Come uno scrigno pieno di pietre preziose e di profumi inebrianti, Roberto de Mattei ci offre questo intenso spaccato della vita di Sicilia dei primi decenni del XX secolo che – alla fine di un’appassionata quanto istruttiva lettura – risulta essere non meno l’«Isola dei tesori» di quanto non sia l’Isola misteriosa del titolo (Roberto de Mattei, L’Isola misteriosa, Solfanelli, Chieti, 2020).

Dico l’«Isola dei tesori», perché più e meglio di altri popoli, i siciliani hanno sedimentato e assimilato l’uomo greco, latino, bizantino, arabo e normanno, e hanno saputo convivere con lo spagnolo, col francese e con l’inglese, sicché la Sicilia e il siciliano costituiscono il fondamento e la patria nobile dell’Occidente e la innervano grazie ad un innato istinto conservativo di quelle più antiche culture e tradizioni. La trilogia di de Mattei offre continui esempi di una esemplare raffinatezza di cultura e di tradizione che l’Isola ha sempre alimentato e fatto prosperare anche presso altri popoli.

La Sicilia è nello stesso tempo l’«Isola misteriosa», quella rete di società, comunità e sodalizi che vivono sottotraccia e che nondimeno ne hanno scritto una storia spesso indecifrabile, ma comprensibile anche alla luce di quelle ataviche tradizioni misteriche che l’Isola e i suoi abitanti hanno gelosamente custodito dalla grecità classica fino ad oggi e che si portano inscritte nel loro carattere.

In un continuo gioco di luci ed ombre, l’Isola del tesoro convive da sempre con l’Isola misteriosa in un rapporto «di ragione» e «di passione», spesso doloroso, ma vitale, un rapporto fatto di carne e ossa.

La lettura di questa trilogia tutta siciliana si presenta dunque accattivante e istruttiva, considerata la materia prescelta e le qualità dell’Autore: i racconti si sviluppano e si legano l’un l’altro in una narrazione romanzesca, avvincente e serrata, di eventi, personaggi, caratteri, paesaggi e cose che, nelle mani sapienti dello storico di professione, diventa anche narrazione e lettura «istruttiva». Dall’inizio alla fine, il Narratore e lo Storico riescono infatti a mantenere alla perfezione l’equilibrio fra la sobria e pacata invenzione letteraria e l’analisi storico-scientifica dei fatti.

Roberto de Mattei è riuscito a presentare i fatti narrati al di là della loro esattezza storico-scientifica, portandoli su un piano più letterario e più discorsivo, e rendendoli quindi fruibili oltre la cerchia degli specialisti, offrendoli ad un pubblico più vasto, che voglia conoscere la storia attraverso lo stile intenso e coinvolgente del romanzo, nel quale la rotondità e la carnalità dei personaggi non recede di fronte alla loro verosimiglianza e alla veridicità storica e oggettiva dei fatti narrati.

Se dunque nell’incipit del romanzo, de Mattei rende omaggio al Dumas più storico che romanziere – ma tuttavia sia storico che romanziere – de I bianchi e i blu, significa che questa fusione avvenuta in de Mattei fra lo storico e il narratore è perfettamente riuscita, e che l’amabilità del racconto nulla toglie – ma anzi aggiunge – al resoconto, quel valore in più che è la maggior comunicabilità del fatto storico, della vicenda storica, e quindi una sua maggiore circolazione a vantaggio di un pubblico più vasto e più eterogeneo.

Il dato storico sul quale la trilogia poggia, fu il tremendo terremoto di Messina avvenuto alle 5.21 del 28 dicembre 1908 e che nell’arco di 37 secondi di tempo falciò la metà circa della popolazione messinese e un terzo circa di quella reggina, in tutto più di centomila persone. Salvatore Quasimodo, che all’epoca aveva sette anni, ne conservò il ricordo, che elaborò nella successiva lirica Al padre (“Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d’uragani e mare avvelenato”).

