di Massimo de Leonardis

Eugenio Pacelli, visse attraverso tre guerre, le due Guerre Mondiali ed il conflitto sui generis comunemente chiamato Guerra Fredda. Aveva una vasta esperienza diplomatica, aveva svolto missioni a carattere cerimoniale nel Regno Unito, era stato Nunzio Apostolico in Baviera, e poi in Germania, aveva incontrato su incarico di Pio XI diplomatici sovietici, nell’ottobre-novembre 1936 aveva svolto una lunga missione negli Stati Uniti d’America.

La valutazione storica sull’azione politico-diplomatica del Venerabile Pio XII è stata pesantemente influenzata dalle polemiche sui suoi cosiddetti “silenzi” riguardo alla persecuzione anti-ebraica, causa prima del perdurante stallo del processo di Beatificazione. Su tale polemica non intendo soffermarmi, se non per ricordare che alla sua morte molte alte personalità ebraiche lo ricordarono in maniera elogiativa e con gratitudine. Voglio invece richiamare la necessità di considerare l’operato del Papa e della Santa Sede nella Seconda Guerra Mondiale in un’ottica di lungo periodo. Non si può, infatti, correttamente comprendere tale operato senza richiamare alcuni analoghi e significativi precedenti, soprattutto nella Grande Guerra.

Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale si collocano nel contesto del sistema vestfaliano degli Stati sovrani, che dal 1648 si sostituì definitivamente al precedente, quello della Respublica Christiana, nella quale al Papa era riconosciuto un supremo magistero morale e, almeno in teoria, un ruolo di arbitro politico. Nel sistema vestfaliano, nell’Europa degli equilibri e della politica di potenza, il Papa era semplicemente considerato il sovrano dello Stato Pontificio, un sovrano temporale come gli altri. Pur tenendo il Papa al margine del sistema, paradossalmente vi erano però tentativi di chiamarlo in causa per arruolarlo a proprio favore. Il Gott mit uns, originariamente motto dei Cavalieri teutonici, finì per comparire anche sulle fibbie dei cinturoni delle divise della Wehrmacht (le Waffen SS adottavano il motto Meine Ehre heißt Treue La lealtà è il mio onore).

Il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato di Benedetto XV e di Pio XI fino al 1930, scrisse negli anni ’20 queste considerazioni: «Questo secolo ha l’aria di esigere dal papato di oggi precisamente ciò che rimproverava al papato di ieri. Vorrebbe, così sembrerebbe, che il Pontefice attuale si buttasse nel mezzo dei popoli in armi, lampi alla mano, non risparmiando nessuno. Questa potrebbe essere una buona idea, ma noi siamo più moderni, e sappiamo quello che ci aspetta in seguito. Ciò comporterebbe di non essere più in pace con nessuno […] Poiché decisamente per andare fino in fondo al sistema, dovremmo condannare a turno, con gran chiasso tutti i popoli, tutte le classi sociali e tutte le categorie di peccatori».

Soprattutto bisogna tenere presente l’esperienza di Benedetto XV nella Prima Guerra Mondiale, della quale Mons. Eugenio Pacelli era stato strettamente partecipe, prima come sottosegretario della congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari e poi dal maggio 1917 come Nunzio Apostolico in Baviera. Senza dimenticare l’opera in soccorso dei feriti e dei prigionieri di guerra, affidata inizialmente alla sua direzione. In tali incarichi Mons. Pacelli compì una missione infruttuosa a Vienna per indurre l’Imperatore Francesco Giuseppe I a concessioni territoriali che scongiurassero l’intervento dell’Italia e fu direttamente coinvolto nella preparazione relative dell’iniziativa di pace di Benedetto XV dell’agosto 1917, anch’essa destinata all’insuccesso.

