di Don Stefano Carusi
Ringrazio Pucci e gli organizzatori di questo incontro per l’invito a rivolgere questo saluto ai presenti e ai tanti amici che scorgo, per onestà debbo dire che non ho ancora letto il libro che arriverà per posta nei prossimi giorni, parlerò quindi ex abundantia cordis, ricordando i tanti momenti passati a Napoli col Professore e lo leggerò avidamente rientrando a casa.
“Che si fa? Si va a Napoli?”, questo era l’invito che Pucci ci rivolgeva spesso, ormai più di vent’anni fa. Perché questo “si va a Napoli “ ? Certo perché l’amava, la conosceva, la faceva amare.
Ma soprattutto era “per respirare un po’ d’aria d’antico regime”, per rigenerare lo spirito in una città ancora viva, non imbalsamata dal razionalismo ottocentesco…che bello, a Napoli quasi non ci sono “boulevards” ottocenteschi, quelli coi platani alla Napoleone III. Perché ci sono le viuzze, le chiese, i palazzi antichi addossati gli uni agli altri, con quelle sopraelevazioni che fin dal ‘600 era necessario costruire perché il popolo voleva vivere nel cuore della città.
C’è una città che respira e che vive senza moltiplicare i problemi, o forse c’era perché nelle nostre ultime visite a Napoli l’abbiamo vista un po’ troppo “mettersi al passo” e non verso la virtù, ma verso quei “modelli imposti” che stanno togliendo l’anima alle nostre antiche città per così toglierla anche noi.
Andare a Napoli era per noi vedere i fiori sempre freschi che Pucci ci indicava, messi a decorare le tante immagini sacre, alcune antiche, altre costruite di bel nuovo con cornici di cemento, d’alluminio o pure di mattonelle avanzate dal rifacimento della cucina, appiccicate ad un palazzo barocco. Magari senza l’accordo della Soprintendenza alle Belle Arti, ma poco importa, almeno si percepiva la vita ed anche la vita di fede, in quelle strade senza troppi complessi.
Coi devoti della Madonna dell’Arco che passavano coi loro stendardi per Spaccanapoli, con qualche bambino vestito coi segni della Confraternita all’uscio delle chiese i venerdì di Quaresima, con le chiese a porte spalancate per il gran caldo, in cui ci si rifugiava cercando frescura e in cui le Ave Marie si confondevano con le grida dei pescivendoli di strada. Ma non c’era irriverenza, perché, nei brani di quella Napoli antica che rimanevano, si era naturalmente cattolici, il pescivendolo gridava forte anche davanti alla chiesa, ma si segnava passando davanti all’edificio sacro e chi stava dentro a pregare invece di inveire perché qualcuno aveva interrotto le sue austere preghiere, diceva fra sé “anche lui deve campare” e magari gli diceva pure un Pater. Queste immagini di un vivere “naturaliter christianus” fino a vent’anni or sono erano usuali e col Professore che ce le indicava volevamo immortalarle nella memoria, sapendo che il rullo compressore della “modernità” – la chiamano così – avanzava anche verso di esse. Non immaginavamo però sarebbe stato così rapido. Era questo quando ci diceva “che si fa? Si va a Napoli a respirare un po’ di civiltà?” ovvero a vedere dal vivo come funzionava una civitas christiana prima che qualche idealista, che non manca neanche in ambiente cattolico, ci riproponesse un modello moralizzatore da protestantesimo tedesco. Andavamo a Napoli perché lì resisteva un po’ di più quello che abbiamo chiamato “una città d’antico regime”. Ed era vivo. Ma già sentiamo l’obiezione del modernismo saccente, quello che legge nei cuori…, per cui quella di Napoli è religione troppo superstiziosa. Certo ci saranno pure in alcuni forme di religiosità che la Chiesa invita a moderare e canalizzare, ma almeno si vedeva la fede cattolica “incarnata”, non un esercizio cerebrale, ma “in carne e ossa” e, vogliamo ripeterlo, professata con apertura e naturalezza. Se poi gli obiettanti andassero davvero sulla tomba di San Giuseppe Moscati e parlassero con quei malati che a lui si raccomandano, vedrebbero quanto fervore autentico e quanta fede rimane ancora oggi a Napoli, perché in quel clima anche il concetto di trascendenza diventa più familiare.
