Tratto da: atfp.it

di José Antonio Ureta

Non si può che condividere di tutto cuore la posizione editoriale di OnePeterFive nel senso di unire i “clan” in un’unica crociata per ricostruire la Cristianità al fine di “restaurare ogni cosa in Cristo”. Assieme alla nuova redazione, deploro anche io il difetto di alcuni rappresentanti del cattolicesimo tradizionale di voler «discutere tra loro di minuzie mentre gli eretici trionfano contro il dogma».

Non è quindi con questo spirito cavilloso che accetto l’invito a sottoporre un mio contributo da ospite per approfondire il tema che sta al centro delle riflessioni della posizione editoriale della nuova redazione, ovvero l’atteggiamento corretto che un fedele cattolico deve assumere di fronte agli errori promossi da papa Francesco e da gran parte della gerarchia.

Sebbene pienamente d’accordo con il vostro rifiuto del sedevacantismo e con la seducente soluzione di rifugiarsi nello scisma greco, ho però qualche riserva sulle etichette «spirito del Vaticano I» e «ultramontanismo estremo» che voi date all’atteggiamento riprovevole di chi preferirebbe avere torto con il Papa che avere ragione contro di lui.

Questo falso concetto di obbedienza, che paralizza molti cattolici conservatori, lo denunciai nel mio libro Il Cambio di Paradigma di Papa Francesco – Continuità o rottura nella missione della Chiesa?, ma attribuendogli una fonte diversa: il “magisterialismo” insinuatosi negli estimatori di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI negli ultimi decenni, per il fatto di criticare i modernisti non tanto perchè questi si allontanavano dall’insegnamento tradizionale, ma perché attaccavano il magistero del papa regnante[i].

L’idea che «tutta la vita cattolica debba ruotare attorno al Papa, che sarebbe una specie di oracolo di Delfi, il cui minimo capriccio diventa legge vincolante nella Chiesa» è assurda, ma mi sembra pericoloso caratterizzarla come proveniente da un «falso spirito del Vaticano I» e da un «ultramontanismo estremo». Dal punto di vista del marketing si è tentati di fare un parallelo tra le ultime due assemblee conciliari e di dire che i loro documenti sono stati stravolti da alcuni estremisti nel rispettivo periodo post-conciliare. Ma questa facile soluzione ha tre problemi: 1) dà un “placet” di totale ortodossia al Vaticano II, incolpando un suo “spirito” presumibilmente in contrasto con i suoi testi; 2) getta un velo di sospetto sul movimento ultramontano del XIX secolo ponendolo sullo stesso piano del progressismo che generò il Vaticano II; 3) non corrisponde alla verità storica, perché la “papolatria” non è un frutto avvelenato dell’ultramontanismo, ma un figlio snaturato dei suoi avversari, i cattolici liberali, che vollero servirsene, durante il pontificato di Leone XIII, per imporre ai fedeli l’accettazione della sua politica di “ralliement” attorno alla Repubblica massonica francese (ndt, per ralliement si intende la politica vaticana che spronava i fedeli monarchici ad accettare la repubblica laicista).

È innegabile che gli ultramontani furono – e questo va a loro merito – i grandi difensori dei due dogmi di fede solennemente pronunciati dal Vaticano I sul Papa, cioè la sua piena e universale giurisdizione e la sua infallibilità. Già all’epoca, questa difesa valse loro l’accusa di essere «teologi dell’assolutismo» e di aver immolato la verità «come un olocausto all’idolo che si erano fabbricati in Vaticano»[ii], secondo l’accusa rivolta loro dal noto scrittore liberale conte Charles de Montalembert (che, del resto, mi sorprende trovare nella vostra lista di controrivoluzionari laici).

Ma è vero che gli ultramontani hanno portato all’eccesso il loro amore per questi due privilegi della Cattedra di Pietro? Per niente. Ma, per dimostrarlo, è necessario dare uno sguardo d’insieme al pensiero e all’azione del vescovo Louis-Edouard Pie, uno dei principali attori del Concilio Vaticano I insieme al cardinale Henry Edward Manning. Prendo la prima di queste personalità come riferimento perché, risiedendo buona parte dell’anno in Francia, la sua figura mi è più familiare e poi perché innegabilmente la Francia, primogenita della Chiesa, fu il centro intellettuale della corrente ultramontana. Infine, perché il Vescovo di Poitiers è stato il grande difensore del Regno sociale di Nostro Signore e colui che ha ispirato il motto del pontificato di San Pio X, ripreso dal vostro sito nella sua pagina editoriale: Instaurare omnia in Christo.

