di Cumas

III – I CATTOLICI ALLA RISCOSSA

In Italia furono i cattolici i primi a guidare la rivolta.

Cattolici i primi due atenei occupati nell’anno accademico ’67 – 68: a Trento e a Milano. Cattolici, o perlomeno di formazione cattolica, tutti i primi leader della contestazione: Renato Curcio, Marco Boato, Mauro Rostagno, Nello Casalini (entrato poi nell’ordine dei Frati Minori), Francesco Schianchi, Luciano Pero. Lo stesso Mario Capanna: scrivono Primo Moroni e Nanni Balestrini che nel ’67 Capanna preparò «un trattato di 70 cartelle per convincere la propria ragazza che i rapporti sessuali prematrimoniali sono compatibili con l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino».

E ancora, cattoliche le origini di «Lavoro Politico», rivista nata nel ’62 a Verona su iniziativa di Walter Peruzzi e punto di riferimento per il movimento trentino.

Ed è pubblicato addirittura da un prete, don Lorenzo Milani, il libro più letto nel 1968 durante le occupazioni: Lettera a una professoressa, scritto dagli alunni della scuola di Barbiana di Vicchio Mugello, in provincia di Firenze. Questo libro, ha sostenuto l’ex leader di Lotta continua Guido Viale, «eserciterà un’influenza decisiva durante tutti gli anni del movimento». I professori Carlo Oliva e Aloisio Rendi, dopo essersi definiti «militanti radicali» ed «extraparlamentari», scrissero allora che il libro di don Milani era, «purtroppo», «l’unico manifesto di lotta contestativa nel mondo politico italiano».

IL «MANIFESTO» DI DON MILANI

Quando Lettera a una professoressa cominciava a girare fra le università occupate e ad assurgere al rango di libro sacro della contestazione studentesca, il suo ispiratore non c’era già più.

Don Milani era morto il 26 giugno 1967, a soli quarantaquattro anni. Diventò subito una sorta di mito delle sinistre, che gli affibbiarono tutti gli stereotipi riservati ai sacerdoti che si mettono contro la Chiesa: «prete scomodo», «prete ribelle» e soprattutto «profeta». Della tensione religiosa, della sete di assoluto che don Milani certamente aveva (era un ebreo battezzato durante le leggi razziali, un non credente che all’improvviso entrò in seminario con tutto il radicalismo evangelico del convertito), alle sinistre non importava pressoché nulla. Importavano invece gli attacchi che questo prete aveva portato alla gerarchia della Chiesa. Tutto ciò che don Milani diceva e scriveva veniva puntualmente sfruttato dal Pci, fino a consolidare un rapporto imbarazzante. Nel 1965 papa Paolo VI, nel mandare un’offerta in denaro alla scuola di Barbiana, pregò il latore di «far notare delicatamente a don Lorenzo l’inopportunità di scrivere articoli su “Rinascita”», rivista, appunto, del Pci.

A Barbiana, don Milani era arrivato nel 1954, dopo essere stato allontanato da San Donato di Calenzano. Un trasferimento che ebbe un peso determinante nella sua posizione nei confronti della Chiesa. La Curia, disse, «è un ente che vive delle sole informazioni di calunniatori, spie, adulatori». All’arcivescovo di Firenze, il cardinale Ermenegildo Florit, riservò accuse pesantissime («Un deficiente indemoniato»). Scrisse nel 1964 al suo confessore, don Bensi: «Lei, poi, sa bene che il comportamento della Curia verso di me… è semplicemente criminale. (…) Il vescovo e il vicario non sono atei come pare, ma solo pazzi, non son venduti come pare, ma solo deficienti».

Anche il patriarca di Venezia Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, reagì con preoccupazione alle iniziative di questo sacerdote destinato a diventare uno degli ispiratori della rivolta studentesca. Nel 1958, quando uscì Esperienze pastorali, il primo libro di don Milani, Angelo Roncalli scrisse al vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi: «Ha letto, Eccellenza, la “Civiltà Cattolica” del 20 settembre circa il volume Esperienze Pastorali? L’autore del libro deve essere un pazzo scappato dal manicomio. Guai se si incontra con un confratello della sua specie. Ho veduto anche il libro. Cose incredibili».

E così, da questo prete sceso in guerra contro la gerarchia, e affascinato dall’altra grande fede del tempo, il comunismo, venne nel 1968 il manifesto dell’antiscuola. Lettera a una professoressa contestava il ruolo dei docenti e la loro autorità, chiedeva l’abolizione della bocciatura, accusava di classismo l’intera scuola. «Era» ha scritto Alcide Cotturone su «Studi Cattolici» in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di don Milani, «una specie di libretto di Mao, dove erano concentrati odio di classe, populismo, proletarismo, operaismo, demagogia, violenza ideologica e l’istigazione al linciaggio dei professori. Il manicheismo pauperistico portò don Milani a quest’affermazione antievangelica: “Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare solo una classe”.» Opinioni da conservatore, quelle di Cotturone? Non si direbbe, visto che anche Pier Paolo Pasolini la pensava nella stessa maniera. Intervenendo nel 1968 a un dibattito, disse agli animatori della scuola di Barbiana: «La vostra posizione è più simile al maoismo che alla nuova sinistra americana… più simile alle posizioni delle Guardie Rosse».

RIVOLTA ALL’ISOLOTTO

E se il libro di don Milani fu una sorta di bibbia del contestatore, un altro caso destinato, in quel 1968, ad alimentare tensioni e proteste fra i cattolici fu quello di don Enzo Mazzi. Don Mazzi, figlio di operai, era il parroco dell’Isolotto, uno dei quartieri più poveri di Firenze, popolato da manovali, emigrati del Sud, profughi dell’Istria e della Grecia. Vi fu mandato a fare il parroco nel 1954 dal cardinale Elia Dalla Costa. Il quartiere era nuovo, la chiesa non c’era e don Mazzi cominciò a dir messa in una baracca di legno. Riuscì a coagulare intorno a sé una comunità vivace e anche numericamente significativa.

I guai cominciarono il 22 settembre 1968, quando nella chiesa parrocchiale dell’Isolotto venne distribuito un volantino in cui si esprimeva solidarietà nei confronti di coloro che, otto giorni prima, avevano occupato il Duomo di Parma. Il volantino, condiviso da don Mazzi, era indirizzato anche al papa e al vescovo di Parma.

Si diceva, in quel documento, di «concordare pienamente» con la scelta dell’occupazione del Duomo: un’occupazione decisa in segno di protesta contro l’accettazione, da parte del vescovo di Parma, di un contributo offerto da una cassa di risparmio per la costruzione di una nuova chiesa in città. La Chiesa, diceva il volantino, non poteva accettare quel contributo, e doveva fare «una scelta discriminante fra coloro che sono dalla parte del Vangelo dei poveri e coloro che servono due padroni, Dio e il denaro».

Ma la solidarietà nei confronti dei «cattolici del dissenso» di Parma era solo l’occasione per esprimere considerazioni più generali: «Viviamo in una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi, i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia. (…) Il Papa, i vescovi e spesso anche i sacerdoti e i laici più qualificati sono ricolmi di onori, di potere, di prestigio, di privilegi, di amicizie influenti, di cultura e in ultimo anche di beni».

L’arcivescovo di Firenze, l’allora sessantasettenne Ermenegildo Florit, un friulano di famiglia contadina, il 30 settembre scrisse a don Mazzi chiedendogli di ritrattare la lettera-volantino, e dandogli un mese di tempo «per riflettere».

Ma a don Mazzi si contestava anche -e forse soprattutto- un catechismo da lui preparato e pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina, Incontro a Gesù. Florit invitò il parroco dell’Isolotto a correggere le «deviazioni dottrinali». Inutile fu la mediazione del Vaticano, e inutili furono anche gli appelli all’obbedienza rivolti a don Mazzi da altri preti che tempo prima erano stati richiamati dalla gerarchia, come don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia. Don Mazzi non ritrattò e non corresse nulla, e fu rimosso dalla parrocchia. Furono centotré, nella sola diocesi fiorentina, i preti che firmarono un appello di solidarietà nei suoi confronti.

Don Mazzi continuò comunque a dir messa all’Isolotto: non più in chiesa, dove celebrava il nuovo parroco, ma all’aperto, sul sagrato, circondato dai vecchi fedeli. Una messa evidentemente contagiata dall’assemblearismo dell’epoca, secondo il quale non c’era una Verità da ascoltare e da inseguire, ma una verità da decidere autonomamente attraverso il dibattito. Da una cronaca dell’epoca: «Quella sul sagrato è una funzione religiosa in cui si dibattono i temi del giorno, i problemi del quartiere, del Paese, della Chiesa, dei poveri, delle donne e così via. Accanto al prete parlano studenti, casalinghe, operai, sindacalisti. (…) Già all’inizio, con il metodo catechistico dei giovani, negli anni sessanta, l’Isolotto diede inizio a una mezza rivoluzione: si insegnava il Vangelo anche con le parole e gli esempi di Danilo Dolci, Luther King, Malcolm X».

IL PARADISO? QUI E ORA

Molte scintille di quell’«anno dei miracoli» che è considerato il 1968 vennero dunque da uomini e ambienti del cosiddetto mondo cattolico.

Si pensa che ciò sia dovuto alla naturale propensione del cattolico a cercare la giustizia, a eliminare le diseguaglianze tra gli uomini e a cercare il «Regno di Dio».

Ma se tanti cattolici decisero di scatenare la protesta, non fu per una naturale conseguenza della loro fede, bensì -al contrario- per le conseguenze di una crisi di fede. Una crisi di fede collettiva, che investì buona parte della Chiesa negli anni del post­Concilio; una crisi di fede esplosa nel momento in cui la secolarizzazione stava trasformandosi da fenomeno di élite a fenomeno di massa.

Non è un caso se il prestigioso Almanacco Letterario Bompiani, tradizionalmente dedicato a questioni di stretta attualità, nell’edizione del 1969 (e quindi incentrata sui fatti dell’anno precedente, il 1968) fu intitolato L’inquietudine religiosa. E non è un caso se il primo capitolo di quel volume aveva per titolo La secolarizzazione.

Dal 1965, ossia dalla fine del Concilio Vaticano II, il numero dei preti si era dimezzato, le vocazioni ridotte a un decimo. Invano la Chiesa cercò di far fronte a questo vero e proprio «8 settembre» infittendo le discussioni sul ruolo dei laici, sul valore del sacerdozio, su come deve vestire il prete, sulla liturgia. Il punto era un altro: la fede nella divinità di Gesù -anzi, nella stessa esistenza di Dio- non era più un fatto scontato, una realtà comunemente accettata.

Fu allora che una grande massa di cattolici passò dalla fede nel Figlio dell’Uomo alla fede nell’uomo. E cercò di darsi una giustificazione «orizzontalizzando» la prospettiva di fede. Pensò che il cristianesimo non fosse tanto credere nella Trinità, nella resurrezione e nella vita eterna: ma darsi da fare per il povero, per l’handicappato, per l’operaio.

Questo passaggio dalla dimensione «verticale» della fede a quella «orizzontale», o meglio, questo privilegiare l’aspetto orizzontale rispetto a quello verticale, è testimoniato dalle scelte di quasi tutti i cattolici che si posero alla guida della contestazione.

Don Enzo Mazzi spiegò in un’intervista: «Per certa teologia il battesimo è lo strumento per togliere il peccato originale e per donare la grazia. Noi (…) cerchiamo di donargli un significato attuale, un contatto con i bisogni reali del bambino. Quali sono? Che abbia la sua dignità nella società, che venga considerato un essere umano dotato di diritti, che possa usufruire di strutture umane, sociali e anche materiali che gli permettano di crescere nella libertà e nell’autonomia, di non essere represso e di crescere attraverso uno sviluppo di tutta la sua personalità. Battezzare per noi significa, più che togliere il peccato individuale, togliere un peccato sociale…».

Ecco perché il «timbro» cattolico alla contestazione è più apparente che reale. Non furono tanto i cattolici, quanto gli ex cattolici (o comunque i cattolici condizionati dalla confusione del post-Concilio) a dare un’impronta al Sessantotto, e a rimanere a loro volta condizionati e travolti dal Sessantotto stesso.

Fu proprio adottando uno dei più famosi slogan del tempo -«Qui e ora»- che tanti cattolici rinunciarono a proiettare nell’eternità la speranza cristiana, e si adoperarono per costruire subito, in questa vita e su questa terra, il paradiso.

E questo progetto non poté che finire con l’abbraccio con l’ideologia del momento -della quale parleremo più avanti-, al punto da far nascere una nuova dottrina, ricordata come «cattocomunismo».

IL CATTOCOMUNISMO

«Cattolicesimo del dissenso» e «cattocomunismo» sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Perlomeno, nell’Italia -e, più in generale, nel mondo occidentale- degli anni Settanta. Il cattolico del dissenso era uno che contestava la gerarchia e il magistero, e che al tempo stesso credeva fosse possibile -anzi, doveroso- adeguarsi, almeno in politica, alla dottrina comunista.

Fu, quello, un fenomeno che investì fortissimamente gli stessi vertici ecclesiali. Si pensi – è solo un esempio, anche se ai più oggi sembrerà incredibile- che l’infatuazione fu tale che nel messale ufficiale della Conferenza episcopale francese, il Missel des dimanches, a pagina 139 fu inserito in quegli anni Karl Marx fra i nomi di cui i cattolici devono fare memoria. E così il 14 marzo, giorno della morte -e quindi, per la Chiesa, dies natalis, giorno della nascita alla vera vita- la Chiesa francese invoca, fra i tanti santi e beati del giorno, anche colui che è definito dallo stesso messale «il fondatore del comunismo».

In Italia il primo testo-base del cattocomunismo fu Marxismo e cristianesimo, libro scritto nel 1966 da don Giulio Girardi, un salesiano che insegnava all’università del suo ordine. Girardi sosteneva che marxismo e cristianesimo erano entrambi riconducibili allo stesso ideale umanitario di libertà, e che fosse necessaria una lotta comune per il rovesciamento della società capitalistica. Per questa lotta, sosteneva Girardi, il marxismo offriva irrinunciabili strumenti scientifici. Nel 1969 fu allontanato dall’Università Salesiana. Si fece poi assumere dalla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), sciogliendo definitivamente il suo legame con la Chiesa.

Ma grande importanza, nel cattolicesimo del dissenso, ebbe anche «Testimonianze», rivista fondata e diretta dal padre scolopio Ernesto Balducci. E altri personaggi di spicco di quel mondo sono stati Mario Gozzini e Raniero La Valle, che a metà degli anni

Settanta vennero eletti in Parlamento, come indipendenti di sinistra, nelle liste del Pci. Non erano certo emarginati, questi personaggi, dalla nomenklatura ecclesiale. Gozzini ebbe un ruolo significativo nella redazione del catechismo per adulti della Conferenza episcopale italiana, Signore, da chi andremo?. La Valle era stato direttore del quotidiano cattolico bolognese «Avvenire d’Italia», che diede poi origine, con la fusione con «L’Italia» di Milano, al quotidiano dei vescovi «Avvenire». E fra i cattolici del dissenso – a dimostrazione del loro peso nella Chiesa di quegli anni- va annoverato pure qualche vescovo, come monsignor Luigi Bettazzi, di Ivrea, che volle come collaboratrice teologica un’altra nota «contestatrice», Adriana Zarri.

Ma forse il personaggio più rappresentativo della sterzata a sinistra della Chiesa, in quegli anni, è il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal ’65 al ’77. In quei dodici anni la diocesi torinese fu la vera Mecca del cattolicesimo del dissenso. Lì trovarono ospitalità tutti coloro che si erano scontrati con la gerarchia a causa della loro simpatia per il comunismo, come lo stesso don Girardi.

Pellegrino era un intellettuale, un prete che della vita di parrocchia -e quindi del comune «popolo di Dio»- non aveva esperienza, essendo passato direttamente dal seminario all’università, e dall’università, a sorpresa, direttamente alla cattedra di una delle diocesi più importanti del mondo. Quando fu nominato, infatti, Pellegrino insegnava letteratura cristiana all’Università di Torino: un noto patrologo, un uomo di cultura, ormai già ultrasessantenne, che pareva destinato, quindi, a proseguire la sua vita da studioso. Per questo, quando Paolo VI lo nominò, furono in molti a stupirsi.

Applicò risolutamente il Concilio, o meglio ciò che lui pensava fosse il Concilio. Era convinto che si fosse arrivati a una svolta epocale, e non esitò -in ossequio al rinnovamento, al cambiamento, alla modernizzazione- a prendere decisioni traumatiche per i fedeli. Ritenendo che la Chiesa non dovesse avere nulla a che spartire con il Capitale, ordinò il ritiro dei cappellani dalla Fiat, e l’abolizione dei pellegrinaggi a Lourdes che da anni mobilitavano migliaia di operai.

Soprattutto, giunse a bloccare -in una diocesi che, con Napoli, vantava il primato mondiale di santi e beati- tutti i processi di beatificazione in corso, fra cui quelli di Francesco Faà di Bruno e Piergiorgio Frassati, che solo anni dopo -e con altri vescovi- poterono salire agli altari della Chiesa. Forse, si credeva allora che proclamare la santità di un cristiano fosse un gesto «poco ecumenico», e urtasse i fedeli delle altre religioni.

Fu lui, Pellegrino, a scrivere alla metà degli anni Settanta quello che viene considerato il vero documento ufficiale -perché firmato nientemeno che da un cardinale- del cattocomunismo italiano, la lettera pastorale Camminare insieme, che non a caso fu stampata e diffusa gratuitamente dalla giunta di sinistra di Torino. Quella giunta capeggiata da Diego Novelli che, molti anni dopo, verrà travolta dal «caso Zampini», una storia di mazzette che può essere considerata come una Tangentopoli ante litteram.

Il cardinal Pellegrino -ma lui si faceva chiamare «padre», rifiutando ogni titolo onorifico- si dimise, in anticipo, nel ’77, e Paolo VI, che pure l’aveva voluto, si affrettò ad accettare quelle dimissioni. Fosse o no dipeso dalle scelte pastorali di questo discusso arcivescovo, la diocesi torinese era passata, in quei dodici anni, da uno stato di eccezionale fecondità (quanti santi, a Torino, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento!) a una drammatica situazione di crisi. L’apertura al comunismo non aveva provocato conversioni nelle fabbriche -dove, anzi, molti operai protestarono per certe scelte come il ritiro dei cappellani- e aveva, al contempo, intaccato quel patrimonio tutto torinese rappresentato dal cattolicesimo sociale di san Giovanni Bosco e san Leonardo Murialdo, e dal cattolicesimo liberale nato col Risorgimento. Fu allora che Torino cominciò ad essere una delle città con il più basso indice di pratica religiosa.

Si pensi che nel 1965 i giornali «La Voce del Popolo» (settimanale diocesano torinese) e «Il Nostro Tempo» (settimanale della intellighenzia cattolica di Torino) avevano toccato – dopo anni di crescita continua- la punta più alta della loro diffusione, arrivando rispettivamente a 16.000 e a 10.000 copie. Bene: nel 1973, dopo otto anni dalla fine del Concilio e dall’arrivo di Pellegrino, «La Voce del Popolo» era scesa a poco più di 9000 copie, e «Il Nostro Tempo» a meno di 6000. Complessivamente, insomma, i due settimanali cattolici torinesi erano passati dalle 26.000 copie del 1965 alle 15.000 del 1973. E si tenga presente che tra il 1953 e il 1973 la popolazione di Torino era raddoppiata.

E, questo sulla diffusione dei giornali cattolici, un dato certamente limitato a un fenomeno particolare, ma sicuramente esemplare di tutta la situazione. Del resto, lo stesso Pellegrino riconobbe il fallimento, pur consolandosi con una citazione di sant’Agostino: «Quanti che sembrano essere fuori sono dentro; quanti che sembrano essere dentro in realtà sono fuori».

La caduta della pratica religiosa nella città-laboratorio del dissenso cattolico [Torino] dimostra, in fondo, che quei tentativi di rendere più «moderno» il cristianesimo, e magari di farlo sposare con il marxismo, non riuscirono mai a conquistare il popolo, la massa dei fedeli. Certe ardite teologie, certe «concessioni» al nuovo, rimasero perlopiù un’elaborazione di pochi intellettuali, che non scaldarono il cuore della gente semplice -i credenti più autentici, secondo il Vangelo- e oltre tutto ebbero l’effetto di spaccare in due il clero. Pellegrino, ad esempio, non solo non fece proseliti fra i laici, ma si inimicò gran parte dei suoi preti, fra i quali girava allora la battuta velenosa secondo cui l’arcivescovo «parlava come un comunista, comandava come un fascista e viveva come un liberale». Di fronte a una Chiesa divisa e litigiosa -a Torino e altrove- i credenti non poterono far altro che aspettare che i preti si mettessero d’accordo fra di loro: e, nell’attesa, si misero «in sonno», disertando le parrocchie.

Il crollo nella frequenza testimonia anche che la contestazione di certo clero non ha creato, come si sperava, dei «cristiani adulti», ma degli agnostici; non ha creato una «Chiesa aperta», ma una Chiesa vuota.

DALLA PARROCCHIA AL PARTITO

Il tentativo di far incontrare cristianesimo e marxismo ebbe, ovviamente, effetti pratici nell’impegno e nelle scelte dei cattolici in politica.

S’è detto dell’elezione di La Valle e Gozzini nelle liste del Pci, quali indipendenti di sinistra. Non furono casi isolati, decisioni personali. Gran parte del mondo cattolico fu attirato, in quegli anni, dalla sinistra. E non sembri, questa, una contraddizione con quanto detto prima sulla scarsa «presa» che il cattocomunismo ebbe sulla gente comune: i cattocomunisti, infatti, erano «già» militanti del mondo cattolico; non erano ex agnostici o ex comunisti affluiti, grazie alla nuova dottrina, nelle organizzazioni cattoliche. Vogliamo dire che il cattocomunismo ingrossò le file dei marxisti, ma non fece nessun nuovo cattolico praticante. Molti cattolici, insomma, si fecero ammaliare dal comuniSmo, fino a scavalcare a sinistra i vecchi compagni e fino -non di rado- a perdere la fede. Ma non risultano casi di percorsi inversi, cioé di comunisti che, in quegli anni, tornarono in chiesa per merito del cattocomunismo.

Si pensi -può essere indicativo- alla sorte che ebbe la Cisl, il sindacato tradizionalmente cattolico, quando si unì nella Triplice con i due sindacati «rossi», Cgil e Uil. Mai s’è avuta notizia, almeno per quanto riguarda le decisioni dei vertici, di una differente strategia della Cisl rispetto ai soci di ispirazione comunista e socialista; mai la Cisl ha preso deliberazioni tali da porsi in contrasto con Cgil e Uil per ribadire la sua identità cattolica. L’unione dei tre sindacati ha portato a un appiattimento in cui l’unica idea forte e visibile era quella di sinistra.

Il caso più eclatante di impegno politico a sinistra è forse quello delle Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori. Nate nel ’45 su iniziativa di Pio XII per controbilanciare l’influenza dei comunisti nelle fabbriche, le Acli avevano perlopiù un compito formativo e ricreativo. Nel ’59 potevano contare su un milione e mezzo di aderenti, e il loro giornale, «Azione sociale», era uno dei più diffusi periodici italiani. Negli anni Sessanta, gli aclisti divennero ufficialmente una corrente della Dc, chiamata «Rinnovamento».

Ma ecco il vento del Sessantotto a ribaltare tutto. Al congresso di Torino del 1969 le Acli proclamarono «la fine del collateralismo» con la Dc, e ruppero ogni legame con il partito; l’anno dopo, 1970, arrivò «l’opzione socialista». Livio Labor, presidente delle Acli dal 1961, abbandonò l’organizzazione e fondò allora il Mpl, Movimento politico dei lavoratori: una formazione che voleva diventare il punto di raccolta, in politica, dei cattolici del dissenso, e che ebbe però vita breve, non riuscendo ad avere i consensi elettorali sperati.

La reazione della Chiesa, almeno per una volta, sembrò decisa. La Cei, Conferenza episcopale italiana, negò alle Acli il diritto di proclamarsi «movimento cristiano»; nella primavera del ’71, poi, la Santa Sede le sconfessò ufficialmente. Il risultato fu una scissione, e 300.000 aclisti fondarono il Mcl, Movimento cristiano dei lavoratori. I 500.000 che rimasero nelle Acli, sotto la presidenza di Emilio Gabaglio, nel febbraio del ’72 al congresso di Cagliari ribadirono la «scelta di classe», opponendosi all’interclassismo della Dc. Chiesero la fine del sistema capitalistico, l’autogestione e la proprietà socialista dei mezzi di produzione. Nel ’74, al referendum sul divorzio, la maggioranza delle Acli si schierò a favore della libertà di scelta politica: non obbedì, quindi, al richiamo della gerarchia.

Un altro movimento di cattolici di sinistra fu quello dei Cps, Cristiani per il socialismo. Nacquero, in realtà, non in Italia ma in Cile, nel ’71, come gruppo d’appoggio al governo di Allende. Da noi arrivarono nel ’73, precisamente in settembre, quando a Bologna si tenne il convegno che ne sancì la costituzione. Aderirono la sinistra delle Acli e la Cisl. Uno dei leader fu proprio quel don Giulio Girardi che -lo abbiamo visto- vanta una sorta di paternità del cattocomunismo italiano. Padre Balducci e il cardinale Pellegrino furono simpatizzanti, ma non esplicitamente. Aderì, invece, senza esitazioni, dom Giovanni Franzoni.

UN ABATE NEL PCI

Dom Giovanni Franzoni era un monaco benedettino, abate della basilica di San Paolo fuori le Mura, una carica equiparata a quella di vescovo. Contestò la proprietà privata e si schierò, all’epoca del referendum, a favore della legge sul divorzio. Nel 1974 fu sospeso a divinis.

«Per anni» si legge sull’«Osservatore Romano» del 3 maggio 1974, «egli ha rimproverato alla Chiesa di essere supporto del sistema capitalistico e di ispirarsi a modelli di potere oppressivo, contrapponendovi l’immagine di una Chiesa utopistica, vagamente carismatica, ma impegnata nella lotta di classe di ispirazione marxistica. Venne così a concepire una Chiesa a sfondo prevalentemente sociale, oppure con caratteristiche soltanto spiritualistiche, astratte e soggette al relativismo morale e religioso, secondo il mutare dei tempi … »

Fu ridotto allo stato laicale il 2 agosto 1976, dopo essersi pronunciato a favore anche della legalizzazione dell’aborto e dopo aver pubblicamente (con un articolo sulla rivista «Com-Nuovi Tempi») fatto dichiarazione di voto per il Pci. Il cardinal Poletti gli scrisse una lettera affettuosa, dicendogli: «Oggi molti forse ti applaudono, ti invitano a resistere. Sei molto più sulla strada della pubblicità umana che dell’umiltà evangelica! Ma verranno anche per te i giorni della delusione, della prova, della solitudine. Sarai allora veramente “un povero” e potrai sempre ritornare, se rinnovato nel cuore, con umiltà e fiducia alla casa del Padre, dove il Papa e molti fratelli ti aspettano e ti riceveranno con gioia. Tra i fratelli spero di esserci anch’io che, oggi come sempre, cerco di capirti e che, anche nella dura correzione, prego per te».

Nel novembre del 1988 dom Franzoni si è iscritto al Pci. Nell’aprile del 1990 si è sposato -a Tokio, con rito civile- con l’interprete giapponese Yukiko Ueno.

TEOLOGI «D’AVANGUARDIA»

La contestazione non toccava certo le sole scelte politiche. Furono, per la Chiesa, anni di confusione generale. Le basi stesse della fede, come abbiamo detto, erano messe in discussione: fiorirono catechismi che solo pochi anni prima sarebbero stati considerati eretici, e la stessa liturgia fu rivoluzionata, in un ribaltone di cui la messa con le chitarre e certe eucarestie con cibi «alternativi» non furono che l’aspetto più folcloristico.

La confusione era dovuta in buona parte a teologi del dissenso, a biblisti e a esegeti che – forse temendo che la fede non potesse reggere all’urto della secolarizzazione- scrissero testi poderosi per cercare di adattare il Vangelo alla modernità, alla Ragione, a tutto ciò che insomma contraddistingueva, in quel momento, «il mondo». Libri come il Catechismo olandese, che cercava appunto di conciliare la fede con il razionalismo dell’uomo moderno, sono considerati oggi fra le cause dello sfascio della Chiesa d’Olanda; ma allora erano ritenuti testi d’avanguardia, espressione di un cristianesimo «finalmente» illuminato.

Disse Mario Capanna in un’intervista (al «Resto del Carlino», 25 gennaio 1976) in cui ricordava gli anni all’Università Cattolica: «Ci eravamo ribellati anche al metodo con cui era insegnata teologia, fummo i primi a dire che, oltre ai teologi che si studiavano, ce n’erano altri che andavano approfonditi, i tedeschi e gli olandesi per esempio». Ed evidentemente fu seguendo certi nuovi teologi che lo stesso Capanna poté pensare -come disse nel marzo 1969 alla «Domenica del Corriere»- che «si vive l’esperienza evangelica in ogni momento dell’esistenza, quindi non solo e non necessariamente a messa, ma dovunque, nelle assemblee, ad esempio, picchiando i fascisti … ».

Come molti di coloro che allora dicevano di sapere qual era il modo giusto per vivere il cristianesimo, anche Capanna ha poi abbandonato la fede. Ha spiegato all’«Avvenire» il 31 marzo 1993: «Io ero cattolico e aggiungo che vivevo la dimensione di fede in un modo che posso definire poetico, per nulla dozzinale o fideistico nel senso del trasporto assoluto. E’ stato a seguito delle lotte studentesche, per via di una mia maturazione culturale, filosofica e politica, che mi sono reso conto della infondatezza del credere religioso».

Dice oggi il già citato Paolo Sorbi, cattolico e intellettuale di Lotta continua negli anni della contestazione:

«A quell’epoca avevamo pasticci teologici drammatici, che ci avvicinavano alle posizioni di certe chiese protestanti e che ci hanno portato a scelte sciagurate sul divorzio e sull’aborto.

«La secolarizzazione, alla metà degli anni Sessanta, era ancora patrimonio di alcune élites, non aveva ancora conquistato il “cuore” del popolo italiano. Noi l’abbiamo fatta diventare carne e sangue, modo di vivere quotidiano. Io sono pronto a farmi una doverosa autocritica, ma ci sono fior fiore di certi personaggi, vescovi, teologi, biblisti oggi ben inseriti e ben integrati nelle varie nomenklature clericali, che dovrebbero avere la dignità di fare un passo indietro».

HARAKIRI NELLA CHIESA?

Di fronte al «nuovo» che irrompeva, anche parte della gerarchia della Chiesa, insomma, vacillò.

Ma era proprio necessario, in quel momento, rimettersi in discussione, farsi autocritiche, inseguire la modernità? Ha scritto nel 1978 Emanuele Samek Lodovici: «Che cosa fece il cattolicesimo ufficiale? Inventò la crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura; si sentì coinvolto in una dissacrazione, quella inizialmente scatenata dalla contestazione, nei confronti della quale non aveva nessuna ragione per credersi oggetto. Forse che la tecnologia forsennata, la mercificazione dell’amore, la cultura professorale, la distruzione dei piccoli mestieri, la criminalità, l’abbrutimento pubblicitario, l’infame devastazione della natura, erano un portato o una conseguenza del cristianesimo?».

Nella Chiesa, spiegava ancora Samek Lodovici, «si credette che le urla dei contestatori fossero la vox populi e si trasferì la crisi del pensiero laico all’interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente in crisi. (…) Si scambiò la mancanza di rigore nel riproporre integralmente la dottrina cristiana sulla società, come un atteggiamento di “moderazione”, come un atteggiamento “positivo”; si giustificò il fatto di non dire tutta la verità con il rifiuto che l’interlocutore prestava ad essa. (…) Non si ebbe il coraggio di essere fino in fondo se stessi.»

Non diversamente la pensa oggi il più noto scrittore cattolico italiano, Vittorio Messori: «Ho un terribile sospetto. Se la Chiesa avesse tenuto duro ancora tre-quattro anni, forse invece che travolta dal Sessantotto e messa in un angolo dai contestatori, sarebbe stata riscoperta almeno da una certa ala sessantottina come una sorta di dimensione profetica. «Mi spiego. Il Concilio Vaticano II rappresenta, per certi aspetti, le nozze della Chiesa

con la modernità. Quella Chiesa che per due secoli, vittoriosamente, era stata fedele alla Tradizione, misteriosamente -la Provvidenza è strana- non solo accettò la modernità, ma la sposò con l’entusiasmo del neofita. Eppure, la modernità stava morendo. Nel momento stesso in cui i preti-sociologi dell’Università di Lovanio scrivevano la Gaudium et Spes, cioè scrivevano come la Chiesa doveva porsi di fronte al mondo moderno, in quello stesso momento la modernità era già in agonia, e tre anni dopo sarebbe morta.

«Perché dico che almeno una certa ala sessantottina forse avrebbe trovato ciò che cercava in una Chiesa fedele alla propria Tradizione? Perché noi pensiamo spesso il Sessantotto sotto una lettura modernizzante. Ma in realtà l’anima del Sessantotto è in gran parte tradizionalista. Nel senso che cercò di ritrovare certi valori che la modernità non dava più. Pensiamo ad esempio al fatto che con il Sessantotto nacque un certo ecologismo: nacque cioè il desiderio di un mondo nuovo che non sta davanti, ma sta dietro. Perché il verde, checché se ne pensi, non è un qualcosa di complementare al rosso, ma è il contrario del rosso. Mito del rosso è il progresso, la megalopoli; mito del verde è la conservazione della natura, il villaggio. L’uomo del futuro, per un certo Sessantotto, non è Gagarin, non è l’astronauta, ma è il pastore sardo, è il contadino, l’operaio saggio…

«Il Sessantotto, almeno in parte, fu insomma il tentativo di recuperare una tradizione. Quella Tradizione che la Chiesa fino ad allora aveva tenacemente difeso e che nel 1965 ha abbandonato».

TRAMONTA L’AC, NASCE CL

E a ulteriore dimostrazione del clima da «tutti a casa» che nel 1968 investì la Chiesa, si pensi che la più importante organizzazione laicale del mondo cattolico, cioè quell’Azione cattolica che tanta importanza aveva avuto nei decenni precedenti per quanto riguarda l’impegno dei credenti nella politica e nella società, passò dai tre milioni di iscritti del 1960 a un milione e 657.000 iscritti nel 1970, e infine a soli 635.000 iscritti nel 1975.

Il fenomeno più significativo di resistenza e di reazione a questo sfacelo fu la nascita di Comunione e liberazione, sorta nel 1970, anche se il primo grande convegno pubblico è del 1973. In un momento in cui altri cattolici o abbandonavano la fede o teorizzavano il suo nascondimento, CL coagulò attorno a sé quei cattolici che vollero continuare a essere presenti nella società senza rinunciare -anzi, sbandierandola- all’obbedienza al tradizionale magistero della Chiesa. Molti anni più tardi, alcune delle scelte politiche del Movimento popolare, vale a dire il braccio secolare di CL, sono state molto discusse e criticate anche all’interno del mondo cattolico. Ma è indubbio, e questo nessuno lo contesta, che negli anni del post-Concilio e della contestazione studentesca CL è stata (in Italia) la principale presenza «visibile» dei cristiani nelle scuole e, più in generale, fra i giovani.

Ha detto il suo fondatore, don Luigi Giussani: «Nel ’68-69 noi ci siamo trovati come “fuori casa”. Eravamo in tutte le scuole -eravamo l’associazione più forte presente nella scuola- eppure ci siamo trovati “fuori casa”.

«Perché? Perché il rovesciamento operato dall’ideologia marxista attribuiva alle sue varie formazioni mentali prospettate nel futuro la sola speranza che l’umanità potesse avere. Tutto il resto, vale a dire tutto ciò che non nasceva dall’ideologia marxista nelle sue varie flessioni, non aveva valore, specialmente il cristianesimo.

«”Gioventù Studentesca” -così si chiamava allora il nostro movimento- fu spazzata via da questo momento. Più della metà si affiliò alle sette marxiste. Gli altri rimasero come irrigiditi, intimiditi, e chiusi tra loro. (…) Un giorno, mi pare del 1970, un gruppetto di tre o quattro universitari insorse con un volantino (il primo volantino, per dir così, “controrivoluzionario”); quella volta, forse perché erano in tre o quattro soltanto, non furono picchiati a sangue. Era intitolato «Comunione e liberazione”».

Tratto da: Dieci anni di illusioni. Storia del 68