperte. Spesso accade che l’ora ci inganni, quando crediamo alla quantità del sonno misurata sulle lancette più che al riposo effettivo del corpo; perciò non ho guardato sveglia alcuna, né mi sono chiesto dove fossero finiti i due amici: ho strappato alla tirannia delle palpebre cadenti qualche verso di Dante e mi sono lasciato vincere dal sonnacchioso oblio.
Sveglio e ben acconcio poco prima delle due di pomeriggio, prendo la via corta per San Simeon. M’accoglie la sagrestia vuota e insolitamente silenziosa; uno dei pochissimi momenti in cui ho percepito i languori dello stomaco, tanto la mente era libera da pensieri e volta solo al suo pio dovere. Dalle scale del campanile sento alfine provenire uno scalpiccìo che rimbomba in tutta la chiesa, seguito da pochi garbati accenti: “Meneghel, sei tu? Vieni ad aiutarmi” “Sì, arrivo. Qui lei mi fa sgobbare, ser Nicoletto…”. Saliamo insieme e discendiamo con due sacconi neri: il primo conteneva il cuscino violaceo su cui appoggiare la Croce; il secondo un polveroso e pesante tappeto. Vista la patina grigia che copriva entrambi, ci siamo consigliati di uscire per nettarli alla buona. Ora però sono costretto a spogliarmi delle vesti di satirico, indossando per un breve intervallo quelle del comico: tanto la materia, abbassandosi, si conviene a una mascherata! Il cuscino da me battuto veementemente contro il muro della chiesa provoca uno sbuffo polverulento che, mosso del vento, investe in pieno volto il mio collaboratore. Grandi risate canzonatorie da parte mia. In fondo, non dovevo sentirmi in colpa: non indossava la mascherina. “Il tappeto – mi dirai – almeno quello è stato semplice”. Avevamo afferrato ambedue un’estremità ed eravamo pronti a scuoterlo come si usa in questi casi. Al mio “tre” imprimo una vigorosa onda che, come ci insegna la fisica, si ripercuote fino all’altro capo facendo vacillare il povero Nicolò. Il quale, rassettandosi con imbarazzo, lascia cadere la sua parte esclamando: “Non pensavo avessi questa forza ciclopica vedendoti gracilino come me; però forse è meglio se chiamo qualcun altro. Però è da intendersi ovviamente in senso dantesco…”. Mannaggia al fanciullo canuto! Immagino una sua mail identica e speculare a questa nella quale sono soprannominato Sacripante. Entra nella chiesa e fa uscire l’amico baffuto; insieme portiamo a termine quasi illesi il lavoro. Da lì vedo arrivare il sacerdote e mi sovviene che era ormai prossima l’ora nona: avrei voluto canticchiare al mio rientro in sagrestia, parodiando il Da Ponte: miei signori tutto è fatto, con l’abito talare il sacerdote è sulle scale, ipso facto qui verrà! Effettivamente, non una cartagloria era fuori posto. Nonostante la cerimonia del Venerdì Santo sia, come è noto, la più complessa dell’anno liturgico, è riuscita sorprendentemente ordinata, merito forse del sincero spirito di sacrificio e abnegazione di ciascuno. Una non affettata solennità aleggiava nell’aria priva del profumo dell’incenso e del dolce richiamo dei campanelli. Qualche dettaglio, sì, perfettibile: spostamenti da farsi per longiorem eseguiti per breviorem, un po’ di confusione del nostro Linceo durante lo Svelamento della Croce, l’ombrellifero che si inginocchiava tal quale un fedele musulmano… nel giudicare il complesso non sarebbe però sprecato il termine armonia. Gran soddisfazione di tutti i presenti, eccetto per un dettaglio: con gabbevole destrezza Qualcuno aveva inserito fra le orazioni da recitarsi dopo la Passio anche la famigerata “…oremus et pro perfidis judaeis“, leggendo la quale Padre Kramer, che era contrario all’idea, ha preferito omettere l’aggettivo incriminato ed ha poi eseguito la genuflessione che, sempre