Nella Grande Guerra i cattolici combattevano in entrambi gli schieramenti con tranquilla coscienza e con convinzione. A chi sottolineava il carattere cattolico dell’Impero asburgico e il rispetto della religione nell’Impero tedesco a fronte del laicismo, dell’eresia e dell’indifferentismo dei governi avversari, altri polemisti potevano contrapporre la maggioranza di cattolici nelle file dell’Intesa, 124 milioni contro i 64 degli Imperi centrali, il luteranesimo della Prussia, il residuo giuseppinismo dell’Austria, l’islamismo dell’Impero ottomano. Nella sua allocuzione al Concistoro del 22 gennaio 1915 Benedetto XV teorizzò con precisione che la Sede Apostolica doveva «mantenersi perfettamente imparziale», poiché il Vicario di Cristo è padre comune dei cattolici. Ciò non impediva di “riprovare” «altamente ogni ingiustizia da qualunque parte possa essere stata commessa».

Anche chi a fatica ammetteva che la Santa Sede dovesse essere “imparziale”, riteneva però che ciò non dovesse impedire di pronunciare condanne “morali”, poiché, come scrisse il cattolico John Duncan Gregory, primo segretario della missione diplomatica britannica presso la Santa Sede, «una autorità spirituale non può mai essere neutrale». Analogamente il Journal Officiel francese scrisse il 16 agosto 1917 che «quando si desiderava essere l’arbitro della pace nel mondo, era doveroso prender partito tra il bene e il male». Ovviamente ognuna delle parti belligeranti riteneva di essere «il bene» e che il nemico fosse «il male».

 A Benedetto XV fu ad esempio rimproverato, come già a Pio X, di non aver apertamente denunciato la violazione della neutralità del Belgio da parte della Germania, ma di avervi solo fatto allusione implicita nella citata allocuzione del 22 gennaio 1915; la questione tormentò non poco il Papa, come appare dalla lettera del segretario di Stato Gasparri al ministro del Belgio presso la Santa Sede del 6 luglio dello stesso anno. Un’altra critica, della quale si fece portavoce perfino un cardinale di curia, l’inglese Gasquet, riguardò la mancata esplicita condanna dell’affondamento del Lusitania, alla quale il Papa aveva alluso nella lettera al Decano del Sacro Collegio del 25 maggio 1915 con queste parole: «neppure si rifugge in terra ed in mare da mezzi di offesa contrarii alle leggi dell’umanità ed al diritto internazionale».

Il Papa doveva essere “usato”, senza però riconoscergli poi alcun merito o ruolo: «tutte le ambasciate e le legazioni accreditate presso il Papa sono là per tenerlo in riga». Sempre a proposito del Belgio, il già citato diplomatico britannico scriverà infatti che quando nella primavera del 1915 corsero voci che la Santa Sede avrebbe potuto condurre un’inchiesta sulle atrocità ivi compiute dai tedeschi «immediatamente gli alleati versarono acqua fredda su questa proposta inopportuna: avrebbe posto nelle mani del Vaticano del potere che più tardi sarebbe stato usato alla conferenza della pace». Analogamente, durante la Seconda Guerra Mondiale «oggetto di molte attenzioni e destinataria di molte promesse» quando la guerra volgeva a favore dell’Asse, la Santa Sede, mutate le sorti del conflitto, era stata «ormai avvertita dalle democrazie come qualcosa di ingombrante».

Le due situazioni presentano elementi di diversità, ma le accuse a Benedetto XV di formulare denunce solo per allusioni costituiscono un precedente significativo delle polemiche sui “silenzi” di Pio XII. In un caso la Santa Sede intervenne apertamente, per fermare il massacro degli Armeni, non solo attraverso i canali diplomatici ma anche con un’allocuzione al Concistoro il 6 dicembre 1915 ed una lettera del Papa al Sultano Maometto V, che fu resa pubblica. Tuttavia la protesta a nulla servì, un’esperienza poi ripetuta nella Seconda Guerra con la pubblica protesta dell’episcopato dei Paesi Bassi che non fermò la repressione anti-ebraica, anzi intensificata in quel Paese.