Cominciamo dall’accusa rivolta all’ultramontanismo di avere qualche simpatia per l’assolutismo. Questa è del tutto infondata, sia per quanto riguarda il potere temporale che per il potere religioso. Gli ultramontani – e in particolare il futuro cardinale Pie – erano monarchici legittimisti che rifiutavano il centralismo imperialista bonapartista e difendevano una monarchia temperata: «La regalità cristiana, in particolare la regalità francese», scriveva mons. Pie in un programma monarchico redatto su richiesta del pretendente al trono, il conte di Chambord, «non è mai stata arbitraria o addirittura assoluta. Da tempi immemoriali, essa era temperata dall’esistenza dei vari ordini del regno, dalle assemblee provinciali, dagli Stati generali, dai Parlamenti, dalle libertà e dai costumi locali»[iii].

La stessa visione di un’autorità temperata si applicava alla Chiesa. Monsignor Pie fu un grande difensore delle prerogative di quelli che allora venivano chiamati concili “particolari” o “provinciali”. Lavorò per la loro celebrazione nella sua provincia ecclesiastica, eseguì i decreti e, secondo lo spirito che li aveva ispirati, redasse gli statuti che vi erano stati preparati. Commentando una lettera di Pio IX ai vescovi austriaci incoraggiandoli a celebrare un Concilio provinciale, mons. Pie ci vedeva una «risposta irreprensibile alle accuse avventate di monopolizzare tutte le attribuzioni e la tendenza a un accentramento illimitato, che alcuni non hanno paura di scagliare contro la Chiesa romana negli ultimi tempi».

E aggiungeva: «I concili particolari sono un elemento e una garanzia di libertà e nazionalità per le diverse province del mondo cattolico; diversi concili ecumenici hanno attribuito loro questo carattere. Tuttavia, lungi dall’indignarsi per la convocazione di queste assisi provinciali, è lui stesso, il capo della Chiesa, che ne esige la ripresa, che si rammarica dell’abbandono di esse, che ne dimostra il vantaggio». Quali? «Finché vi saranno differenze di origine, lingua, governo, direi anche di clima (…) l’esistenza di un diritto comune, di una legislazione assoluta, uniforme, senza modificazioni e senza deroghe, sarà impossibile su un numero di punti che riguardano la disciplina ecclesiastica. Il diritto comune (…) ammette come elemento del diritto stesso il principio delle eccezioni, delle deroghe, delle modifiche, purché effettuate in condizioni regolari. Tuttavia, il tribunale che offre maggiori garanzie (…) è l’episcopato della provincia riunito canonicamente, conciliarmente»[iv]. Altrove scrisse: «Mai la sede apostolica ha insistito più [che sotto Pio IX] sulla tenuta periodica dei concili particolari, nei quali i vescovi adempiano congiuntamente però a questa funzione di giudici che Roma è accusata di disputare loro»[v].

Mi permetto una disgressione: molto mal consigliati furono i Padri conciliari del Vaticano II che accusarono il precedente Concilio di aver sbilanciato la struttura della Chiesa e che, per rimediare a ciò, introdussero una “collegialità” sconosciuta alla Tradizione e mutuata dallo Scisma orientale (persino nella parola, che è una cattiva traduzione dal russo sobornost). Contrariamente a quanto afferma Lumen Gentium e la nota praevia di Paolo VI, il collegio dei vescovi unito al Papa non esercita alcun potere supremo permanente sulla Chiesa universale. La Chiesa cattolica non è bicefala, ha una sola testa: il successore di Pietro. A meno che non siano convocati straordinariamente dal Papa in Concilio, il potere di giurisdizione dei vescovi è solitamente limitato alla singola diocesi di cui sono pastori. Ma sì, possono riunirsi nei concili provinciali sotto l’occhio vigile della Santa Sede, che deve vegliare sull’unità della Chiesa, cosa che Roma oggi rifiuta di fare riguardo al Cammino sinodale tedesco, nonostante esso attribuisca a sé stesso un potere dottrinale che i sinodi provinciali non hanno mai avuto, che si limitavano a legiferare su questioni disciplinari.