secondo le “istruzioni”, non avrebbe dovuto aver luogo. Sappiamo entrambi che “perfidis” è traducibile con l’innocuo “increduli”, ma forse gli scrupoli del sacerdote non erano ingiustificati. Ad ogni modo, questo era più che altro un vezzo del Nostro…Usciti tutti, restavamo soli io e Linceo, come sempre incuranti del tempo e della fame. Le minute dita dell’amico già scorrevano sui tessuti della lugubre pianeta, cercandone le pieghe con elegante precisione, quando mi ha affidato i lavori pesanti da compiersi all’ingresso con l’aiuto di padre Kramer. La disparità di forze fra me e il vecchio sacerdote non era tanto evidente da impedirci di spostare, ben poggiate sul fianco antico, le ponderose panche, onde liberare il passaggio per la processione dell’indomani. Niun dolore lo impediva, né poteva la fatica fiaccare quelle gagliarde forze, così senza sosta il veglio adduceva dal presbiterio i bianchi lini degli altari da rivestire e comporre con il consueto decoro. Bipartire equamente le tovaglie – non volevamo incorrere nelle sgridate dell’amico – era un lavoretto di pazienza, che alle volte si trasformava in una contesa per stabilire se gli estremi toccassero terra alla stessa altezza. Dalla sacrestia, un agghiacciante e improvviso allarme interrompe il lavorìo: “è entrato il piccione!”. Sembrerà forse una sventura, io sogghignavo della giusta punizione per il rovesciamento dell’ordine universale: lui giovane impone a un anziano le opere robuste e, laico, comanda al sacerdote (a all’amico) in chiesa! Ben gli sta il tubante intruso, che già si aggirava all’altezza delle finestre presso l’altar maggiore, seguito da Vincenzo incaricato di scacciarlo con l’asta per accendere le candele. Non ho più saputo come sia andata a finire, ero troppo impegnato a districare i cavi elettrici che collegavano l’organo alle casse. Per puro caso ho scoperto che uno di essi non portava da nessuna parte; così li abbiamo dovuti ricontrollare tutti per accertarci che qualcosa non fosse rimasto scollegato. Un microfono mal funzionante è stato gettato via e il compatto organo spostato in una posizione più idonea, fra un coro e l’altro (qui però abbiamo dovuto congiungere le posse). A detta di tutti, la chiesa di San Simeone Piccolo necessiterebbe di una pulizia approfondita e frequente, oltre a interventi di restauro che – si sa come vanno queste cose – vengono rimandati di anno in anno. Salutando padre Kramer, mi sono permesso di condividere con lui quello che un pensiero: “Tutti sono capaci di mostrarsi giovani a vent’anni; sentirsi tali a settanta è invece la meritevole conseguenza di una vita ben vissuta”.Quanto il villano contento dei propri frugali ozi, io e il mio amico andavam per lo vespro contra i raggi serotini e lucenti, soddisfatti dell’umile frutto delle nostre fatiche. Ancora un’altra Venezia, ammirevole nei chiaroscuri vespertini, offriva di sé memorande immagini, che la stanchezza impediva però di godere come ci si aspetterebbe da due giovani Stürmer und Dränger. L’arrivo a casa non ha nulla di eroico da raccontare: abbiamo lavato i piatti del giorno prima e recitato il rosario. Significativi progressi sono stati raggiunti durante il rito delle Tenebre: anziché bruciare la tovaglia ci siamo limitati a coprirla di paraffina rovesciando per sbaglio il contenuto di una candela; in aggiunta, si è notato un percepibile miglioramento nella mia vocalità. Vorrei poter scrivere che, passato ciò, siamo andati a letto, ma il verbo esprimerebbe una troppo accentuata componente causale della volontà: di fatto, è stato il letto a calamitare noi. Senza temere un mancamento di Atlante, affidavamo il corpo al lento trascorrere delle stelle.