Certo non dico che fosse il paradiso terrestre, nessuno nega i tanti problemi la cui radice è lontana, da certo liberalismo settecentesco alla “Malaunità” imposta nel Risorgimento, ad alcune pessime scelte sociali ed urbanistiche dell’ultimo Dopoguerra, ma quantomeno percepivamo, quando passeggiavamo con Pucci per i Quartieri Spagnoli, che quell’animo napoletano, quel sapersi arrangiare nel risolvere i problemi con semplicità, era retaggio di quell’antica “libertà di muoversi nel bene”, senza che tutto fosse irreggimentato da leggi e leggine. Il tutto con due grandi consiglieri. Il buon senso prima di tutto, che valuta la realtà e trova la soluzione pratica e poi quel “gran cuore di Napoli” che pur tra mille contraddizioni e forse anche qualche rinnegamento, tradisce la sua lontana origine, la carità cristiana. Incarnata e non solo teorica.
Per essere ancor più concreti, perché bisogna esserlo, leggevo il giornale poco fa con alcuni di voi e il Comune di Firenze “festeggiava” i trenta milioni di euro di multe in soli tre mesi. Saranno forse i resti della tradizione leninista di qualche amministratore, per cui il cittadino è sempre colpevole. Si è sempre colpevoli, si deve sempre temere lo Stato e suoi metodi polizieschi, la multa è dietro l’angolo. Non si deve più vivere se non nella paura di violare qualche norma promulgata non si sa da chi e non si sa con quale senso. Devi vivere nell’ansia di uno Stato che vuole razionalizzarti e inquadrarti con leggi che quasi nulla hanno a che vedere col diritto naturale. Ecco, a Napoli non era così, si poteva vivere con più naturalezza e questo voleva dirci il Professore con quell’ “andiamo a respirare un po’ d’aria d’ancien régime”. E forse ancora oggi, malgrado tutto, qualcosa di tutto ciò resiste se il numero di multe a Napoli, stando sempre al citato giornale di oggi, è di 20 milioni di euro…all’anno, rispetto al 30 milioni – in tre mesi – di Firenze. Cifre sulle quali non mi pronuncio, ma il solo fatto che con tanta enfasi compaiano sui giornali di oggi è indice di quale sia il programma che ci aspetta. Cosa vogliono dirci? Che le città più severe in cui si fanno più multe sono più virtuose ? Non crediamo che i due fattori siano sinonimi.
Sappiamo anche che non è tutto oro quel che luccica e che non sempre la vita a Napoli sia facile per i suoi abitanti anche per il rovescio della medaglia di quanto descritto, ma non pensiamo che le soluzioni siano nel perseguire uno snaturamento della sua identità, ma in un’appropriazione più profonda di essa, elevando verso l’alto. Alle volte si ha l’impressione che si faccia un gran parlare di Camorra per eliminare non già il disordine della malavita, ma quel di buono e di bello che è rimasto della civiltà di Napoli antica, lasciando – o ampliando – le sue piaghe. Sta di fatto che oggi è più raro, anche a Napoli, vedere quelle scene di civiltà sopra descritte. Alcuni dicono che ora è più “euuroopea”, che vorrà dire chiedetelo a loro. A me l’ultima volta è sembrata, pur nel suo immutabile fascino, più inodore rispetto a vent’anni fa. Tutto sta diventando più insapore ed inodore, anche le nostre città diventano sempre più anodizzate e…sterilizzate al gel germicida. Un uomo senza identità e senza storia è più facilmente schiavo della corrente.
Tutte le nostre antiche città avevano un’anima, viva. Progressivamente è stata spenta. Andare a Napoli era per noi rivivere quello che altrove era stato soffocato. Gli incontri come quello di oggi anche a questo servono, a ribadire che non vogliamo che, togliendo ogni buon senso dal vivere civile, ci strappino anche l’anima e con essa ci strappino la nostra fede.
Grazie Pucci, grazie a voi organizzatori e a tutti presenti