di Serafino M. Lanzetta

In un mondo in cui le persone vogliono disfarsi di Dio, con la conseguenza di un significativo oblio della ragione umana, la verità è stata usurpata dal potere. Questo non è necessariamente politico o economico, ma – così sembra – è il potere delle parole. È l’abilità di saper esprimersi in modo da inviare un messaggio che crei la verità e faccia sì che altri lo credano vero. Oltre a questa capacità di far accettare come verità ciò che uno dice, sembra che non ci sia un altro modo per convincere qualcuno che la verità invece esiste per se stessa.

 

Si tratta certamente di un modo soggettivo di dire la verità o piuttosto di convincere le persone ad accettare la mia verità. Oggi facciamo i conti con questo potere di manovrare le parole in una direzione che sia nel miglior interesse di colui che parla e che così tenta di affermare la sua verità. Ci sono tanti esempi di questo tipo, cioè di parole che sembrano grandi discorsi, ma che di fatto nascondono un pre-concetto o perfino un’ideologia. In realtà, o la verità esiste per se stessa o non esiste affatto. Nessuno la può creare, ma può solo scoprirla come frutto di una ricerca seria e diligente.

 

Per avere un’idea di ciò che stiamo dicendo, si pensi particolarmente alla parola “tolleranza”. Essa significa un atteggiamento permissivo verso coloro i quali hanno delle opinioni diverse dalle nostre. Le opinioni, soprattutto oggi, sono variegate in relazione al proprio credo religioso, allo sport, alla filosofia di vita, ecc. Ordinariamente siamo molto tolleranti. La tolleranza sembra una carta d’identità per la vita sociale. Se uno è intollerante è considerato un nemico della comunità. Stranamente, però, il più delle volte, la tolleranza ha il potere di significare un permissivismo – quasi spontaneo – verso il relativismo (l’idea che non c’è la verità e che ognuno può tenersi la sua) più che l’essere rispettosi anche nei confronti di coloro che invece lo rigettano e pensano che la verità esiste per se stessa come un dato e non come un’imposizione.

 

Perché, per esempio, c’è così poca tolleranza nei riguardi di chi sostiene che la vita inizia dal concepimento e che un bambino deve essere sempre rispettato, garantendogli il diritto naturale di vivere? D’altra parte, però, la tolleranza è intesa normalmente come l’essere rispettosi delle persone “pro-choice”, cioè di coloro che invece non riconoscono che un bambino appena concepito è quella persona che loro stessi erano e che ora non potrebbero reclamare alcun diritto se fossero stati soppressi anche loro con l’aborto. Perché una tale discriminazione nell’essere tolleranti? Ciò significa che la tolleranza è una parola dal doppio significato? Assolutamente no. Ciò significa solo che le parole possono essere piegate al significato che la maggioranza gradisce, sebbene non sia necessariamente la verità. La verità, infatti, non è un’opinione. Ciò che viene imposto mediante il potere delle parole non è la verità di cui abbiamo bisogno, piuttosto il potere di un’ideologia veicolata dal “savoir-fare” di parole significative.

 

Abbiamo appreso altro circa questo potere delle parole vuote con la drammatica vicenda del piccolo Alfie Evans, il quale è stato letteralmente condannato a morte quantunque fosse vivo e capace di respirare. Il giudice Hayden che ha trattato il suo caso ha detto durante l’udienza conclusiva di martedì 24 aprile 2018: questo «rappresenta… il capitolo conclusivo nel caso di questo bimbo straordinario». Che significava: nessuna possibilità di poterlo trasferire in Italia per ulteriori trattamenti medici, né di avere ancora il supporto di elementi vitali, nonostante il fatto che sia sopravvissuto allo spegnimento del ventilatore cominciando a respirare da solo. Bisognava applicare il “protocollo” (un altro gioco di parole per descrivere eufemisticamente la morte).

 

Si veda la perfidia di queste parole: «capitolo conclusivo» (cioè morte e nient’altro) di un «bimbo straordinario» (per la sua forza di vivere e di resistere alla morte). Lo stesso giudice Hayden sperava che il bimbo potesse essere restituito ai genitori, i quali potessero spendere un po’ di tempo con lui prima della sua fine, piuttosto che investire altro tempo in una battaglia giuridica. Era sicuro della sua morte. «Il cervello non può rigenerare se stesso e praticamente non c’è niente che sia rimasto del suo cervello», aveva aggiunto il giudice nella medesima circostanza. In nessun modo si poteva far sì che Alfie rimanesse in vita. Doveva morire, ma gioiosamente perché era un bimbo straordinario! In verità, la vita non dipende dal cervello. La vita è molto più del cervello e la dignità di Alfie, come quella di ogni altro essere umano, appartiene alla persona come tale e non dipende dalla funzionalità di componenti del nostro corpo.

 

Come ciliegina sulla torta, poi, c’è stata un’altra espressione che colpisce per la sua ipocrisia: «migliori interessi». Ripetutamente si è detto che secondo l’ospedale pediatrico Alder Hey il trattamento continuo «non era nel miglior interesse di Alfie». Perfino quando Alfie resisteva alla morte e continuava a vivere respirando autonomamente per un lungo tempo, era ancora nel suo miglior interesse morire. Quando, in realtà, la morte è nel miglior interesse di un uomo? In questo caso, però, poiché si è trattato di promuovere l’eutanasia di Stato – la cosiddetta “dolce morte”, ma ben peggiore poiché ora decisa da un giudice e non dalla persona stessa o dai genitori – la morte è nel miglior interesse (dell’ideologia di turno). Si può facilmente vedere il vuoto di queste parole che promuovono una battaglia reale dell’ideologia contro la realtà.

 

L’ideologia ora sembra che abbia vinto poiché Alfie non è riuscito a respirare più a lungo ed è morto. Ma non è così. Con la morte di un piccolo angelo, è stato pienamente rivelato il vuoto maligno di una società opulenta che scarta i deboli credendo così di essere forte. Chi uccide i deboli, perché apparentemente tali, condanna se stesso al vuoto e al fallimento di una debolezza non redenta e forse non più redimibile.

 

Speriamo che questa ideologia della forza apparente, con la morte di un piccolo guerriero, possa essere seppellita nella tomba della propria arroganza. Dobbiamo però aprire gli occhi e accorgerci di essere in guerra. Tutti siamo Alfie e quei milioni di bambini uccisi non in un tribunale, ma nel grembo delle loro madri, in nome del pietismo e di parole false. Non possiamo rimanere zitti difronte a tale mostruosità culturale.

 

Quando la ragione non funziona più e Dio è lontano dal nostro umano orizzonte, la nostra conoscenza produce mostri di assurdità. Assurdità mortali, se rimaniamo ancora ad occhi chiusi lontani dalla realtà della verità. La verità non è un’opinione, non un cinguettio sui social, ma l’oggettività della realtà.

Tratto da: Corrispondenza Romana