Il cancello in bronzo riccamente cesellato che dà accesso al presbiterio congiungendo le balaustre era una fortissima tentazione per i miei occhi durante il lungo susseguirsi delle profezie di sabato. Contavo fossero dodici letture brevi e spiritualmente intense, perciò sono rimasto ritto in piedi con le mani giunte, accogliendo goccia a goccia quella graziosa ploia, fin tanto che i fianchi hanno sostenuto la mia concentrazione. Quando la sofferenza cominciava a far sentire le sue molestie, tormentando la coscienza più che il corpo, ho guardato Alberto, Alvise e il suo giovane fratello, che erano accanto a me e seguivano ogni mio gesto, invitandoli a sedersi entro i cori laterali. Una piccola ma decisa presa di posizione contro la poca accortezza del Nostro che, non segnalando per noi alcuno spostamento, ci imponeva di stare in quella posizione per tutta la durata della sua pia e paziente incombenza. Assiso fra quei lignei scanni riposavo le gambe e lo spirito: la mattina non avevo avuto tempo per la preghiera; svegliato di sobbalzo dalle urla dei compagni di stanza, accortisi che erano le dieci passate, ho respinto il neghittoso impedimento delle coperte e, insieme, ci siamo precipitati in chiesa mezzi spettinati. Senza far notare il nostro ritardo, rispondevamo che avevamo dormito benissimo, mentre agitavamo carte e carboni per disporre il braciere all’esterno. Al fuoco nascente non era d’aiuto il vento ma, per fortuna, nella luce diurna il carente ardore delle fiamme si notava a malapena e la felpa giallo-canarino di Vincenzo riusciva a passare inosservata. Ho dovuto faticare per accendere i carboni destinati al turibolo; l’arundine artigianale, invece, ha retto degnamente e nel cero pasquale l’incenso si è innestato senza resistenze. Solo la mia anima nella sua operazione soffriva il distacco da Dio: nell’attesa della Resurrezione, desideravo il conforto del Padre. I panni violacei che ci invidiavano le formose statue meditavano ormai la loro sorte caduca. Lo schienale intarsiato che premevo avidamente col tergo è stato restituito all’altrui vista quando, terminate le profezie, tutti ci siamo distesi religiosamente sul pavimento, onde ascoltare con supplice devozione le litanie cantate magistralmente da Bisson. Ahi, quanto volevo che i duri tacchi delle mie scarpe in cuoio si mutassero in un più morbido appoggio! La rinuncia a una comodità, che allora sarebbe stata superba, annunciava la fine di ogni angoscia e la gioia dell’imminente Gloria in Excelsis. Ho mancato di assistere allo svelamento delle immagini sacre perché sono dovuto correre in campanile per suonare a festa le campane. Non si poteva chiamare Pasqua, ma ogni fibra del corpo, in un fugace rilassamento, attendeva quel momento come il lattante a cui sia mostrato ancora lontano il seno scoperto. Terminata la cerimonia e dimesse le talari, già l’uno dall’altro s’accomiatava, in breve lasciando vuota la sagrestia.Viene finalmente il momento della “breve refezione” del sabato, composta esclusivamente da frutta secca: noci, mandorle, cocco grattugiato, banana disidratata, datteri, prugne secche e, la preferita del Nostro, uva passa; tutto squisitamente accompagnato da una bottiglia di Sangue di Giuda, scelta – ho ragioni di sospettare – per via del nome. Delizioso. Aggiungo una pennellata di colore al quadro: manducavamo senza uso di forchetta o altre posate, in rispetto della tradizione, beffandoci degli squadristi del distanziamento sociale. Stavamo consumando le ultime leccornie, quando Linceo comincia un discorso con insolito ardore: “Trovo che questi giorni siano trascorsi idealmente, nel più autentico spirito cristiano. Avete notato che tutte le nostre attività e i nostri pensieri erano rivolti alla Messa? Abbiamo dormito, mangiato, lavorato e, ovviamente, pregato in funzione della liturgia.” mi volgo allora verso lui con amichevole ironia: “Sarai contento, ora che hai coronato il tuo sogno di vivere qualche tempo come in un monastero.” In breve lucidi, i suoi occhi mi risposero prima delle parole, che pur non tardarono: “Certo, infatti nelle intenzioni originarie la regola