Ma, riprendiamo il nostro discorso andando al cuore della domanda: gli ultramontani erano “papolatri” disposti a fare del Successore di Pietro una specie di pitonessa che proferisce gli oracoli di Apollo, come a Delfi? Affatto!

L’atteggiamento di mons. Pie prima della convocazione del Concilio Vaticano I e durante il suo svolgimento fu molto illuminante al riguardo.

Essendo stato nominato consultore da Pio IX e ancor prima che l’assemblea conciliare fosse annunciata pubblicamente, mons. Pie elaborò un progetto per la commissione preparatoria sui temi di attualità che, a suo avviso, il futuro Concilio avrebbe dovuto trattare. Convinto che il grande problema del momento fosse la negazione della regalità di Cristo mediante la secolarizzazione della società, propose un progetto che puntava soprattutto alla denuncia degli errori del razionalismo e del naturalismo (piano largamente ripreso nella costituzione dogmatica Dei Filius), che non includeva la questione dell’infallibilità papale.

Certo, era ardentemente infallibilista, ma non aveva una fissazione su questa verità di fede ancora non proclamata. Tanto che propose la nomina a consultore conciliare di Arthur-Marie Le Hire, sacerdote di Saint-Sulpice e professore di Sacra Scrittura presso il celebre seminario parigino, baluardo del gallicanesimo.

Dopo l’indizione ufficiale del Concilio, furono i liberali a eccitare gli animi gridando al lupo e suscitando una polemica sull’infallibilità che non era ancora all’ordine del giorno. Sollecitato da diversi vescovi amici a scendere nell’arena di questa controversia, il vescovo Pie non vi aderì, spiegando il perché in una lettera ai suoi diocesani: «La nostra risoluzione è stata presa per evitare di trattare d’ora in poi in nostro nome le questioni capitali che si impongono per sé stesse in questa santa assemblea. Ci è sembrato che il rispetto dovuto ai nostri venerabili colleghi nell’episcopato, così come quello che dobbiamo a noi stessi, ci imponesse questo riserbo. Non dobbiamo né impedire il giudizio degli altri, né formulare in anticipo il nostro giudizio personale, anche perché siamo disposti a trarre profitto dallo scambio di pensieri, frutto di discussioni, e soprattutto ad obbedire alle luci e ai movimenti dello Spirito Santo, la cui assistenza non ci mancherà nel tempo opportuno»[vi].

Ma il vescovo di Poitiers non si fece offuscare dall’accesa polemica tra vari organi di stampa dei due schieramenti su questo tema scottante: «Che gli scrittori privati, sotto la loro personale responsabilità, formulino ipotesi e dibattano al riguardo. La Chiesa, che è molto liberale nelle sue procedure, e che darà pieno spazio all’espressione di tutti i pensieri e sentimenti, durante la durata delle sessioni conciliari, non si allarma né si offende di questi dibattiti pubblici, se contenuti entro giusti limiti. A condizione, tuttavia, che il falso liberalismo, come è già avvenuto, non rivendichi il monopolio della libertà, e che, secondo le sue pratiche di assolutismo pratico, non invochi la repressione, e non gridi allo scandalo, a causa della libertà lasciata ai suoi avversari»[vii]. Sembrerebbe che parli profeticamente dei nostri giorni!

Il futuro cardinale Pie non si allontanò da questa riserva fino a quando mons. Henri Maret, decano della Sorbona, pubblicò due volumi in cui qualificava di «assolutismo» la presunta «onnipotenza» che fornirebbe al Sommo Pontefice la definizione di una personale infallibilità aliena all’omologazione del collegio episcopale. Come contrappeso, il presule parigino proponeva nientemeno che la partecipazione ordinaria dei vescovi al governo generale della Chiesa, attraverso l’istituzione di concili ecumenici decennali (oggi avrebbe formulato la sua proposta sotto la denominazione di “sinodalità”).

