Tratto da Don Milani, un cattivo maestro (marcelloveneziani.com)

di Marcello Veneziani

È cominciato in anticipo e in modo imbarazzante il ricordo di don Lorenzo Milani, il mistico parroco della Barbiana, a cinquant’anni dalla sua morte.

È cominciato sull’onda di un libro assai controverso di Walter Siti, Bruciare tutto, dedicato a don Milani. È un libro che racconta la storia di un prete pedofilo. La dedica in un primo tempo sembrava non avere alcuna attinenza col tema scabroso del libro.

E invece è lo stesso Siti a dichiarare a la Repubblica: “Ho creduto che don Milani assomigliasse al mio prete pedofilo”. E appoggia la sua convinzione su alcuni passi inquietanti delle sue lettere, certo colti fuori del loro contesto, ma terribili nei loro accenni ad atti di libidine trattenuti verso i ragazzini.

Non è di questo però che vorrei parlarvi, perché non amo i processi alle intenzioni, sortiti da mezze frasi; preferisco giudicare un uomo dall’intera sua personalità, vita e attività e non per un suo pur inquietante risvolto, che peraltro stride troppo con la testimonianza di chi lo ha conosciuto e amato.

Di don Milani ho il rispetto che si deve agli idealisti in buona fede; ma insieme nutro la diffidenza che si deve al loro devastante idealismo, alla loro generosa e nociva utopia. Si, perché furono negativi gli effetti delle sue buone intenzioni in termini di educazione, scuola e morale.

Altri idealisti in buona fede contribuirono in quegli anni a gettare le basi del nostro presente (gettare le basi qui sta per gettarle davvero, sostituendole col nulla); ad esempio l’anti-psichiatra Basaglia che animato dal benevolo furore di liberare i pazzi dai manicomi e dalla follìa che riteneva frutto dei muri ospedalieri, mise i pazzi in mezzo alla strada, gettando nella disperazione loro e i loro famigliari.

Pannella, che ingaggiò con la sua pattuglia radicale tante battaglie animate da fervore ideale, che produssero una società più bastarda ed egoista, permissiva e mortifera, in forma di aborto, droga e suicidi, più contorno di trans e omo.

Tutti idealisti, persone di qualità, in buona fede, convinte di liberare l’umanità e migliorarla. Tra loro spicca don Milani. Che per giunta era prete, praticava la carità, si dedicava ai ragazzi con tutto il cuore, agiva nella Firenze dei La Pira, don Balducci e don Turoldo, ed è morto pure giovane. Lasciando a noi posteri i danni effettivi della sua amorosa utopia.

Don Milani sognava una scuola non dei ricchi ma di tutti, con il professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Nobili intenzioni, ma spostiamoci sugli effetti.

La scuola di oggi che onora don Milani e non certo il modello della scuola di Gentile, fa assai più schifo della scuola di allora; la scuola che non premia i meriti e le capacità, che non seleziona e non è fondata sull’autorevolezza del docente, prepara sempre meno alla vita, non educa, non migliora i ragazzi e non suscita spirito di missione nei docenti; non produce alunni più liberi ed uguali ma più bulli e prepotenti.

È una scuola che non ha ridotto le distanze tra ricchi e poveri ma le ha ingigantite; perché allora gran parte dei benestanti mandavano i loro figli nelle scuole pubbliche; ora invece li mandano alle private. La selezione non era classista ma il contrario, perché faceva risaltare le capacità personali, il valore, rispetto alla provenienza e all’appartenenza.

Se togli i meriti resta il censo, resta quel che ti dà la famiglia. Al mio liceo il preside era figlio di contadini e da ragazzo faceva il contadino pure lui; e il professore di lettere era figlio di trovatelli. Grazie alla loro tenacia e alla loro capacità, si erano fatti strada; il latino per loro non era una forma di oppressione di classe, come sostenevano gli allievi di don Milani, ma un mezzo per emanciparsi, persino un mezzo di rivalsa rispetto ai ricchi, pigri, incolti e viziati, i signorini insoddisfatti o i leopardiani annoiati – le due definizioni sono di Ortega y Gasset e Antonio Labriola – che non erano abituati alla fatica perché avevano una rendita di posizione.

La selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto, la loro affermazione. I seguaci di don Milani chiesero di abolire i grembiuli, ritenuti strumenti di oppressione e di irreggimentazione; e così sono risaltate le differenze di classe tra i figli griffati della classe agiata e i poveracci di borgata.

La conoscenza della lingua italiana era un modo per uscire dalla loro origine umile e contadina e integrarsi. La valorizzazione del dialetto e del gergo quotidiano, che voleva don Milani, invece li restituisce alla loro condizione di partenza e al turpiloquio delle periferie degradate. Se ha prodotto un livellamento è stato verso il basso, nel senso che anche i figli di papà hanno cominciato a usare il turpiloquio sgangherato della tv e delle borgate.

La fine delle bocciature ha coinciso con la fine della meritocrazia, così si va avanti più di ieri per affiliazione, se si è figli o protetti dai potenti. La fine della leva obbligatoria, come sognava don Milani, ha prodotto la fine di uno dei pochi luoghi di socializzazione in cui i terroni convivevano coi polentoni, i ricchi con i poveri, ed ha eliminato pure gli obiettori di coscienza che servivano proprio ai preti per aiutare i malati, gli invalidi e gli anziani.

E il professore che un tempo godeva di prestigio e autorevolezza, è stato ridotto al rango di un poveraccio, a metà tra l’animatore di villaggio e la colf, o nel migliore dei casi l’istruttore di palestra e scuola guida. E’ sceso nella scala sociale, fino a costituire un antimodello, ciò che i ragazzi non vogliono diventare. E tutto questo mentre il prof. per due terzi è femmina.

Insomma la brutta scuola d’oggi è figlia dei begli ideali di ieri. Lo dico anche all’amico Franco Cardini che elogia sempre don Milani. Franco, avevi ragione da ragazzo, quando a Firenze preferisti a don Lorenzo Attilio Mordini, cattolico della tradizione, morto anche lui a 43 anni, l’anno prima di don Milani. Mordini capì che la scuola senza educazione, tradizione e meritocrazia non ha più un ruolo e a farne le spese sono più i poveri che i benestanti.

Vorrei che don Milani fosse riconosciuto per la sua forte personalità e la sua grande idealità ma fosse riconosciuto come un cattivo maestro. A giudicare dai frutti, non dalle intenzioni.

Non un maestro cattivo, ma un cattivo maestro.

MV, Il Tempo 23 aprile 2017