monastica non era pensata esclusivamente per i monaci, ma rappresentava uno stile di vita perfetto a cui tutti potevano adeguarsi per trascorrere un’esistenza serena. Accadeva infatti fino all’800 di incorrere in certi paesi rurali in cui si erano mantenute quasi inalterate le antiche usanze monastiche: la popolazione regolava i propri orari di lavoro, di riposo e di preghiera sulle attività del monastero. Una tradizione millenaria di cui ci restano, purtroppo, poche tracce.” Detto ciò, si è alzato e ha cominciato a saltellare sul posto. Io ne sono rimasto invero inquietato: la spietata coerenza dell’amico mi aveva provocato un brivido lungo la schiena. Nulla da togliere all’ammirevole erudizione che nutre così profondamente il suo animo, ma non credo si debba arrivare per forza a questa conclusione: possibile che la sua utopia sia un mondo di monaci?Apollo, toccato l’apice del suo corso, andava calando i palafreni verso le acque iberiche. Nella quiete dell’altrui pisolino postprandiale sono riuscito a fare l’unica doccia di quei giorni. Inutile nascondersi questo fatto: la pulizia è per l’uomo un’esigenza tanto quanto il calore del focolare. Fra i bisogni secondari, non certo trascurabili, includo la passeggiata che mi sono concesso poco dopo. Senza fretta alcuna, la mente ora a quel particolare attenta, ora da quell’altro meravigliata, percorrevo le strade viste e conosciute con rinnovata curiosità. Le vie, i palazzi, le chiese, i canali ampi e stretti… la città mi muoveva quasi per incantamento, serrando e disserrando il segreto piacere degli occhi. Venezia senza turisti guadagna nuova bellezza come una statua che, sempre vista in penombra, si mostri in piena luce. La folla che riempie le strade e opprime i ponti per peso e per larghezza, non cercando novità e stupore ma quasi ruminando preconcette opinioni, con la propria assenza aveva lasciato respiro alla vita. Attraverso quella che a molti sembra una cruda morte, la leggendaria Fenice rinnova la giovinezza; talvolta si vede la foresta soffocata dall’abbondanza degli sterpi rinascere sotto le ceneri di un incendio sanatore. La natura non consente che gli equilibri, necessari alla vita umana e non, si alterino oltre una certa misura, passata la quale si debba temere il massimo danno: questo tienilo per legge. Ciò si dimostra soprattutto fra gli uomini: come le comunità che trasgrediscono con la norma positiva il diritto naturale toccano l’infimo livello delle proprie forze, cui segue la risalita, così è impossibile per il singolo uomo trattenere il respiro fino a morire asfissiato, ché la volontà non regge contro i princìpi che sono iscritti profondamente in tutti noi. Ho proseguito la passeggiata, un po’ trasognato, finché la curiosità di sapere cosa stessero combinando i due amici mi ha spinto verso casa.Se si ponesse debita attenzione ai particolari, come il saggio che dalle meditazioni intorno alla natura trae i precetti della morale, davvero si potrebbe mettere in pratica quel sapientissimo consiglio: Nil admirari prope res. Io, disattento osservatore, ho dovuto aspettare fino al momento del mio ritorno per scoprire quanta incostanza e volubilità ci sia nel mondo: il fanciullo dagli occhi di basilisco che molte volte noi – scherzando – definiamo canuto, dimessa ogni austerità, si baloccava con le mani immerse in un materiale simil-cementizio giallo, offrendo di sé una vista assai gioconda. “Vedo che avete fatto progressi mentre ero fuori” faccio notare introducendomi nel salotto; egli mi risponde: “Mi è venuta ora in mente la ricetta di un tipico dolce moscovita che si prepara in tempo di quaresima, di modo che l’ultimo pezzo sia consumato al termine delle festività pasquali. Contiene moltissima farina ed è particolarmente denso e nutriente, caratteristica che lo rende ghiotto ai palati russi. Noi pensavamo di aggiungere un po’ di frutta secca e della glassa a fine cottura; tu potresti aiutarci pelando le mandorle che abbiamo appena sbollentate!”