La famosa nota di Benedetto XV del 1° agosto 1917 “alle potenze belligeranti” non solo fu accolta male dai governi, ma anche con forte imbarazzo dagli stessi episcopati nazionali, che erano impegnati nello sforzo patriottico delle rispettive nazioni o, quanto meno, temevano di passare per disfattisti. Già allora si fece in Vaticano la riflessione che la Santa Sede, in quanto istituzione internazionale, e la Chiesa cattolica, quale religione universale, erano strutturalmente poste a mal partito nei casi di guerre tra Stati nei quali vi erano cattolici da entrambe le parti. Se un’iniziativa di pace della Santa Sede era caduta nel vuoto in una guerra che solo nel 1917 stava assumendo un carattere accesamente ideologico e di contrapposizione totale, sarebbe stato del tutto irrealistico proporne una in un conflitto i cui protagonisti erano Hitler e Stalin. Già nella Grande Guerra anche le iniziative relative allo jus in bello avevano trovato minima rispondenza (si pensi alla proposta respinta di una tregua natalizia nel 1914). Senza trascurare la diplomazia, per la Santa Sede l’unico campo aperto restava, nella Prima come nella Seconda Guerra Mondiale, la mitigazione delle sofferenze.

Le ricerche più recenti e meglio fondate sulla documentazione archivistica, come ad esempio il volume di Johan Ickx Diplomazia segreta in Vaticano (1914-1915). Eugenio Pacelli e la resistenza alleata a Roma, nonché il mio saggio sulle relazioni anglo-vaticane, dimostrano l’assoluta infondatezza della definizione di Pape boche affibbiata a Benedetto XV da Clemenceau. Tra i collaboratori del Papa più favorevoli all’Intesa vi fu proprio Mons. Eugenio Pacelli. Nel suo diario il Ministro Plenipotenziario britannico Sir Henry Howard definì la nomina di Pacelli come Nunzio a Monaco una «terribile perdita per la nostra missione inglese presso il Vaticano», aggiungendo che per il suo atteggiamento schiettamente favorevole verso gli alleati, notato anche dal belga Mons. Deploige, Pacelli era nel 1915 «l’unico uomo del quale potersi fidare al Vaticano».

Veniamo alla Seconda Guerra Mondiale. Interpretare tale conflitto come uno scontro tra democrazie e dittature è assolutamente fuorviante, perché, innanzi tutto, vi furono due fasi. Nella prima (1939-41), l’URSS fu alleata di fatto della Germania nazista, in virtù del Patto Molotov-Ribbentrop e del successivo accordo del settembre 1939: la Polonia fu spartita tra le due Potenze, gli Stati Baltici ed altri territori furono assegnati all’URSS. La seconda fase della guerra fu quella in cui l’URSS, attaccata da Hitler, fu benevolmente accolta nel “campo delle democrazie”, senza peraltro averne alcun titolo.

Però, si potrebbe dire, c’erano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Si sottovalutano però alcuni fatti. Dopo la rottura all’epoca dello scisma anglicano, Londra con estrema fatica aveva ristabilito parziali relazioni diplomatiche con la Santa Sede, appunto nella Prima Guerra Mondiale, per ragioni di opportunità. Solo nel 1982 il Regno Unito avrebbe elevato la legazione ad ambasciata ed accolto un Nunzio Apostolico a Londra. Riguardo agli Stati Uniti la situazione era ancora peggiore. Relazioni diplomatiche con la Santa Sede saranno stabilite solo nel 1984. Sempre in base al concetto che in guerra è meglio “sorvegliare” il Papa, nel dicembre 1939 il Presidente Roosevelt, con il quale Pacelli aveva stabilito relazioni cordiali nel 1936, nominò Myron C. Taylor suo «rappresentante personale con il rango di ambasciatore».

Questo è il contesto della situazione. Certo il nazismo era esecrabile, ma poteva Pio XII schierarsi apertamente con Churchill, Roosevelt e, soprattutto, Stalin? «Parlando di atrocità non poteva menzionare direttamente i nazisti senza menzionare nello stesso tempo i bolscevichi e ciò, egli pensava, non avrebbe fatto piacere agli alleati», sembra dichiarasse Pio XII a Harold H. Tittman, Jr., assistente di Myron Taylor. Di fatto comunque il Papa si schierò con gli alleati, come si vedrà tra un momento in un caso specifico.

