di Pucci Cipriani

“Il Forteto”, il lager rosso dei pedofili che violentavano e torturavano i ragazzi e Bibbiano, ovvero il sistema che vede coinvolti politici (di sinistra), medici, assistenti sociali, liberi professionisti, sociologi, psicoterapeuti, ingranaggi marci di una “gioiosa macchina da guerra” che toglie i minorenni alle famiglie per darli in affidamento e mandarli in comunità, hanno senz’altro collegamenti con Barbiana, la scuola fondata, appunto da don Milani, nei locali della canonica della parrocchia che si trova sui monti del Mugello

Don Lorenzo Milani (27 maggio 1923 – 26 giugno 1967) nacque da Albano Milani Comparetti e da Alice Weiss in una agiatissima famiglia di origine ebraica, secondogenito, prima di Elena e dopo Adriano; la famiglia viveva tra Firenze, dove aveva la residenza, la villa di Castiglioncello, luogo ameno di “intellettuali” vacanze e la tenuta di Montespertoli (venticinque poderi) con Villa “Gigliola”.

La prima volta in cui Lorenzo ebbe contatto con la scuola pubblica, dopo le scuole dei Barnabiti, fu al Liceo classico Berchet di Milano. Fu studente di scarsa resa, al di sotto della norma, lo attesta il suo diploma con tutti 6 striminziti.

Non si iscrisse all’Università, in forte disaccordo con il padre, e frequentò lo Studio del pittore tedesco Hans Staude, assai sensibile alla cultura orientale e al buddismo. Così ce lo descrive Silvia Ronchey su “Repubblica” del 21 aprile 2017.

«Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali… che si fa traditore del proprio ceto sia degli schieramenti autoritari della propria chiesa, nonché, in seguito di quelli dei partiti… un ebreo non praticante (…) Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze dei fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il Messale Romano: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca di autore?”, scrive diciottenne all’amico Oreste Del Buono.»

La Ronchey parla senza remore della conclamata omosessualità di Milani, tendenza del resto in linea con la sua condizione familiare: attaccamento morboso alla mamma, Alice Weiss… distacco completo da padre, anche lui miscredente e autoritario.

Nel 2017 esce il libro Bruciare tutto dello scrittore di sinistra, vincitore del Premio Strega, Walter Siti: un prete pedofilo, don Leo, si innamora di un bambino ma si trattiene dal desiderio di “farlo suo”… il quale bambino però si uccide per la delusione e il dolore del rifiuto. Dubbio amletico: meglio pedofilo o meglio assassino?

“Ma si scherza?” risponderà subito il lettore buonista preso dai dogmi equosolidali e dalle aperture ecclesiali della “nuova teologia”: “Meglio il rapporto… naturalmente se consenziente…”

Grande clamore l’uscita di questo libro, che cerca di sdoganare la pedofilia, in quanto Walter Siti lo dedica “all’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani” e di fronte agli “alti lai” (un gioco delle parti?) delle “vestali di don Milani” il Siti si giustifica: «Ho creduto che don Milani somigliasse al mio prete pedofilo (…) mi è parso che don Milani ammettesse di provare attrazione fisica per i ragazzi (…). Tutto nasce, mentre stavo covando il libro, dall’aver letto… alcune frasi dell’epistolario di don Milani (si riferisce all’ormai arcinota lettera di don Lorenzo Milani all’amico Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959 riportata integralmente a p. 386 nel libro dello stesso Pecorini: Don Milani, chi era costui?, Baldini e Castoldi, Milano 1996, n.p.c.) “E so che se un rischio corro per l’anima mia non è certo di aver poco amato, piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto)… E chi potrà amare i ragazzi fino all’osso senza finire di metterglielo anche in culo, se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’inferno?”… già anni prima a una lettera a un amico, aveva scritto: “Vita spirituale? Ma sai in che consiste oggi per me? Nel tenere le mani a posto”. Forse, forzando l’interpretazione, mi è parso che don Milani ammettesse di provare attrazione fisica per i ragazzi, e ho trovato eroica la sua capacità di tenersi tutto dentro il cuore e i nervi…»1

Il 1943 è l’anno della conversione di Lorenzo Milani: prende la Cresima il 12 giugno e il 9 novembre entra nel Seminario del Cestello in Firenze ma visse assai male gli anni della formazione e definirà il Seminario “una immensa frode”2, da sempre manifestò la sua indisponibilità ad accogliere insegnamenti e ritualità della Chiesa: «si ha sempre l’impressione di essere in un manicomio (…) non c’è più nessun indizio che possa far pensare in che secolo siamo, né in che paese. Difatti stiamo zitti in latino.»3

Nella sua religiosità fa breccia la soggettività: sente avversione per gli atti rituali esteriori: prevaleva in lui, sulla forma cattolica, l’interiorità dei protestanti. Scriveva infatti alla sua mamma che fu sempre la sua fedele confidente: «che ognuno pensi da sé a rettificare la sua intenzione e che se anche per caso si siede senza essersi fatto il segno della croce, può darsi che la croce che ha dentro sia più austera e più grande e più umiliante che quella che si s’è dimenticato di tracciare per l’aria.»4

In occasione del referendum del 1946, nonostante la posizione che prese il Cardinale Elia Dalla Costa in favore di una scelta monarchica, il Milani votò per la Repubblica insieme a don Raffaele Bensi (1896-1985), il prete che sarà la sua guida spirituale, il suo consigliere, quello stesso don Bensi che fu anche consigliere e confessore di David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli… insomma un formatore di più generazioni di liberali e comunisti, ammantati di religiosità cattolica; eppure lo stesso don Raffaele Bensi, artefice della conversione del Milani, in un’intervista rilasciata alla “Domenica del Corriere” nel 1971, definì il priore di Barbiana: “Un Santo travestito da diavolo”, un ebreo convertito “con ancora un piede nell’Antico Testamento” un “orgoglioso di tre cotte, un bugiardo, un superbo”. E narrò anche una volta che andò a trovarlo a Barbiana mancò un “et” che i suoi ragazzi lo picchiassero, in quanto aveva osato criticarlo… miglior sorte non toccò a Giorgio La Pira che fu definito “un Santo arteriosclerotico” per non parlare di don Luigi Stefani che, dopo la polemica con i cappellani militari, andò a Barbiana, in nome della riconciliazione con una macchina carica di regali. Don Stefani fu ingiuriato e ”processato” di fronte ai ragazzi in quanto “cappellano militare”. Il sacerdote dalmata — che nel suo apostolato fiorentino fu davvero, come cappellano della Misericordia e Presidente del “Fraterno Soccorso”, dalla parte degli ultimi — di fronte ai pesanti insulti e al dileggio del “Cattivo Maestro” restò immobile per tutta la durata del “processo popolare”, quindi si recò in chiesa dove scaricò quei regali che avrebbe voluto consegnare agli alunni milaniani e si raccolse in preghiera.

«Ordinato sacerdote il 17 luglio 1947, fu inviato come cappellano — scrive la professoressa Cristina Siccardi in Corrispondenza Romana — nella parrocchia di San Donato a Calenzano (Prato) abitata da circa 1200 persone, gente prevalentemente povera. Fin dal principio non condivise la religiosità dei parrocchiani, la considerava azione passiva, artefatta, consuetudine necessaria per essere riconosciuti nella comunità. Questa è la classica tracotanza dei progressisti: considerare gli altri degli imbecilli nelle mani del potere. Il pensiero “comunista” era — scrive ancora la Siccardi — parte integrante della sua fibra e il credo era per lui confessione politica: teologia della liberazione. Le sue non erano mai catechesi, ma presa di coscienza sociale. Su tutto doveva imperare la dignità umana, quella che sarà esaltata dal Concilio Vaticano II in poi. Strumento di dignità era la capacità di espressione linguistica, presupposto di libertà (…) fondò la sua scuola come alternativa a quello che considerava proselitismo delle parrocchie e alternativa alle sezioni comuniste. Per Milani la scuola era il bene delle classi sociali, la ricreazione era invece la rovina (…) lui il rivoluzionario, indottrinava con autorità il cristianesimo attraverso lo storicismo e il Vangelo personalmente interpretato. La dottrina della Chiesa e i suoi riti erano favole per ingenui e sciocchi. Vedeva la scuola come la palestra del riscatto dei poveri e non come luogo confessionale (…) perciò i simboli cristiani e le immagini sacre dovevano essere tolte e anche il crocifisso (a San Donato lo fece togliere perché avrebbe potuto disturbare o offendere i figli dei comunisti n.p.c.) poteva legittimamente scomparire dalle aule, al modo dell’abate Ferrante Aporti cento anni prima smascherato dal pedagogo per eccellenza, san Giovanni Bosco.»5

Dopo il disastro fatto a San Donato don Milani fu trasferito a Barbiana. Così don Mario Faggi, parroco di Campestri, dà la sua testimonianza su “Controrivoluzione”: «(…) il Cardinale Elia Dalla Costa (…) fu proprio quello che rimosse dalla parrocchia di San Donato don Milani, che non voleva andarsene, minacciando anche di rimuoverlo con il braccio secolare (altro che obbediente!) e inviandolo nella parrocchia di Barbiana. Fu lo stesso Cardinal Della Costa che nei decreti inviati al nuovo parroco di San Donato Santacatterina, dopo la visita pastorale, fatta alcuni mesi dopo la partenza i don Milani, prescriveva al parroco queste raccomandazioni: “Usi ogni industria perché sia cancellato il ricordo del recente passato a tutti noto”, e al parroco che si lamentava per l’archivio spogliato e di tante altre difficoltà il Cardinale rispondeva: “Ringraziamo il Signore che è andato via: ricominci tutto da capo.” Tutto questo è stato detto e scritto dal Cardinal Dalla Costa e non da altri.»6

«Don Milani — continua Cristina Siccardi su “Corrispondenza Romana” del 28-VI-2017 — venne poi trasferito a Barbiana (…) alle pendici del Monte Giovi e vi giunse il 6 dicembre 1954. Vi abitavano 100 persone, dunque una punizione. Con il suo linguaggio diretto e da strada il parroco scrisse di aver accolto il nuovo incarico “nonostante fosse palese a chiunque che vi ero confinato come finocchio e demagogo ereticheggiante e forse anche confesso visto che non avevo reagito”.»7

Insomma il virgulto dell’agiata famiglia Milani-Comparetti si è fatto prete: ha scelto, come del resto aveva programmato, “un mestiere che non mi abbassi nemmeno un po’ e che mi dia prestigio”, si considera come Prometeo che porta il fuoco della sapienza alle classi meno abbienti…

A Barbiana crea una corte di personaggi che si recano da Maestro della cultura e della politica, che, oltre tutto, è del loro stesso ceto, in quanto, a quei tempi un prete che si mettesse dalla parte del “comunismo” era difficile a trovarsi: infatti a tutti gli effetti il prete di Barbiana può essere considerato come l’antesignano del “cattocomunismo” anche se si pone, di fronte al PCI, in maniera critica contestandolo da sinistra. C’è un libro, pubblicato da Polistampa nel 1999, scritto a quattro mani da due dirigenti del PCI: Siro Cocchi e Luigi Tassinari: Valeva la pena – Ricordi di vita politica con la significativa prefazione di Paolo Ginsborg.

Si legge in detto libro, tra l’altro: «(nasce) a Borgo San Lorenzo un circolo progressista di cultura con “Gigi Tassinari” preside dell’Avviamento, Marco Ramat che reggeva la pretura, la professoressa Parigi, la Preside Setti della Scuola Media e due sacerdoti don G… e don Milani, quando affermò che “al figlio del contadino di Gattaia o di Vicchio, anche se non sapeva niente, si sarebbe dovuto assicurargli il dieci, mentre per il figlio del Marchese Frescobaldi, si sarebbe dovuto partire dal cinque”. Queste iniziative agirono anche in modo estremamente positivo sullo sviluppo culturale e politico dei militanti del PCI (…) insieme organizammo incontri e convegni, piccoli festival e coinvolgendo il pretore Ramat.»8

«(…) Comincia allora — continuano Tassinari e Cocchi — un approccio più particolare e consapevole del PCI nei confronti del mondo cattolico (…) Basti ricordare le posizioni dell’attuale vescovo di Firenze Piovanelli (nel 1999 era ancora arcivescovo di Firenze il Card. Piovanelli n.p.c), di don Milani, di don Mazzi, di padre Balducci, tutti questi furono vicini (…) a posizioni di rinnovamento nel mondo della Chiesa ed ebbero in monsignor Bartoletti, il prestigioso segretario della CEI, un grande ispiratore della nostra Regione, scomparso prematuramente in odore di Tiara.»9

Lungi dall’essere “obbedientissimo” come ce lo ha presentato una sorta di mielosa agiografia e come ce lo presentano oggi i “media” laicisti e cattocomunisti, egli fu un ribelle e si pose, seppur subdolamente, in contrapposizione al suo Vescovo (non solo su questioni opinabili, come quella di dare il voto alla DC, infatti, in certi casi, il progressismo di don Milani andava condannato come certo conservatorismo curiale) ma anche sulla Dottrina. All’epoca si erano insinuate e affermate diverse “dottrine gnostiche” ( diverse “gnosi”) ( il “Liberalismo” di Sturzo, il “Democraticismo” di De Gasperi, il “Socialismo” di Romolo Murri). Don Milani ha seguito, alimentandolo, lo sviluppo di questo pensiero per cui il suo pensiero si può, a ragione, definire un “liberalismo avanzato” un “Radicalismo”.

Scrive il professor Daniele Mattiussi: «Don Milani, comunque, scrisse che bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.” Non sono queste parole prive di significato — chiosa Mattiussi —. Esse, infatti, sono programmatiche, corrispondendo a precise scelte ideologiche.»

«Affermare, per esempio, che bisogna insegnare ai giovani che essi sono “sovrani”, significa insegnare loro l’empietà, vale a dire portarli a pensare che tutto dipende esclusivamente dalla loro volontà sia sul piano morale, sia sul piano politico. La sovranità morale è, infatti, pretesa di sovranità sul bene e sul male: È l’antica tentazione delle origini è il non serviam satanico, suggerito come liberazione della propria condizione ontologica nel paradiso terrestre ad Eva e da Eva ad Adamo. Il bene e il male dipenderebbero dall’uomo, dalla sua opinione e, quindi, dalla sua soggettiva percezione. (…) nessun ordine superiore deve essere eseguito senza “farlo proprio”, vale a dire senza un’adeguata valutazione personale della sua validità e della sua legittimità. Obbedire perciò non è eseguire. Tanto meno può essere considerata obbedienza l’accettazione passiva della coercizione (…). Don Milani non distinse. Sulla base della sua teoria della sovranità soggettiva era costretto a scambiare le due cose: qualsiasi comando non accettato dal soggetto era per lui coercizione. È questa anche la dottrina di Lutero e delle dottrine etico politiche di derivazione protestante.»