. Vestito di più confortevoli panni, ho dato il mio contributo, scoprendo peraltro che le mandorle bagnate diventano viscide e si liberano facilmente dalla pelle quando strizzate. Immancabile l’uvetta reidratata. Alla fine la torta riesce bene, nonostante le difficoltà per ripulire le dita del Nostro che, non pago, con l’impasto avanzato ha tentato di comporre una pagnottella al miele, con risultati di cui è meglio tacere. Il motivo di tanta enfasi mi è stato spiegato di lì a poco: “Facciamo il punto: domani per la benedizione delle vivande pasquali occorrono cinque prodotti panificati (questo l’unico requisito specificato) da disporre a croce. Noi abbiamo già una colomba, portata dal nostro Andrea, la torta russa e la pizza chiana; ne servono altri due, come ce li procuriamo?” ancora una volta, non sdegnando l’idea di mettere a disposizione i miei fondi, propongo: “Potrei uscire domani mattina presto a comprarli: penso che due pagnotte bastino”. Approvata l’idea, la perfezioniamo ulteriormente: “Meglio una pagnotta e una focaccia, così variamo.”Era l’ora esatta di recitare il Mattutino. Linceo, con in mano i tre breviari, ci rassicura: “Una cerimonia di cinquanta minuti, meno impegnativa delle Tenebre. Come vogliamo procedere? I presenti sono concordi nel concedere una dignità episcopale?” Non capivo cosa intendesse, finché non ho visto Anfitrione partirsene e tornare dalla sua stanza con un tabarraccio e una poltrona ottocentesca: ecco il vescovo seduto con i suoi paludamenti! Seguo il rito con scarso interesse, spossato e – dico la verità – desideroso di un po’ di solitudine. Probabilmente è un mio limite, non riesco a pregare se non mi sento libero: l’amore è libertà, Dio ama la libertà. Se è vero che la preghiera è il dono quotidiano più elevato, il dono della propria felicità al Padre, come posso concepire una tale altezza mentre faccio a pugni con il tedio della costrizione? Orazione forzata e ascesa spirituale non sono conciliabili. Credo di essere inadatto alla vita abitudinaria, anzi ritengo che spesso la vita emerga dalla rottura sapiente dell’abitudine. Cercavo con tutto me stesso di concentrarmi sul significato della Resurrezione, di concepire il senso profondo della Settimana Santa, convincendomi che passati pochi minuti sarebbe cominciata, dal momento di massima penitenza, la Pasqua… ma nella coscienza brulicavano distrazioni, pensieri sulla mia vita, appetiti della gola. Poco prima della conclusione dell’ultima litania mi sono sentito risorgere: più penetrante della voce dell’amata, una Grazia dolcissima è discesa a liberarmi i precordi. Tutto pieno di letizia, mi colmava un desiderio di amicizia e di virtù. Ca va sans dire, certe esperienze incomunicabili devono essere vissute nel segreto, per custodirne il fragile e prezioso mistero, perciò non ho fatto sapere nulla ai presenti e mi sono limitato a contraccambiare gli auguri, pronto ad accogliere con gioia qualunque cosa decidessero di fare.Ora, se prima pensavo che il nostro Anfitrione fosse un tipetto schivo e senza sorprese, ho mutato del tutto opinione per la scena che ancora mi sconcerta nella memoria. Fra le invenzioni più eccentriche dell’Ariosto non troverai un rivolgimento tanto gustoso come quello d’Anfitrione, da vescovo fattosi satiro. Appena intonato l’ultimo amen, ratto lo vedi spogliarsi senza cura della gelosa mantella e correre in cucina. Ghermisce la tovaglia, la stende, parte, ritorna, lancia i piatti: in un batter di ciglia la tavola è pronta, con la pizza chiana svettante nel mezzo. Intramezzata una succinta benedizione, brandisce un coltello e s’avventa feroce sulla tortiera, componendo sul volto un ghigno sardonico. Fende la crosta cementata dai suoi stessi legacci di formaggio e pone la prima fetta sul mio piatto per l’assaggio – ero l’ospite. Io, spinto dalla fame e, a dir la verità, più curioso di quanto avrei voluto, affondo nella ghiotta pietanza diverse forchettate. In breve sono costretto a desistere, vinto dal soperchio della pinguedine. Il gusto era tutt’altro che disprezzabile, ma mancava completamente di equilibrio: una massa di incompossibili sapori. Linceo non smetteva di ridere guardando l’amico abbuffarsi, lo stesso amico che ha finito anche la sua fetta. Poi, piluccando quello che rimaneva delle scorte di frutta secca, abbiamo scherzato e conversato allegramente fino a ora tarda.Lavando i denti non più digiuni, mi tormentava il silenzio assordante sull’imperituro argomento platonico: possibile che, fra tanti simposi, non sia stato nemmeno menzionato l’amore? Convinto di far brillare finalmente il grande assente, entro nella camera dei due amici, accolto da una flebile voce: “Di grazia, cosa ti turba?”