In occasione del ventesimo anniversario della sua elevazione all’episcopato, il vescovo Pie affermò nel suo sermone che sarebbe un affronto alla promessa di Gesù Cristo a Pietro subordinare le decisioni dottrinali dei Papi all’assenso positivo o tacito dell’episcopato mondiale. Ma, si affrettava ad aggiungere che, fedele alle sue abitudini, non intendeva «provocare o pregiudicare in alcun modo una definizione conciliare, la cui opportunità anzitutto, e poi la forma, deve essere interamente riservata al giudizio della grande assemblea sinodale e alla suprema volontà dello Spirito Santo». Per conformare il suo operato alle sue parole, pubblicò sul settimanale della diocesi la risposta del vescovo Maret, aggiungendo: «È regola, in ogni leale controversia, che la difesa possa comparire dove è avvenuto l’attacco»[viii].

Il futuro cardinale mantenne la stessa riserva quando, alla vigilia dell’apertura del Concilio, il paladino della corrente liberale, mons. Dupanloup, pubblicò due scritti polemici che, con il pretesto di dimostrare l'”inopportunità” di una definizione solenne sul potere magisteriale del Romano Pontefice, in realtà attaccava in maniera formale l’infallibilità stessa. Il Vescovo di Angulema pronunciò il famoso detto: Quod innoportune dixerunt, necessarium fecerunt, cioè proprio quelli che dicono inopportuna la proclamazione di un dogma, la rendono necessaria. E Dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes, commentava che questo era ciò che mancava per concludere che era giunto il momento di definire l’infallibilità. Mons. Pie si limitò comunque a riaffermare, in una lettera riservata alla madre: «Siamo decisi, nonostante tutto, a tacere. Il Concilio ci guadagnerà»[ix].

Il Concilio fu inaugurato l’8 dicembre 1869, festa dell’Immacolata. Il giorno successivo, mons. Pie fu eletto al secondo posto nella composizione della Commissione della Dottrina della Fede, con 470 voti su 700 votanti. Ma questa prima vittoria delle dottrine ultramontane che egli rappresentava lo trovò pure condiscendente nei confronti della minoranza di prima. In una lettera a un ecclesiastico rimasto in Francia, scrisse: «Non sarebbe stato senza vantaggio se nelle prime commissioni fossero stati nominati alcuni teologi dell’altra parte, come mons. de Grenoble [il vescovo Jacques Ginoulhiac]», con riferimento a quelle della dottrina e della disciplina.

Relatore della congregazione generale dello schema su “Fede e Ragione”, confidò alla madre che gli era stato detto che la sua presentazione era stata ascoltata con simpatia da tutti e che «i vescovi di quasi tutte le sfumature [lo avevano] complimentato»x. Non c’è da stupirsi che la costituzione Dei Filius, che conteneva questo schema, sia stata approvata all’unanimità dall’assemblea.

Nello stesso giorno di questa approvazione, a causa dell’aggravamento della situazione internazionale e delle minacce di guerra, 150 Padri conciliari riuniti dal futuro cardinale Manning, arcivescovo di Westminster, grande capo della corrente ultramontana nei paesi anglofoni, presentò al Papa un postulato per la più pronta introduzione della questione dell’infallibilità del Romano Pontefice. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il vescovo Pie non risultava tra i firmatari di questa petizione. Egli non era un esagitato, come a volte vengono dipinti gli ultramontani, di cui tuttavia era il paladino nell’ambito della lingua francese. La sua moderazione è sorprendentemente evidente dalla spiegazione che diede in un secondo momento ai sacerdoti della sua diocesi, in cui riconobbe l’importanza di tale questione, ma sostenne che «non ogni Concilio debba disciplinare ogni controversia e definire ogni dottrina» e che, nell’ordine logico delle materie che costituivano il programma conciliare, non fosse arrivato il turno dell’infallibilità , poiché non si era ancora discusso la seconda parte dello schema di De Fide sulla grazia, il peccato originale e la Redenzione, già scritto quasi integralmente. Solo dopo questa grande sintesi dogmatica, ci si sarebbe dovuti avvicinare al capitolo sulla Chiesa e sul Sommo Pontefice, affinché la questione dell’infallibilità trovasse la sua collocazione naturale. Infine, credeva ufficialmente che i suffragi che i Padri conciliari gli avevano accordato all’interno della Commissione sulla Fede gli consigliasse di fare questa riserva «in vista del fatto che sarei stato probabilmente chiamato ad intervenire personalmente nell’introduzione della causa, cosa che effettivamente accade»[x]i.