Quali furono gli interventi diplomatici di grande respiro di Pio XII nella Seconda Guerra Mondiale? In primo luogo il tentativo, ovviamente destinato a fallire, di organizzare una conferenza internazionale per evitare lo scoppio della guerra. Un evento importante poco ricordato accadde nel dicembre 1939 in occasione del decennale della Conciliazione. Il Re Vittorio Emanuele III si recò in visita di Stato al Vaticano e, fatto assai significativo, Pio XII, invece di delegare il compito al Segretario di Stato com’era prassi, restituì personalmente la visita al Quirinale, che era stato residenza dei Papi. Dal contesto dei documenti, dai discorsi pronunciati e soprattutto considerando le reazioni assai irritate di Mussolini, si comprende bene il significato del gesto di Pio XII come forte pressione perché l’Italia restasse fuori dalla guerra.

Il 3 maggio 1940 il segretario di Stato Cardinale Luigi Maglione tramite il nunzio in Belgio e l’internunzio nei Paesi Bassi informò i sovrani di tali Paesi dell’imminente invasione tedesca, che avvenne il 10. Il 6 il Papa stesso diede la medesima informazione ai Principi di Piemonte ricevuti in udienza (la Principessa Maria José era sorella del Re del Belgio Leopoldo III). Dopo l’attacco, il Papa inviò telegrammi di solidarietà ai sovrani del Belgio, dei Paesi Bassi e del Lussemburgo. Non fu accordato il riconoscimento diplomatico agli Stati satelliti dell’Asse che sorsero dalle vicende belliche, come ad esempio il Regno di Croazia. La Santa Sede, come era suo dovere, stabilì con essi contatti, mandò o ricevette missioni, ma rifiutò di stabilire regolari relazioni diplomatiche, con l’ineccepibile motivazione che non è prassi e tradizione della Santa Sede farlo durante le guerre, quando la situazione è determinata dagli eventi bellici in corso. Allo stesso tempo però la Santa Sede non poteva accettare pressioni; per esempio, quando il Giappone, che dal 1922 pensava di stabilire relazioni diplomatiche con la Santa Sede, si decise a farlo nel 1942, Londra e Washington protestarono, perché erano in guerra con Tokio. Giustamente però la Santa Sede respinse tali pressioni.

Il punto fondamentale, qual è? Vi erano il totalitarismo nazista ed il totalitarismo sovietico. Non sarebbe stato innaturale che, di fronte alle ripetute sollecitazioni che vennero dalla diplomazia italiana e tedesca, il Papa facesse una dichiarazione e in un certo senso approvasse la crociata anti-bolscevica, senza prendere formalmente posizione tra i belligeranti e seguendo l’esempio della Spagna. Madrid non fu mai infatti in guerra con l’URSS, però il Generale Francisco Franco inviò a combattere sul fronte russo la divisione Azul, con la motivazione che la Spagna, pur neutrale, ovviamente partecipava alla crociata anti-bolscevica. Non solo il Papa rifiutò categoricamente qualunque “benedizione” della crociata anti-bolscevica, ma fece in un certo senso l’opposto.

Quando l’URSS fu attaccata, il presidente Roosevelt aveva un grosso problema: ottenere il consenso dell’opinione pubblica americana e l’autorizzazione del Congresso ad estendere immediatamente a Mosca la legge «affitti e prestiti». Autorizzazione per nulla scontata, perché autorevoli politici americani rilasciavano dichiarazioni che ponevano sullo stesso piano il totalitarismo nazista e quello comunista. L’ex-presidente Herbert Hoover disse: «Io ritengo – e il 99% degli americani ritiene – che il totalitarismo, sia esso nazista o comunista, sia abominevole. Io aborro qualsiasi compromesso o alleanza dell’America con esso». Il senatore democratico e futuro vice-presidente Harry Truman dichiarò a sua volta: «Se vediamo che la Germania vince, dovremo aiutare la Russia. E se la Russia sta vincendo dovremo aiutare la Germania. E in questo modo lasciare che si uccidano il più possibile tra loro».

Roosevelt chiese allora l’aiuto di Pio XII, perché ovviamente i più riluttanti a questa estensione degli aiuti all’URSS sarebbero stati proprio i cattolici americani. Il 3 settembre 1941 il Presidente scrisse al Papa una lettera nella quale si leggevano queste sorprendenti affermazioni: «per quanto mi consta, in Russia le chiese sono aperte. Io credo vi sia una reale possibilità che, con il risultato dell’attuale conflitto, la Russia possa riconoscere la libertà di religione […] Io credo comunque che questa dittatura russa sia meno pericolosa per la sicurezza delle Nazioni di quanto lo sia la forma tedesca di dittatura. […] Io credo che la sopravvivenza della Russia sia meno pericolosa per la religione, per la Chiesa in sé e per l’umanità in generale di quanto sarebbe la sopravvivenza del tipo tedesco di dittatura».