. Ho lasciato uscire le parole così come salivano alle labbra: “Pensavo… noi abbiamo scelto una vita che ci porterà ad amare una donna, in un futuro si spera non lontano. Voi quale idea avete sull’amore, sognate mai di abbracciare un bel corpo?”. Linceo stava rannicchiato sul letto, con la testa rivolta lateralmente verso il muro, mantenendo la sua compostezza nel rispondermi: “C’è ovviamente un modo giusto per amare e uno, diciamo così, sgradito a Dio: non possiamo separare il nostro piacere dal dovere per cui nasce, che è il bene della prole. Come ogni cosa, anche questa deve essere consapevolmente ordinata al suo fine intrinseco. Oggi invece si insegna il contrario, con tutte le palesi degenerazioni che ne conseguono. Poi c’è la debolezza umana, si sa, il desiderio o l’errore sono sempre perdonabili, premesso il pentimento”; cerco di sospendere la conversazione per non arenarmi in una retorica sterile prima ancora di ricavare qualche sostanza: “Tutto qui, una debolezza umana? Non pensate ci sia qualcosa di buono in sé nell’unione dei corpi per amore? Io – parlo per me – sono senza esperienza però, rispettando i giusti tempi e con una delicatezza speciale per il pudore femminile, mi aspetto di realizzare un bene oggettivo, forse il più elevato fra quelli mondani, nel compiere la mia natura di uomo nei confronti di una donna”. Qui interviene l’amico baffuto, esponendo i propri pensieri con la confusione genuina dei pastori bucolici: “Sì, ma è pericoloso perché, ti spiego, noi abbiamo una natura animale e una razionale. Non possiamo seguire l’istinto altrimenti ci abbassiamo alla parte peggiore di noi e subordiniamo la mente al corpo, perciò le passioni vanno controllate, soprattutto se portano a certi comportamenti contrari ai valori cristiani. Vero?” – ait discipulus;“Beh sì, la castità è una virtù, come hanno scritto e provato molto chiaramente i Padri e i Santi Dottori.” – respondit magister. C’è qualcosa di puerile e commiserevole nell’aspettativa di liberarsi dalle angosce del vizio con un aprioristico rifiuto, come si potrebbero allontanare le fere con la verghetta di Carlo e Ubaldo. Perciò arrivo al punto: “Insomma, tagliamo la proverbiale testa al toro con un esempio concreto: un uomo e una donna si amano, sono sposati e decidono di fare l’amore in un periodo non fertile per condividere il reciproco affetto: è sbagliato?” risposta imperturbabile: “è legittimo solo se lo fanno anche in periodi fertili e con il preciso intento di procreare, altrimenti no”. Lascio allora cadere, uscendo dalla stanza, un sospiroso “Mah, sarà”, e torno alla lettura della Commedia, prima di affidare le membra al sonno.


Domenica tutto tranquillo. Risveglio more solito. Messa normale, anzi sobriamente festosa, con abbondante profusione d’incenso e benedizione finale dei panificati. Quid verbis opus est? Tornati per l’ultima volta in sagrestia, era inevitabile che la devota squadra, compiuto il proprio dovere, si sciogliesse con il progressivo e impercettibile allontanarsi dei membri. Io e Linceo sapevamo che ci saremo rivisti a breve, pertanto abbiamo rimandato i saluti, limitandoci a una simbolica alzata di cappello. La proverbiale brevità dei giorni gradevoli è una querela inconsistente, qualora si valuti soltanto la qualità del vissuto e il bene recato e ricevuto con il concreto uso del tempo. Così mi accorgo ora, riguardando con piacere la trama già tessuta, che il filo del racconto volge gli ultimi giri intorno al fuso.A pranzo con Alberto e Bisson manifestavo una certa stanchezza; sentivo crollarmi addosso il peso dei giorni appena trascorsi e la testa si adagiava sul collo senza volerlo. Il nostro quasi-non-più-Anfitrione