Interessa, ai nostri fini, citare il seguente commento del suo biografo: «Ci si stupisce che egli non facesse parte di nessun gruppo militante e che, accessibile a tutti, avesse l’abitudine di osservare i diversi spiriti e le loro variegate sfumature, studiando ciascuno di essi ed evitando di farli scontrare con partiti presi e con volontà preconcette, pur tuttavia restando molto fermo nei confronti dei vescovi che si erano costituiti capi dell’opposizione. Il suo entourage e i suoi amici avrebbero voluto che guidasse la maggioranza; ma si astenne da ogni ingerenza personale come trattandosi di una incomprensione dello spirito della Chiesa»[xi]i.

Ciò nonostante, mons. Pie non tardò a riconoscere l’urgenza di affrontare l’infallibilità per non lasciare la questione nello stato tumultuoso provocato dalle polemiche accese dalla minoranza gallicana-liberale, la quale si affrettò a protestare, per voce di 67 vescovi, contro un possibile cambio di programma delle discussioni.

In considerazione del fatto che cinquecento vescovi si erano uniti nella richiesta di trattare la questione, Pio IX ordinò la distribuzione dello schema sull’infallibilità il 9 maggio 1870. I ventiquattro membri della Commissione sulla Fede chiesero a mons. Pie di fare la relazione su questo nuovo argomento da deliberare; cosa che fu fatta quattro giorni dopo, alla congregazione generale. A nome della Commissione, egli si scusò per aver dovuto presentare una relazione fuori dagli schemi, ma impostasi dalla passione con cui l’opinione pubblica stava affrontando l’argomento. Dopo aver illustrato i primi tre capitoli sul potere pontificio, abbordò il quarto sull’infallibilità, corollario logico e obbligato del magistero supremo e universale che il Papa detiene, concludendo con queste rassicuranti parole rivolte ai Padri conciliari: «Senza dubbio, lo schema che vi viene proposto non è giunto alla sua perfezione. Perciò la Commissione da voi incaricata non ha desiderio più grande che vedere da voi perfezionata l’opera solo abbozzata»[xii]i.

In trentaquattro congregazioni generali e particolari – ogni mattina e pomeriggio – il tema fu affrontato in tutti i suoi aspetti, sia dagli “infallibilisti” ultramontani che dagli “anti-infallibilisti” e dagli “inopportunisti”. I gallicani, infatti, continuavano a sostenere che l’infallibilità della Chiesa non poteva poggiare solo sulla persona del Papa, ma richiedeva l’accordo del Papa e del Concilio. I cattolici liberali, dal canto loro, affermavano di non opporsi alla tesi dell’infallibilità personale del Papa, ma di ritenere inopportuno proclamare questo dogma perché il suo carattere “assolutista” avrebbe potuto offendere lo spirito democratico del mondo moderno. Temevano anche che gli ultramontani avrebbero esteso retrospettivamente l’infallibilità papale al Sillabo, che aveva condannato i loro piani di una “cristianizzazione del liberalismo”.

Approfittando della sua influenza, mons. Pie si fece dare tutti i discorsi pronunciati, specialmente quelli degli avversari e ne prese nota per adeguare la sua posizione. A volte lasciava trasparire la sua tristezza, dicendo: «ci si stupisce nel vedere come anche gli uomini di Chiesa giudichino le cose esclusivamente dal punto di vista umano»xiv.

La minoranza lottava per prolungare indefinitamente i dibattiti. Il 4 luglio 1870 fu inviato da Parigi un telegramma a un membro del Concilio con queste parole: «Attende qualche giorno, la Provvidenza vi manderà un aiuto inaspettato». Era la guerra (ndt, la guerra Franco-prussiana) già ritenuta inevitabile nelle alte sfere del governo francese, che avrebbe causato il rinvio dell’assemblea conciliare a tempo indeterminato.