Non c’è da sorprendersi Mons. Tardini, sostituto alla segreteria di Stato, stilasse un appunto molto critico su questo messaggio: «Per chi ha in mira soltanto gli interessi religiosi e morali del popolo russo, non c’è che una via per salvarlo: ‘la distruzione del comunismo’. Questa non è l’idea di Roosevelt […] il presidente degli Stati Uniti pensa unicamente agli interessi politici, messi da parte quelli religiosi. Ciò non meraviglia, dati i sistemi che ora vigono nel campo politico: ma stupisce che proprio Roosevelt si proclami difensore della civiltà cristiana! […] La lettera di Roosevelt mi ha fatto penosa impressione: è una tentata (ma non riuscita) apologia del comunismo».

Era una posizione ineccepibile, sul piano strettamente dottrinale e politico. Tuttavia per facilitare il compito di Roosevelt, la decisione finale di Pio XII fu di promuovere una dichiarazione di Mons. McNicholas, Arcivescovo di Cincinnati, nella quale si precisava che l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI condannava il comunismo ma non il popolo russo, seguita da una risoluzione di appoggio alla politica del Presidente da parte del National Catholic Welfare Council (organismo antesignano della National Conference of Catholic Bishops). Da notare altresì che il Papa, dopo breve riflessione accettò di istituire un canale segreto di comunicazione con i cospiratori tedeschi anti-hitleriani.

Si sono citati solo i casi più clamorosi, a dimostrazione che in realtà se proprio volessimo dire che Pio XII è stato il Papa di qualcuno non è stato certo il “Papa di Hitler”, ma semmai di Roosevelt. Da notare che anche in questo caso bisognerebbe “guardare alla propria trave”; infatti, il 30 agosto 1943 il segretario di Stato americano Cordell Hull, riprendendo la concorde valutazione del governo britannico, comunicava all’ambasciatore americano a Mosca: «non ci sono prove sufficienti per giustificare una dichiarazione sulle esecuzioni nelle camere a gas».

Veniamo alla Guerra Fredda. Anche qui non regge all’analisi storica la polemica definizione di “cappellano dell’Occidente” talvolta affibbiata a Pio XII. Il Papa portava allora anche il titolo di “Patriarca dell’Occidente”. Ma l’Occidente del Papa, la latinità Cattolica, la Magna Europa diffusa per esempio in America Latina, era qualcosa di ben diverso dall’Occidente guidato da Stati Uniti d’America e Regno Unito, potenze radicate in una tradizione protestante. Nell’Enciclica Sertum Laetitiae del 1939, celebrante il 140° anniversario della nomina del primo vescovo statunitense, Pio XII non aveva risparmiato critiche a vari aspetti della società di quel Paese.

Uno degli scopi dell’agnostico Ernest Bevin, ministro degli esteri laborista britannico, e del massone Presidente Americano Truman, che continuò a partecipare alle riunioni della sua loggia anche durante il mandato, era di arruolare il più possibile il Papa nella lotta contro Mosca, poiché la Chiesa Cattolica era riconosciuta come la più importante e salda tra le chiese. Il fondamento delle azioni del Papa era religioso e dottrinale, ma non politico, mentre, nonostante la pubblica retorica, gli Stati Uniti e il Regno Unito combattevano una lotta geopolitica e geostrategica. Più di una volta leaders dei due Paesi dichiararono che essi stavano affrontando l’Unione Sovietica, non il comunismo in quanto tale, oppure lo stalinismo, non il comunismo.

Certamente vi furono comunque importanti convergenze in alcuni momenti chiave. Ad esempio, un passaggio del messaggio natalizio del 1948 fu interpretato come un avallo alla costituenda alleanza Atlantica. In effetti, il Papa approvò implicitamente il concetto di deterrenza, dicendo: «la […] difesa contro la ingiusta aggressione è senza dubbio pienamente legittima. A questa difesa è tenuta anche la solidarietà delle nazioni, che ha il dovere di non lasciare abbandonato il popolo aggredito. La sicurezza che tale dovere non rimarrà inadempiuto, servirà a scoraggiare l’aggressore e quindi ad evitare la guerra, o almeno, nella peggiore ipotesi, ad abbreviarne le sofferenze».