si aggirava invece con burbanza, raccontando le nostre imprese, soprattutto quelle gastronomiche. Dopo aver ascoltato la prassi del digiuno, il Maestro non ha potuto trattenersi: “Fatemi capire: voi siete rimasti senza mangiare e senza bere per due giorni? Dovreste pensare di farvi curare, ragazzi: siete pazzi! Digiuno significa un pasto e due refezioni.” Concediamo però l’abilità culinaria che ha saputo effettivamente dimostrare, confermata dal più che discreto pranzo di Pasqua: pasta ai peperoni, contorno di verdure, pizza chiana riscaldata al forno e dolci assortiti. Fra le sorprese del pasto, annovero gli interventi di quell’Alberto finora un po’ trascurato: chi poteva aspettarsi da un dottore in fisica tante critiche nei confronti di Einstein? La sua uscita più curiosa rimane però la tempestiva intromissione in uno scambio di pareri sul Cremonese fra me e Bisson: “Ah, parlate di Monteverdi? Io l’ho scoperto grazie a un articolo molto interessante letto di recente su una rivista online, Il Covile, non so se la conoscete…”. Avevo il bicchiere sulle labbra in quel momento e non sono riuscito a trattenermi dal ridere – non può tutto la virtù che vuole – dicendo: “Se la conosco? Più d’ammirazion vo’ che ti pigli: io sono quel Virgilio che scrisse l’articolo di cui parli!” mi risponde con occhi sbarrati: “Non lo sapevo, che coincidenza; è scritto veramente bene!”. Delle molte cose che possono accrescere la gradevolezza di un complimento, non certo ultima è la sincerità, che in questo caso risulta massima. Le lungaggini della circostanza, passate le cinque di pomeriggio, non mi lasciavano spazio per preparare la valigia, richiesto ora per un commento sagace, ora per una partita a carte. La conclusion si fu ch’io lasciai la tavola ancora apparecchiata e volsi le piante all’uscita, indi scarpinando fino alla stazione, costretto a salire sul treno senza fare il biglietto per la fretta (colpa in realtà della lentezza delle macchinette). Finalmente potevo diffondere tranquillo la mia carica virale sul vagone, seduto e sudato. Grazie a un improvviso lampo di ispirazione, estraggo dal taschino la penna per scrivere un biglietto da lasciare a Linceo: “Grazie amico, tutto si è compiuto, torno alla mia aurea solitudine. La tua bella Venezia non ha eguali al mondo e il poter passeggiare fra quei canali e quei marmi, compagnia degna dell’uomo colto, è un privilegio, non dico invidiabile, ammirevole. Allo stesso modo il mio cuore, così sovente amareggiato dalle onde impietose dell’amore e della schiera senza fine dei vizi, ha trovato un tempo quiete sulle sponde dell’Arno. Il calice della solitudine è destinato a pochi, poche labbra amano il suo sapore agrodolce. Vorrei descriverti ciò che provo in questo momento ma – ecco – la penna si rifiuta, e gli autori che potrei citarti accenderebbero nell’animo a malapena un frammento della gioia di servire Cristo. Nella consapevolezza della mia impotenza, comprendo come più largo fu Dio a dar se stesso, per far l’uomo sufficiente a rilevarsi, che s’elli avesse sol da sé dimesso. Buona Pasqua, Andrea.” Dalla stazione raggiungo a piedi la dimora dell’amico, che aspettava ben vestito nel cortile. Salutandomi, chiede del viaggio e mi invita a entrare, concordi i genitori che attendevano sull’uscio. La casa, curata in ogni ammennicolo, esibiva un certo gusto classico senza dismisure nell’arredo: un divano a sette piazze occupava il centro del salotto biancheggiante, dove ai lati un pianoforte verticale si contrapponeva a una vastissima, tolemaica libreria. In cucina campeggiavano due carte geografiche appese alla parete. Stappata la coca-cola, ci siamo seduti entrambi attorno al tavolino di vetro, coraggiosi giovani tornati dal mondo esterno, discutendo di quel nanometrico spauracchio che mai si era menzionato per tutta la durata dei trascorsi tre giorni e mezzo. Concluso l’aperitivo analcolico con festevole cordialità – e una mezza promessa di rivedersi in tempi più tranquilli – la famiglia mi ha accompagnato fuori, lasciando soli me e Ghigi per un saluto affettuoso. Il tramonto sulle colline venete alle nostre