Ma il telegramma arrivò troppo tardi. Il giorno prima e quello stesso 4 luglio, un totale di cinquantasei oratori avevano rinunciato a parlare, quindi la discussione fu chiusa. Diversi esponenti della minoranza lasciarono Roma e il 13 luglio la Congregazione generale approvò l’intero schema con 451 placet, 88 non placet e 62 placet juxta modum, cioè con riserva di apportarvi miglioramenti. Alcuni nella maggioranza volevano una definizione ancora più chiara e gli oppositori proponevano di inserire che, per essere infallibile, il Papa doveva fare affidamento sulla testimonianza delle Chiese: nixus testimonio Ecclesiarum, che avrebbe subordinato l’inerranza papale all’assenso dei vescovi.

L’esito dell’iniziativa fu opposta: «La maggioranza ha quindi sottolineato maggiormente il significato delle frasi contraddette», racconta mons. Pie, «e, di fronte a queste minacce dall’interno e dall’esterno, la Chiesa ha comunque affermato la sua Costituzione». Nel canone IV si aggiungeva che il Papa aveva, non già la maggior parte, potiores partes, ma tutta la pienezza del supremo potere. Parimenti, il paragrafo dogmatico del capitolo quarto si completava con queste parole: «(le) definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per sé stesse, e non per il consenso della Chiesa»xv.

Il 18 luglio 1870, l’infallibilità del Papa così intesa e precisata fu solennemente proclamata all’unanimità dai Padri conciliari presenti, meno due, uno dei quali andò a deporre il suo atto di fedeltà ai piedi di Pio IX la sera stessa e l’altro all’indomani. La maggior parte degli oppositori si astenne dalla seduta. Il 19 luglio, così come predetto dal misterioso telegramma da Parigi, iniziò la guerra franco-prussiana e due mesi dopo i piemontesi entrarono a Roma, imprigionando in Vaticano Pio IX e rendendo in questo modo impossibile la prosecuzione dell’assise conciliare, che fu sospesa sine diae.

Una testimonianza eloquente del temperamento pacificatore di mons. Pie la diede mons. Xavier de Mérode. Questo ex soldato di una famiglia principesca belga aveva preso gli ordini sacri e organizzato i famosi Zuavi per la difesa dello Stato Pontificio. Sebbene fosse un amico personale del vescovo di Poitiers, proveniva da un ambiente liberale ed era parte della minoranza. Il giorno dopo la proclamazione del dogma e mentre mons. Pie era già in treno, salì sulla sua carrozza e dopo aver pregato l’entourage di lasciarli soli, i due avversari dottrinali ebbero un lungo colloquio bagnato di lacrime. Mons. Pie dimostrò la stessa benevolenza nei confronti di tutti i membri della minoranza facendo registrare dal settimanale diocesano di Poitiers le adesioni e sottomissioni che poi indirizzava al Sommo Pontefice. Attraverso i suoi personali sforzi caritatevoli, ottenne anche la sottomissione in articulo mortis di padre Alphonse Gratry, le cui opere anti-infallibiliste erano state una delle armi più potenti della stampa liberale contro le dottrine ultramontane. Questi atteggiamenti caritatevoli avevano in mons. Pie una sorgente dottrinale: a differenza delle tendenze gianseniste dei gallicani, aveva assistito il cardinale-arcivescovo di Reims, mons. Thomas Gousset, nell’importare dall’Italia il “liguorismo”, questa dottrina morale teorizzata da sant’Alfonso de’ Liguori che, invece di un Dio terribile promuoveva un Dio di amore e di fiducia.

Una volta ottenuta la vittoria della verità sugli errori liberali e gallicani, il campione francese dell’ultramontanismo non si lasciò trascinare esagerando la portata della definizione conciliare, rendendo il Papa infallibile anche nel suo magistero ordinario o quello non riguardante le questioni di fede e di morale?

Il futuro cardinale Pie sarebbe rimasto sorpreso davanti a una tale domanda giacché conosceva molto bene la debolezza umana e sapeva che l’assistenza divina veniva promessa solo a condizioni molto ristrette: «L’assistenza garantitagli dall’alto [al Papa] non è né ispirazione né scienza infusa. Il suo compito è quindi quello di non trascurare nessuno degli elementi naturali e soprannaturali che possono aiutare il trionfo della verità e l’opera della grazia. Uno di questi elementi è lo studio, il consiglio, la discussione, la messa in comune di tutte le conoscenze e di tutte le esperienze. (…) Prima di pronunciare il suo giudizio, non è da trascurare l’esempio che il Capo della Chiesa diede chiedendo per iscritto i sentimenti dei suoi fratelli dispersi su tutta la faccia del globo e incentivando le deliberazioni orali di tutti coloro che poté raccogliere intorno a sé. È in queste condizioni che Pio IX pubblicò la bolla dogmatica che definisce l’Immacolata Concezione di Maria». Donde la convenienza dei Concili: «Ciò che il linguaggio teologico più moderno chiama insegnamento ex cathedra del Papa, nelle epoche precedenti era chiamato il papa che parla con consiglio: papa loquens cum consilio»xvi.