È proprio da questo fatto che si compie il saltus ad aliud, dal dato storico all’evento romanzato, ma – nelle esperte mani dell’Autore – questo romanzo mai diventa un romanzo «di fantasia» e mai quel dato perde la sua «storicità» di dato.

De Mattei immerge l’impudica brutalità del terremoto che in meno d’un attimo aveva messo a nudo tutte le umane debolezze nascoste nelle pieghe della vita quotidiana, in un ordito narrativo che ne attenua per così dire l’inverecondia, e presenta quella tragedia all’interno di un divenire storico «religioso» lungo il quale il Verbo si è veramente incarnato; un divenire storico che è divenuto la via della salus animarum affidata alla Chiesa; un divenire storico che è anche mistero di bene e di male, di gioie e di dolori e quindi un divenire storico profondamente – cioè essenzialmente e naturalmente – religioso.

Fin dalle prime pagine del romanzo si avverte il presentimento di una sorta di nuova rivolta della natura (“Catania si sarebbe presto animata e il sole sarebbe tornato a illuminare le pietre con cui i suoi caparbi concittadini, dopo l’eruzione del 1693, avevano ricostruito la città barocca”), di fronte all’imponderabilità della quale l’uomo non sa e non può nulla, e che di fronte all’irrazionale dimostra tutta la sua debolezza.

Ma è anche l’uomo che – e qui sta la religiosità dell’umano divenire, che viene sottratto ad ogni tentazione nichilistica – come le evangeliche vergini prudenti, deve farsi trovare semper paratus e deve sempre interpretare ogni atto della vita alla luce della volontà divina.

Ecco che di fronte a quei vaghi annunci di sventura che percorrono la prima sezione della trilogia, un anonimo Professore – di professione medico – si trova ad essere prima il destinatario dell’attenzione spirituale del canonico Annibale Maria Di Francia e poi l’interlocutore di dialoghi dotti e spiritualmente edificanti con personalità del calibro dei medici Antonio Cardarelli e Giuseppe Moscati, il primo, luminare di fama mondiale, e il secondo suo giovane assistente e soprattutto futuro santo.

In queste prime scene, preparatorie per così dire della sciagura, il Professore – che poi sarà presente a tutti gli avvenimenti successivi – è chiamato a discutere e a ponderare il significato del male fisico, della malattia in sé e per sé, ma con essa, gli suggerisce Giuseppe Moscati, è chiamato a riflettere anche sopra il senso della «salute» dei pazienti – una salute evidentemente da intendersi nella sua voce latina più ampia, quindi come salvezza sia fisica che spirituale – che pertanto va ricercata non solo nella scienza ma soprattutto con l’aiuto della fede e della teologia (“Noi medici ci occupiamo della malattia, ma spesso dimentichiamo la salute dei nostri pazientiTutto ciò che accade, anche la malattia, ha una ragione e un significato. E il mistero del male, fisico e morale, dell’universo, non ha la sua spiegazione nella scienza medica, ma nella scienza teologica”).

Già: “tutto quel che accade ha una ragione e un significato” dice Giuseppe Moscati, facendo capire che anche gli eventi più luttuosi, quelli che colpiscono non uno solo ma foss’anche la generalità degli uomini, come una guerra, un’eruzione vulcanica o per esempio un terremoto, possono avere e hanno una ragione e un significato teologici, solo che si voglia guardare oltre la natura delle cose.

È quel che nella seconda parte della trilogia don Orione, inviato dalla Santa Sede alla curia arcivescovile di Catania all’indomani del terremoto, cerca di far comprendere all’occhiuto e sospettoso arcivescovo mons. Letterio D’Arrigo Ramondini (“Se Dio calca così pesantemente la mano su di una città, ci sarà pure una ragione. Il concetto che Dio, talora, si serva delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto della sua giustizia si trova in tutte le pagine della Bibbia”). E già in precedenza il canonico Annibale Maria Di Francia aveva ammonito che “in Messina regna tale indifferentismo, tale acquiescenza col peccato, che c’è bisogno di un castigo che scuota e risvegli la città”.