spalle aveva il colore dell’amicizia virile, se solo si potesse vedere: leale, generosa, onesta, temperata da un quieto ardore. Uno sfondo sublime per suggellare con studiate parole la consegna del biglietto. Guardando l’amico negli occhi, ho sfilato il biglietto dalla giacca porgendoglielo in mano: “Tieni, vorrei che tu tenessi come ricordo le parole che ho scritto. Non potevo chiedere migliore compagnia per questi giorni: solo fra amici è possibile vivere in comune gli spazi e le difficoltà. Abbiamo condiviso molte cose e tante sono rimaste implicite, ma nessuna, finora, mi ha fatto pensare che tu sia diverso da come ti avevo immaginato e da come sono contento che tu sia. Un tempo ero invidioso di chi costruiva per sé un bene maggiore del mio; adesso mi ritengo felice di poter frequentare amici migliori di me. Ad altri la Provvidenza ha concesso ricchezze, ad altri ha dato talento e cultura: non rimpiango quello che ha scelto per me.” e lui: “Ti ringrazio per questi immeritati complimenti ma non credo assolutamente di essere migliore di te, da quanto ho avuto modo di vedere e sentire nel tempo che abbiamo trascorso insieme.” Ben poche parole si potevano aggiungere e così, al volgere della sera, dietro le mura di casa, ci siamo scambiati un forte e lungo abbraccio. Il nostro rifiuto silenzioso al disumanizzante distanziamento asociale. Percepivamo entrambi, credo, una grande sincerità in quel gesto, fino a quando ci siamo lasciati senza aggiungere parola; salvo notare, con una chiosa piacevolmente ironica, la prosaica esigenza di tenere aperto il cancello. Ho caricato in macchina la valigetta e sono partito. Si compiva il bel commiato, unendoci ormai solo un lieve cenno della mano attraverso il finestrino mentre imboccavo la via. La mente concentrata sui programmi dei successivi giorni lasciava talvolta emergere rassicuranti ricordi che, nella totale assenza di rimorsi, facevano affiorare un segno di letizia sul viso. Gli occhi fissi sulla strada, giocavo con le curve e mi divertivo ad accelerare sui rettilinei deserti. Tornavo al tramonto coperto dalle montagne, tornavo al profumo di erba tagliata: amenità delle campagne maniaghesi – la mia Tivoli, la mia Recanati – voi mi chiamavate! Io correvo da voi, recitando un rosario sotto il cielo notturno che si copriva di stelle.Le fronde dell’alloro, per virtù pari alla poesia, non perdono mai il loro verde smeraldino; ma la prosa è condannata all’oscurità di un’eterna notte dopo il bagliore di una prima lettura. Simile alla rosa lungamente coltivata, trapassa al trapassar di un giorno la sua effimera beltà. Accetta il mio dono se ti ha divertito, anche sapendo che lo preme verso il fondo dell’abisso una montagna di scritti più lodevoli.In questi giorni in cui dobbiamo, si fa per dire, ricucire per noi stessi le pagine della classicità, come lettere stracciate di un amante traditore, ti raccomando di non piangere per ciò che non ti è stato tolto, così come non cercheresti ciò che non hai perso. Parlo della libertà. Tu hai già tutto ciò che ti occorre per essere felice, a meno che la felicità non si nasconda in qualche luogo fuori di te stesso. Quanto a me, vivo soddisfatto del mio tranquillo ozio letterario, nulla cercando di migliore. Perché dovrei esacerbare gli studi per la vanagloria di far conoscere il mio nome alle masse, la cui opinione è mutevole come sai? Così gran fatica è piacere a un solo uomo che, quando avessi ottenuto questo, credimi, amico, non mi resterebbe molto da desiderare. Tu stammi bene et laetus sorte tua vives sapienter.

Andrea M.

Immagine di copertina tratta da:

The Island of San Michele, Venice, 1770s, Francesco Guardi.
https://www.metmuseum.org/art/collection/search/438117?searchField=All&sortBy=Relevance&what=Oil+paint&showOnly=openAccess&ft=Venice&offset=0&rpp=80&pos=22

Title: The Island of San Michele, Venice

Artist: Francesco Guardi (Italian, Venice 1712–1793 Venice)

Date: 1770s

Medium: Oil on canvas

Dimensions: 19 × 30 3/4 in. (48.3 × 78.1 cm)

Classification: Paintings

Credit Line: Bequest of Mrs. Charles Wrightsman, 2019

Accession Number: 2019.141.13