«Don Milani — continua poi Mattiussi — insegnò inoltre, la dottrina dell’obiezione di coscienza, che non è l’obiezione della coscienza. La prima rivendica il diritto alla coerenza del soggetto rispetto ai propri convincimenti e alle proprie opinioni anche se sbagliate. L’obiezione della coscienza è il dovere della fedeltà e della testimonianza di una legge non scritta ma inscritta nel cuore dell’uomo.»10

Più e più volte l’arcivescovo di Firenze richiamò don Milani che si mise, seppur furbescamente “nascosto” nella sua parrocchia di Barbiana, a fomentare la contestazione contro il potere ecclesiastico in generale e contro S.E. il cardinal Florit e il suo Vicario Mons. Giovanni Bianchi che porteranno sulle loro spalle la contestazione dei “preti rossi”. Così il Card. Florit giudica don Milani dopo uno dei suoi ultimi burrascosi colloqui lui: «È stata una conversazione concitata di oltre un’ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da mania di persecuzione Non preoccupazione di santità fondata sull’umiltà., ma pseudo-santità puntata verso la canonizzazione di se stesso. Egocentrismo pazzo, tipo orgoglioso e squilibrato.»

Don Milani non demorde, lui vuol sempre stare dalla parte della ragione, considera quella di Firenze una Curia che onora le spie (ovvero i parrocchiani e i fedeli che si lamentavano del suo “non apostolato”) e perseguita i Santi (cioè lui). Definisce, in una sua lettera, il Cardinal Ermenegildo Florit, il suo Vescovo un: “Deficiente indemoniato”. 

Ma il “colpo da maestro” di don Milani fu la stesura della Lettera a una professoressa che disse di aver scritto “a più mani”, insieme ai suoi ragazzi, ma che in realtà scrisse lui e questo testo, un vero invito all’odio di classe, una “lezione” sfacciata di pedagogia scritta con l’improntitudine e l’arroganza di chi, anche in questo frangente, si sente il “Capo”, il “Guru” di una “setta gnostica”, di puri, in contrapposizione agli “impuri”, a quelli cioè che non fanno parte del suo cerchio. Nonostante il priore di Barbiana sia morto prima del Sessantotto rimane indubbio che la Lettera a una professoressa (edita dalla LEF – Libreria Editrice Fiorentina dei fratelli Zani), sarà uno dei testi fondamentali — sia per fama e, soprattutto, per vendite — della contestazione sessantottarda, insieme Marcuse, e al “Che” Guevara.

La prima contestazione è naturalmente alla scuola pubblica e privata, in quanto selezionatrice meritocratica, quindi la contestazione anche verso i preti che fanno proselitismo “con i biliardini” e fanno giocare al pallone i ragazzi, come del resto fanno i comunisti invece di “indottrinare le giovani leve”. Ma, soprattutto, la contestazione è contro le famiglie dei poveri che sono conformiste — sempre secondo il “Guru” barbianese — e che di fronte ai maestri e ai professori, invece di contestare, danno loro ragione; inoltre quelle famiglie hanno il torto di volere i propri ragazzi a casa, e di non mandarli volentieri da don Milani che pretende di tenerli sempre lì, trecentosessantacinque giorni all’anno, senza ricreazioni, senza feste — nemmeno per Natale e per Pasqua — ma sempre a far lezione e, soprattutto, politica e che, quando non bastano gli urli, usa anche la frusta: «Noi in casi estremi si usa anche la frusta… Non faccia la schizzinosa e lasci stare le teorie dei pedagogisti. Se vuole la frusta gliela porto io, ma butti giù la penna dal registro…»11

I professori sono tutti degli scansafatiche: «Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una.»12 «Sapete che per fare tutto il programma non bastano le… ore… della scuola attuale. Finora avete risolto il problema da classisti. Ai poveri fate ripetere l’anno. Alla piccola borghesia fate ripetizioni. (…) il doposcuola è la soluzione più giusta. Il ragazzo ripete… e voi gli siete accanto uniti nella colpa e nella pena… Finché la vostra scuola resta classista e caccia i poveri, l’unica forma di anticlassismo serio è il doposcuola che caccia i ricchi.»13

E poi va bandita la cultura classica: «(…) mi chiudo di uovo sull’Eneide. Leggo un episodio che piace a lei. Due farabutti sbudellano la gente tra il sonno. Elenco degli sbudellati e della roba rubata e di chi gli aveva regalato una cintura e il peso della cintura. Il tutto in una lingua nata morta.»14

La scuola secondo don Milani non deve selezionare e deve rifiutare la meritocrazia, si deve fare scuola anche nei festivi: «Io il primo ottobre c’ero (a scuola) lei no. Ci dissero di tornare il sei (…) la responsabilità del ritardo è un misto di santi e di svogliati. Perfino san Francesco vi serve da pretesto per rubare ai poveri un altro giorno di scuola. Dopo quattro mesi d’abbandono (…). Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione.»15

Insomma don Milani si mette contro non solo alla famiglia ma anche ai maestri e ai professori colpevoli di “selezionare” (i poveri…) e di promuovere gli altri che sono tutti fascisti: «La maggioranza dei compagni che ho trovato a Firenze non legge mai il giornale. Chi lo legge, legge il giornale padronale. Ho chiesto a uno se sa chi lo finanzia: “Nessuno. È indipendente”. Non vogliono saperne di politica (…) tre sono fascisti dichiarati. Ventuno apolitici più i 3 fascisti uguale trentun fascisti.» Nonostante i genitori dei ragazzi poveri che proni davanti ai professori: «servili come sono, v’avrebbero mandato i ragazzi non solo al doposcuola ma anche a letto (sic!)»16 finalmente abbiamo la nuova scuola media: «Abbiamo letto la legge e i programmi scritti lì e a noi ci va bene. E poi c’è il fatto che la nuova scuola esiste, è unica, è obbligatoria, è dispiaciuta alle destre. È un fatto positivo (ma per rivoluzionarla ancora) i genitori più poveri non fanno nulla (…). A tempo loro in campagna c’era soltanto la terra. Se le cose non vanno sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi.» Insomma per fare scuola, come si fa a Barbiana, bisogna essere liberi, senza una famiglia: «La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che vivevano dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. Gandhi l’ha fatto. E ha mescolato i suoi figlioli agli altri al prezzo di vederli crescere tanto diversi da lui. Ve la sentite? L’altra soluzione è il celibato (…). Su 411.000 insegnanti della scuola dell’obbligo 88.000 non sono sposati. Di questi 88.000, 53.000 non si sposeranno neanche in futuro. Perché non dire agli altri e a sé stessi che non è una disgrazia, ma una fortuna per essere disponibili alla scuola a pieno tempo?»18 Infine ecco quale dovrebbe essere il programma che doveva formare i “futuri maestri”: «A pedagogia vi chiederanno solo di Gianni: A italiano come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete dei sormenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliege.»19

E chioserà dopo in una delle sue lettere che «Se qualche professore, uno di quelli che rimpiange il latino come privilegio di pochi e la vecchia scuola che promuoveva i pierini, storcerà il naso, dovrà stare attento, perché noi quando andremo al potere lo manderemo in Siberia.»

E chi ha vissuto quei tempi sa bene cosa fossero i campi di sterminio nazisti, i Gulag sovietici, i Laogai cinesi, e sa anche cosa voleva dire “mandare in Siberia” e da che parte stava colui che auspicava per i “dissidenti” del pensiero unico i Gulag siberiani.

Questa “Lettera” — esaltata dai contestatori e dai media, aedi della contestazione becera e piazzaiola, veri “dilettanti allo sbaraglio”, fu “fatta a pezzi” da due illustri personalità del mondo scolastico: la grecista professoressa Rita Calderini e il Preside professor Roberto Berardi che pubblicò un aureo libretto: Lettera a una professoressa: uno dei miti degli anni Sessanta.20

Scrive Berardi: «La “Lettera” contribuì, con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi (…) la responsabilità fu dell’autore, che sotto l’apparenza di un discorso che riguardava la scuola e gli alunni dei ceti più diseredati, non solo diffuse informazioni infondate e giudizi ingiusti, ma si propose scopi ben più ideologici che scolastici.»

Del resto nel 2007, durante una annuale commemorazione, un seguace di don Lorenzo Milani, il professor Santoni Rugiu ebbe a dire: «Meglio sarebbe che quella Lettera a una professoressa, fonte di molti equivoci non fosse stata mai scritta.»21

Ma che importava al “Guru” di Barbiana? 

Ma tra tante slinguate, tra tanti “evviva”, tra tanti “ma ci voleva”… in mezzo a un conformismo asfissiante ecco un intellettuale “di sinistra”, ma con la mente ben aperta, che esce dal coro, e “bombarda” il mito di Barbiana, delineandole i caratteri propri di una “setta gnostica”. Si tratta del professor Sebastiano Vassalli che pubblicò l’attacco al Naturalmente i suoi scritti furono messi all’indice dai partigiani del donmilanismo in un libro, una sorta di lista di proscrizione, a cura di Marco Moraccini e, insieme agli scritti di Vassalli, all’indice con il titolo “Gli insulti dell’estrema destra” anche quelli dei “cattivissimi” Giano Accame (“Le raccomandazioni del buon cappellano” in “Il Borghese” del 9 ottobre 1958); Attilio Baglioni (“Nuovi preti e Concordato” in “la Folla” 28 marzo 1965); Antonio Pugliese (“Lettera a Marotta” in “Roma”, 7 novembre 1965); Domenico Magrini (“Grosso equivoco da dissipare sulle lettere di don Milani” in “Realtà Politica”, 10 ottobre 1970) e Pucci Cipriani (“Un falso idolo: don Milani” in “Relazioni” del giugno 1971).

Ma veniamo agli scritti di Sebastiano Vassalli apparsi rispettivamente su “Repubblica” del 30 giugno 1992: “Don Milani che mascalzone” e su “Repubblica” di sabato 4 luglio 1992: “Ma allora i miti non muoiono mai – Il caso don Milani” (Vassalli risponde alle critiche sollevate dal suo articolo sul parroco di Barbiana). 

Ecco osa scrive, tra l’altro Sebastiano Vassalli: «(…) Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, uomo-simbolo della “contestazione” degli anni Sessanta e autore di quella Lettera a una professoressa che nel nostro paese ebbe fama (…). Un libro-bandiera, più adatto ad essere impugnato e mostrato nei cortei che ad essere letto e meditato (…). Un’esperienza didattica (quella di Barbiana, n.p.c.)… simile in definitiva a tantissime altre, si era arricchita d’un ingrediente rivoluzionario: l’odio di classe, che il movimento operaio aveva rinnegato già nell’Ottocento e che tornava ad affacciarsi, quasi dopo un secolo, nella prosa (…) un po’ nevrotica di un prete di origine borghese (…) due cose saltano subito agli occhi: la bravura dell’autore e la sua implacabile determinazione a demolire con ogni mezzo e con ogni trucco l’oggetto della polemica, cioè quella malcapitata “professoressa” in cui il nuovo Savonarola — don Milani (…) simboleggia l’odiata scuola classista… ciò che spinse don Milani a scrivere il pamphlet contro la professoressa fu l’insuccesso di tre suoi allievi di Barbiana, presentatisi come privatisti in un esame in un istituto magistrale di Firenze: dove la professoressa li bocciò. La Lettera intesa proprio come “vendetta” per quelle bocciature (p. 139: “La seconda vendetta è questa Lettera”) venne poi attribuita a un gruppo di ragazzi (p. 5, “gli autori siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana”) in omaggio alla moda allora imperante del lavoro di gruppo e per aggirare il fin troppo prevedibile diniego dell’arcivescovo Florit… a concedere l’imprimatur; ma è fuori discussione che l’autore sia stato proprio il parroco (…) ciò che allora nessuno avrebbe potuto prevedere era il successo travolgente e incalcolabile di quella Lettera e di quella vendetta, che si sarebbe abbattuta come un uragano gli insegnati… e nemmeno su tutti ma proprio sui migliori, cioè su quelli che — nonostante le molte difficoltà — cercavano di dare ancora un senso e una direzione al loro lavoro: un autentico cataclisma, che fece vacillare l’istituzione e danneggiò in modo irreparabile proprio i figli dei poveri, impossibilitati, per ragioni economiche, ad emigrare in massa (come i “Pierini” borghesi) nella scuola privata. Don Milani, comunque lo si voglia giudicare, fu un maestro improvvisato e sbagliato (…). Tirato fuori dal mito e riportato alle sue dimensioni terrene di insegnante, don Milani ci appare oggi come fu davvero: una maestro manesco e autoritario (quanti suoi sostenitori d’un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’è l’apologia della frusta, a p. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate”, e “qualche salutare cignata”? un autocrate (…) che trattava con sufficienza e con sarcasmo chi azzardava a parlargli di libero sviluppo della personalità degli alunni e di “altrettante sciocchezze borghesi” (…) “una concezione collettivistica dell’educazione vista come indottrinamento”: una concezione non dissimile — per chi ancora ha memoria di quegli anni — della così detta “rivoluzione culturale” cinese.»22

* Intervento del Direttore di “Controrivoluzione” al Convegno di Bergamo: “Da Barbiana a Bibbiano” di sabato 20 novembre 2019 presso l’auditorium San Sisto, organizzato da “Caritas in Veritate, Bergamo” – “Movimento per la Vita della Val Cavallina” – “Ora et Labora in difesa della Vita” – “Bibbiano lo scandalo degli affidi” con la collaborazione della TFP Tradizione Famiglia Proprietà e Comunione Tradizionale, con la partecipazione del Vice Direttore de “La Verità” Francesco Borgonovo, del Consigliere provinciale di Livorno Lorenzo Gasperini, del garante dell’infanzia e dell’adolescenza della Regione Lazio Jacopo Marzetti, e del CC di Bergamo Filippo Bianchi.

1 Cfr. “Repubblica” del 19 aprile 2017: Intervista di Dario Olivero a Walter Siti.

2 Cfr. Lettera a Bruno Brandani in Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. La vita del prete Lorenzo Milani, Milano Libri, Milano 2005, p. 86.

3 Cfr. Lorenzo Milani, Lettere alla mamma. 1943-1967, a cura di Alice Milani Comparetti, Mondadori, Milano 1973, n. 2.

4 Cfr. Lorenzo Milani, Lettere alla mamma. 1943-1967, cit.

5 Cfr. Cristina Siccardi, “Il vero volto di don Milani”, in “Corrispondenza Romana”, 28 giugno 2017)

6 Cfr. Don Mario Faggi, “Testimonianza di don Mario Faggi su don Lorenzo Milani”, in “Controrivoluzione”, n. 22, novembre/dicembre 1992.

7 Cfr. Lorenzo Milani, Lettere alla mamma. 1943-1967, cit., n. 84.

8 Uno dei fondatori di “Magistratura Democratica” (n.p.c.), p. 18.

9 p. 93.

10 Cfr. Daniele Mattiussi, “Sul caso don Milani”, in “Instaurare omnia in Christo”, Anno XLVI, n. 1, Gennaio-Aprile 2017.

11 Cfr. Lettera a una professoressa, p. 82.

12 Ivi, p. 84.

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 137.

15 Ivi, p. 103-09.

16 Ivi, p. 31.

17 Ivi, p. 30-33.

18 Ivi, p. 86-87.

19 Ivi, p. 140.

20 Ed. Shakespeare and Company, 1992.

21 Cfr. Giovanni Spinoso nella Telecronaca al TG3 Regione del 12 maggio 2007, ore 20:30.22 Cfr. Sebastiano Vassalli, “Don Milani, che mascalzone”, in “La Repubblica”, martedì 30 giugno 1992, p. 36.