In precedenza, nello stesso messaggio, il Sommo Pontefice aveva criticato due posizioni opposte «alcuni riprendono l’antico detto, non del tutto falso, ma che si presta ad essere frainteso e di cui si è spesso abusato: “si vis pacem, para bellum”: se vuoi la pace, prepara la guerra. Altri credono di trovare la salvezza nella formula: pace a tutti i costi! Ambedue le parti vogliono la pace, ma ambedue la mettono in pericolo; gli uni, perché destano la diffidenza; gli altri, perché incoraggiano la sicurezza di chi prepara l’aggressione»

Nel 1955, l’anno che vide la prima “distensione” tra I due blocchi, la diplomazia britannica sottolineò che la Santa Sede era preoccupata che l’Occidente abbassasse la guardia e si preoccupava di notare spesso che non vi era stata alcuna attenuazione delle persecuzioni religiose in Europa orientale. Nel suo messaggio natalizio, il Papa disse: «il Nostro programma di pace non può approvare una indiscriminata coesistenza con tutti ad ogni costo — certamente non a costo della verità e della giustizia».

D’altro canto, alla diplomazia britannica, piuttosto incline a considerare il Vaticano semplicemente come uno Stato, la Santa Sede appariva troppo attenta a mantenere una neutralità formale in politica internazionale. Nel 1947 un funzionario del Foreign Office commentò che le azioni del Papa non erano sempre all’altezza di quanto egli prometteva nei suoi discorsi e si chiese se le cose non avrebbero potuto cambiare se il Cardinale Spellman, l’Arcivescovo di New York, fosse stato nominato segretario di Stato.

Nel suo rapporto annuale per il 1951, il ministro plenipotenziario britannico presso la Santa Sede rilevò che mentre non vi era dubbio che la Chiesa fosse allineata con l’Occidente nella lotta contro il comunismo, allo stesso tempo il Vaticano era attento a non schierarsi nel conflitto politico.

Il rapporto annuale per il 1958 incluse un ritratto finale e assai lusinghiero di Pio XII. In particolari, con riferimento al Regno Unito ed agli Stati Uniti, si sottolineava che «uno dei risultati del suo regno era una diminuzione dei pregiudizi che i protestanti di questi due Paesi un tempo nutrivano verso la Chiesa di Roma […] con la scomparsa del suo spirito gentile ed elevato l’Inghilterra ha perso un amico sincero».

È noto che nell’agosto 1939 nell’imminenza dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Pio XII pronunciò la frase famosa «nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra», come sempre attentamente meditata. Tutto l’insegnamento di Pio XII si inserisce pienamente nella plurisecolare riflessione cattolica sulla pace e la guerra giusta. Come ebbe a dire nell’allocuzione del 15 settembre 1952 al movimento Pax Christi: «la Chiesa deve tener conto delle potenze oscure che hanno sempre operato nella storia. Questo è anche il motivo per cui essa diffida di ogni propaganda pacifista nella quale si abusa della parola di pace per dissimulare scopi inconfessati».

Concludo con un ritratto di Pio XII tra i più belli. Un grande statista aveva incontrato un grande Pontefice. Così il Generale Charles de Gaulle ricorda nelle memorie la sua udienza, il 30 giugno 1944, con il Sommo Pontefice: «Il Santo Padre mi riceve con semplicità e benevolenza; ma rimango colpito della sensibilità e della potenza del suo pensiero. Pio XII giudica ogni cosa da un punto di vista superiore agli uomini, alle loro imprese e ai loro contrasti ma conosce le sofferenze che ne derivano e partecipa ai dolori di tutti. Si sente che l’incarico soprannaturale, di cui solo al mondo è investito, grava sulla sua anima […] Pio, pietoso, politico nel senso più elevato di questi termini: così mi appare, attraverso il rispetto che m’ispira, questo Pontefice, questo sovrano». Non avrebbe certo ricordato così Pio XII se lo avesse considerato filo-tedesco.