Quanti cataclismi, quanti disastri in ogni parte del mondo hanno colpito questa dolorante umanità in ogni tempo: ricordo, per la particolare intensità e violenza, il terremoto-maremoto che sconvolse il Giappone nel marzo 2011, di fronte al quale pochissime voci si alzarono al cospetto del mondo – l’unica in Italia fu proprio quella dello storico Roberto de Mattei – per richiamare l’uomo al suo legame col peccato originale, e fu vox clamantis in deserto. L’uomo, rappreso nel suo orgoglio, addirittura indignato per esser richiamato alla trascendenza, si chiude ancor di più all’amore divino, nel tentativo di farsi, da creatura, creatore lui stesso.

È la tesi sull’ambiguità del progresso sostenuta dal Professore nella sua prolusione all’Università di Catania nel 1926 e che apre la terza parte della trilogia. Nel momento in cui la cultura di inizio secolo parlava il linguaggio esclusivamente neopositivista e numerico-matematico dei grandi aritmetici tedeschi come Frege, Dedekind, Cantor e del britannico Russell, un linguaggio che avrebbe portato al nichilismo assoluto dei giorni nostri, proprio dalle coraggiose parole del Professore emergeva un ulteriore avvertimento a guardarsi dal «progresso» a tutti i costi: un vicolo cieco che avrebbe portato a disastri pari e superiori a quelli di un terremoto o di un’eruzione, perché quella sete di voler andare avanti senz’altro fine che non l’immanentismo scientifico, avrebbe voluto dire divorzio, aborto, eutanasia, manipolazione della vita in embrione, avrebbe cioè portato l’uomo a disfarsi degli elementi portanti e naturali della sua identità personale e del suo vivere sociale, prima fra tutti la famiglia: “Questo egoismo, questo scetticismo, rovescia oggi persino le sacre leggi della generazione e porta alla legalizzazione dell’aborto e alla limitazione delle nascite predicata dai moderni seguaci di Malthus (…) gli aborti volontari sono ormai ufficialmente ammessi in Russia e sono arrivati nella sola Leningrado alla cifra di 1500 mensili (…) Dobbiamo aggiungere che una delle cause della diminuzione della natalità è il lavoro della donna (…) Tutto questo è frutto di una mentalità per la quale l’uomo non rinuncia a nessuna esperienza, cerca il piacere e rinuncia al sacrificio”.

Quanta preveggenza, quanta ragione in ognuna di queste parole, pronunciate con straordinario e lungimirante anticipo.

Infine. Tutta la terza parte della trilogia è una lezione di storia moderna e contemporanea frutto delle documentate ricerche dell’Autore, in quanto storico, ma narrate con lo stile vivace e coinvolgente del romanziere dal punto di vista delle grandi famiglie che fecero la storia non solo locale, ma nazionale. È la storia del cardinal Ruffo, dei Nelson di Bronte, di Francesco Caracciolo, di tante altre personalità, dell’intero Regno del Sud.

Roberto de Mattei ci racconta «la storia» in un’atmosfera vivida di persone, fatti e relazioni politiche e diplomatiche che rappresentano un’epoca indimenticabile e struggente, nella quale i valori della fedeltà, dell’onestà e della probità avevano un riconoscimento politico, cioè sociale ed universale non tacendo dei mali incipienti o pregressi proposti dalla mafia, dal brigantaggio, dalla massoneria, dalle alleanze politiche trasversali, mali che annunciavano problemi ancor oggi irrisolti.

Forse tutta la bellezza, e tutto il fascino, di quest’Isola misteriosa che si rivela nondimeno «Isola di tesori» sta proprio nelle conclusive parole del Professore: “Sir Alec, voi siete una nazione giovane. Noi siamo una terra antica e complessa. La vostra nazione non esisteva, quando Tucidide, Pindaro e Cicerone già lodavano la grandezza della nostra terra”.

Giovanni Tortelli

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