Mons. Pie era anche ben consapevole del fatto che l’infallibilità pontificia non coprisse il magistero ordinario del Pontefice, ma che, persino nei confronti del suo magistero straordinario, non s’imponeva ai fedeli l’assenso se non sulle sentenze dogmatiche: «Infatti, la teologia ammette che gli atti dottrinali più solenni del magistero della Chiesa, se si impongono all’intelligenza e alla fede dei cristiani per quanto riguarda la decisione finale che essi emanano, restano ancora nell’ambito della controversia per quanto riguarda i preliminari e le considerazioni sulla decisione”. Da allora in poi, la suprema magistratura «forte della sua infallibilità quanto all’essenza delle cose, consegna senza rischio ad un adeguato e rispettoso esame tutto ciò che non è oggetto di tale privilegio»xvii.

Voglia il lettore scusarmi dall’aver largamente superato i limiti di un normale articolo, ma ci è sembrato necessario ripristinare la vera fisionomia intellettuale e morale di colui che fu chiamato a suo tempo “il martello del liberalismo”, come Saint Hilaire de Poitiers lo fu dell’arianesimo.

Se questa fu la grande figura dell’indiscusso paladino dei prelati ultramontani francesi al tempo del Concilio, non si può che naturalmente concludere che «lo spirito del Vaticano I» fu uno spirito intriso di amore soprannaturale per la verità tradizionale e, quindi, uno spirito oggettivo, prudente, equilibrato e sfumato, anche nel vivo della polemica. Pertanto, non c’è nulla da temere da un «ultramontanismo estremo», poiché rappresenterebbe solo un grado ancora più alto della saggezza cristiana. Si è ben lungi dalla versione caricaturale fatta dagli oppositori liberali o gallicani e che, per un malinteso, alcuni tradizionalisti non sufficientemente informati oggi riprendono.

Né lo “spirito del Vaticano I” né l’ultramontanismo sono responsabili della successiva deriva nel senso di una fissazione sulla persona e sul magistero del Papa del momento, a scapito del primato della Tradizione. Questo “magisterialismo” è figlio della corrente liberal-progressista e nasce intorno alla figura di Leone XIII, con l’obiettivo di sostenere la sua controversa politica di “ralliement intorno alla Repubblica”, che si opponeva… agli ultramontani!

Ma questa è un’altra storia e la lasceremo per un prossimo articolo.

Note

[i] Vedere al riguardo l’articolo “Operative Points of View,” di don Chad Ripperger, in Christian Order, marzo 2001 (http://christianorder.com/features/feature_2001-03.html).

[ii] R.P. Lecanuet, L’Eglise et le Second Empire, Paris, Poussièlgue, 1905, p. 430.

[iii] Mons. Louis Bonard, Histoire du cardinal Pie, vol. II, p. 488.

[iv] Lettera pastorale del 14 luglio 1866, in Œuvres de Monseigneur l’évêque de Poitiers, vol. II p. 442-443.

[v] Ibidem, vol. VI p. 67.

[vi] Mons. Louis Bonard, op. cit. p. 330-331.

[vii] Ibidem, p. 331-332.

[viii] Ibidem, p. 340.

[ix] Ibidem, p. 355.

[x] Ibidem, p. 365

xi Ibidem, p. 375-377.

[xi]i Ibidem, p. 377-378.

[xii]iIbidem, p. 384.

xiv Ibidem, p. 388.

xv Ibidem, p. 392.

xvi Ibidem, Lettre pastorale et Mandement del 24 maggio 1869, in Œuvres vol. VI, p.408-409.

xvii Ibidem, Allocuzione del dicembre 1861, in Œuvres vol. VI, p. 339.

FonteOnepeterfive, 12 Ottobre 2021. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia