di Patrizia Fermani
Marc Fumaroli nella sua monumentale biografia di Chateaubriand, osserva come, fra gli scrittori della controrivoluzione, occorra distinguere quelli che con varie articolazioni proposero una diversa teoria politica rispetto ai sistemi di idee propulsivi del fenomeno rivoluzionario, da chi si oppose alle diverse forme assunte da questo nelle varie circostanze storiche, pur senza avere elaborato un sistema di idee alternativo.
Infatti vediamo addirittura, come alcuni di quelli che sarebbero diventati convinti oppositori, per la ripugnanza degli effetti prodotti e dai mezzi adottati dalle dirigenze e dalle masse rivoluzionarie, avessero condiviso all’inizio, e almeno in parte, principi ispiratori della rivoluzione. A cominciare da Andrea Chenier che, da simpatizzante delle idee rivoluzionarie, finì per salire al patibolo quale oppositore irriducibile della Rivoluzione avviata verso i suoi esiti devastanti.
Anche Chateaubriand non sembra elaborare una teoria alternativa ma è un critico attento delle teorie rivoluzionarie, e nel suo viaggio in America annota critiche e riflessioni sul sistema democratico presagendo le sue degenerazioni al pari di Tocqueville con le cui osservazioni è interessante stabilire un confronto.
“La democrazia non solo fa dimenticare ad ogni uomo i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti, e lo separa dai suoi contemporanei; essa lo riporta continuamente solo a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del proprio io.”
Nel suo romanzo “René”che narra le vicende di un francese capitato nelle colonie francesi vede come il primo compito che si dà una “società civile” è quello di aprire un inferno carcerario come quello rivoluzioinario in cui troverà la morte sua madre.
“gli europei non avevano ancora tombe in America , ma vi avevano già costruito le prigioni: unici monumenti del passato per una società priva di di avi e di ricordi”.
D’altra parte non era chiuso, per indole, dentro pregiudizi di classe e stringeva liberamente i rapporti umani guidato da uno spirito libero e aperto piuttosto che da un malinteso mito dell’uguaglianza. Aveva letto Rousseau ma ne aveva condiviso soprattutto l’idea della libertà che viene dal contatto con la natura. La libertà assaporata e goduta nell’infanzia nelle scorribande nei boschi attorno al castello di Combourg in Bretagna, ai quali è sempre tornato nel ricordo con la struggente nostalgia del paradiso perduto. In quel castello medievale la severa educazione paterna era stata mitigata dalla dolce religiosità e dalla gioiosa ‘indole materna.
La controrivoluzione di Chateaubriand sarà non per nulla quella condotta per contrappunto anche sul piano letterario ed estetico, mettendo a confronto il genio del Cristianesimo con le degenerazioni dell’illuminismo, in seno al quale anche le idee che avevano potuto presentarsi come buone si erano rovesciate in una fonte di catastrofi.
Perché le idee, come diceva Prezzolini, prendono l’uomo che però non sa dove lo porteranno.
Non pensava che ogni rivoluzione fosse un male in sé, ma “ Una rivoluzione può essere buona solo se combatte un male cui non sostituisce un altro male. Non lo è per nulla quando vi sostituisce un male più grande”. E il male più grande lo aveva sperimentato in prima persona quando il mostro rivoluzionario partorito in qualche modo per eterogenesi dei fini da idee ormai degenerate, gli aveva scaricato addosso un indicibile fardello di sofferenze.
Egli riusci a sopportare quel fardello solo grazie ad una fede ritrovata, ad un patrimonio di valore morale, alla geniale capacità di elaborazione poetica e ad una non mai sopita gioia di vivere.
In ogni caso i fatti pubblici e privati che in un modo o nell’altro lo coinvolsero fino alla fine della vita, e i frutti letterari che ne derivarono, hanno una portata che va ben al di là della biografia, perché contengono in sé una straordinaria densità di significato storico, filosofico, politico, religioso e antropologico.
In fondo la sua stessa vita è stata il grande romanzo storico che non ha avuto bisogno di una straordinaria immaginazione per farsi racconto di eventi mirabolanti e inauditi, e delle eterne vicende dell’anima umana. Da testimone oculare, ha offerto in forma letteraria la possibilità di conoscere la verità profonda delle cose.
“Ho visto finire e cominciare un mondo, e i caratteri opposti di questa fine e di questo inizio si trovano mescolati nelle mie opinioni poiché mi sono trovato all’incontro tra questi due secoli come alla confluenza di due fiumi “
Su questo sfondo, è particolarmente interessante osservare come i due poli essenziali entro cui egli ripercorre nei “Memoires d’outre tombe”questa vita che rispecchia essa stessa un pezzo decisivo di storia, sia la follia del terrore e la follia napoleonica. Poli di una degenerazione culturale e politica che allunga la propria ombra minacciosa fino a noi e che invece, paradossalmente, rimane incastonata in una cornice agiografica ufficiale, quali pietre miliari di un’era nuova e progressiva per definizione.
Infatti abbiamo a che fare, con due simulacri, quello rivoluzionario e quello napoleonico, la cui realtà e le cui conseguenze sono state circondate da un cordone protettivo che ne sbiadisce la mostruosità con un assolutorio “nonostante tutto”.
Nonostante il terrore, i suoi antefatti e le sue conseguenze, si inneggia comunque alle “conquiste” rivoluzionarie, come si celebra il Grand’uomo che infiniti lutti, per dirla con Omero, addusse all’Europa tutta, non meno che al proprio paese.
Gli osceni orrori, le immani inutili stragi e le sconce rapine, le selvagge distruzioni che non dovrebbero ammettere assoluzione di sorta, tutto viene retrocesso a “effetto collaterale”, un po’ come fece icasticamente Madeleine Albreight a proposito della morte procurata a mezzo milione di bambini iracheni dalla generosa esportazione della democrazia, per cui si poteva dire “che ne era valsa la pena”.
Quanto alla Rivoluzione, quella che ne sarebbe stata la sostanza, si preannunciò già nel tuttora celebratissimo 14 luglio, che nulla avendo a che fare con il lume della ragione, fu la miccia appiccata alle forze belluine compresse ma sempre latenti pericolosamente nella specie umana, nonché alla forza sempre in agguato della stupidità. Insomma per misurare l’ombra sinistra che avrebbe oscurato tutto il palcoscenico parigino, non fu necessario aspettare l’allucinata follia di Robespierre.
Già Alessandro Manzoni nella sua acutissima “Storia della rivoluzione francese, purtroppo rimasta incompiuta, vede quella follia già tutta spiegata nell’epico “assalto portato contro qualche invalido e un timido governatore”. La testa staccata di questi, issata su una picca, e portata in macabra processione, inaugurerà un rituale di lunga durata.
Chateaubriand assiste allo spettacolo delle carrozze che sfilavano o s’arrestavano ai piedi delle torri da cui si facevano rotolare le pietre in un turbinio di polvere. Vede signore eleganti e giovani alla moda appollaiati sui diversi strati di macerie gotiche mescolati agli operai nudi che demolivano le mura, in mezzo alle acclamazioni della folla.
Pochi giorni dopo, il re è tornato a Parigi, ha messo una coccarda tricolore sul proprio cappello e à l’Hotel de la Ville è stato dichiarato “onest’uomo, padre dei francesi, re di un popolo libero”,”il quale popolo si preparava, grazie alla sua libertà, a tagliare la testa di quest’uomo onesto, suo padre e suo re”.
Chateaubriand è alla finestra della casa presa in affitto a Parigi, in compagnia delle sue sorelle e di qualche conterraneo bretone, quando si sente gridare;” chiudete e porte, chiudete le porte”. Allora vede avanzare fra la folla, due teste staccate e sfigurate che le avanguardie di Marat portavano sulle picche. Sono quelle di due innocui funzionari, Fullon e Bertier. Al secondo un dragone ha persino staccato il cuore che poi è andato a depositare sul tavolo del comitato degli elettori.
Mentre le sue sorelle svengono Chteaubriand grida dalla finestra:“Briganti, é cosi che intendete la libertà?” Quelli tentano di sfondare il portone, ma poi per non perdere troppo tempo proseguono con i loro trofei.
“Ebbi orrore di questi festini di cannibali e decisi allora di partire per qualche paese lontano”. Non è ancora la follia del potere con cui si misurerà prima la sua vita privata e poi quella pubblica di grande letterato diventato anche uomo politico. Ma quanto accade già nell’89 è l’avanguardia degli avvenimenti micidiali che seguiranno velocemente perché la dissoluzione di ogni ordine si allargherà con una velocità impensata e impensabile.
Egli osserva come in una società che si dissolve e si ricompone, la lotta tra passato e avvenire, tra costumi antichi e nuovi, formi una combinazione esplosiva, mentre le passioni e i caratteri in libertà sprigionino una energia sconosciuta, “ il genere umano rientra nello stato di natura e non ricomincia a sentire la necessità di un freno sociale che quando si accorge di portare il giogo di nuovi tiranni partoriti dalla licenza “.
Infatti ecco che il caos e la baldoria prendono a dominare su tutto. Il fracasso e la confusione regnavano all’Assemblea. Il monaco metteva la domenica il cappello tondo e l’abito borghese e il cappuccino andava a leggere il giornale nella trattoria di campagna in mezzo ad un cerchio di femmine folli, mentre “la folla invadeva i conventi aperti a tutti, come fanno i viaggiatori a Granada nelle sale dell’Alhambra,” e i viali e i giardini erano inondati da “femmes pimpantes”.
” La maggior parte dei cortigiani noti per la loro immoralità erano arruolati sotto la bandiera tricolore. Ma appena la Rivoluzione si ingrandì abbandonò con disprezzo i frivoli apostati: aveva avuto bisogno dei loro vizi. Ebbe bisogno delle loro teste”.
Intanto il caos aumentava: bastava avere un nome aristocratico per essere esposto ad ogni persecuzione.
Finalmente nell’aprile del 1791 riesce ad imbarcarsi per l’America, accompagnato dalla immagine di sua madre in lacrime sulla banchina . Tornerà nel gennaio del 1792. in tempo per vedere come le cose siano intanto precipitate.
“ La devastazione è ovunque. Emblematica quella del convento dei cordeliers dove si è installata la fazione giacobina che da esso ha preso il nome. Il luogo è reso ormai irriconoscibile per la furia belluina che vi ha imperversato. “I quadri, le immagini sacre scolpite o dipinte, i tendaggi e le tappezzerie del convento erano state strappate via, la basilica scorticata mostrava solo le sue ossa e i suoi costoloni. Nell’abside dove il vento e la pioggia entravano attraverso i rosoni senza vetrate, si tenevano le sedute”.
In quella sorta di bolgia infernale campeggia la figura di Danton che la filmografia moderna si è sforzata di trasformare nel contraltare pensoso e sofferto del Robespierre autore della sua condanna a morte. Eppure da questo inferno egli organizzerà i massacri di settembre, quelli che allontanarono dalla rivoluzione anche tanti simpatizzanti della prima ora i quali pagheranno questo ravvedimento con la vita.
Il 20 marzo 1792 l’assemblea legislativa adotta la ghigliottina, il mezzo esemplare per eseguire in modo democratico le sentenze del Terrore.
Insomma Chateaubriand fa in tempo a vedere i frutti nefasti prodottisi durante i mesi passati in America. Sa di non avere scampo. Nell’estate raggiunge l’esercito degli emigrati e, ferito in battaglia a Thionville, passa in Inghilterra dove rimarrà esiliato fino al 1800.
D’ora in poi sarà investito da lontano dalla falce del Terrore che si abbatte intanto sulla sua famiglia. Sua madre morendo in carcere detta una lettera per lui alla sorella Lucie che morirà prima che la lettera arrivi a destinazione. Viene decapitato il fratello maggiore insieme alla moglie e a gran parte della sua famiglia, compreso Malherbes suocero di una delle altre sorelle, e impotente difensore di Luigi XVI, che avendo ben compreso la gravità degli eventi in arrivo, già l’anno prima aveva incoraggiato Francois a riparare altrove.
La morte della madre lo riconduce alla religione che pure ha praticato da bambino sotto la sua guida in un paese di chiese e campanili, dove la vita era scandita dalle feste cristiane e gli animi addolciti dalla carità. Per i lutti che si abbattono ora sulla solitudine dell’esule, c’è soltanto il ricorso alla luce del Cristianesimo di cui ritrova la grandezza salvifica.
Ma non lo sente soltanto come un salvacondotto personale per far fronte alla disperazione e al dolore: comprende come esso sia stato per secoli il cathecon capace di mantenere all’uomo la sua dignità di creatura e di fargli riconoscere in Dio creatore l’unica guida affidabile, anche entro la stessa parabola della vita terrena, individuale e collettiva.
Sopravvissuto ad un olocausto, sotto il peso di tanto dolore, concepisce allora “Il Genio del Cristianesimo”, che diventerà anche per molti sopravvissuti in patria, il sostegno capace di risollevare gli animi alla speranza e alla vita.
Nel 1800 finalmente, dopo un’assenza di otto anni, e dopo avere acquistato in Inghilterra una grande notorietà grazie alla pubblicazione di alcune opere fra cui il “ Saggio sulle rivoluzioni”, torna in una Francia, dove peraltro sa di non avere più né beni né asilo né famiglia, e che egli sente ormai come “un seno di pietra”.
Tuttavia trova anche amici fidati che lo introdurranno nei salotti ormai riformatisi all’ombra del Consolato.
Si è imbarcato in maggio a Dover con un passaporto falso perché il proprio nome, inserito nel 1792 nell’elenco degli emigrati traditori della patria. gli potrebbe essere ancora fatale.
Da Calais in poi gli si presenta subito e ovunque una terra devastata insieme alle ferite mortali inflitte dalla scristianizzazione; “sembrava che fosse passato il fuoco nei villaggi; essi erano miserabili e in parte distrutti. Ovunque fango e polvere, letame e macerie” . Ma allo stesso tempo sui muri campeggiano le scritte rivoluzionarie : Libertà, uguaglianza, fraternità o morte.
Nei pressi di Parigi si imbatte nell’orrore di Saint Denis. L’abbazia, prototipo bellissimo dell’arte gotica, era diventata da secoli il luogo destinato ad ospitare tutte le tombe dei re di Francia a partire da quella risalente al settimo secolo, del primo sovrano Dagoberto.
Ora la chiesa era “scoperchiata, con le finestre infrante; la pioggia penetrava nelle navate inverdite, e non c’erano più tombe”.
Come è noto, un decreto della Convenzione del luglio 1793, su proposta di Barère, aveva disposto che tutte le tombe dei re di Francia e dei loro famigliari fossero distrutte e i resti mortali gettati in una fossa scavata dietro la chiesa. La Francia rivoluzionaria nata dai Lumi, aveva voluto cancellarsi alle spalle dieci secoli di storia.
La testimonianza dettagliata di questa follia distruttiva era contenuto nel resoconto stilato dall’Abate per ordine della Convenzione e che Chateaubriand inserirà in appendice al suo “Genie du Christianisme”.
Oggi possiamo osservare come quella ossessione anticristiana lungi dall’essersi spenta nel tempo, abbia attinto nuova linfa vitale dalla follia di dominio delle oligarchie del denaro che guidano i governi europei e quello francese in particolare.
Il fuoco che qualche anno fa, in modo sorprendente quanto sospetto, ha distrutto la copertura di Notre Dame, in assenza di qualunque sistema antincendio, ha già spianato la strada verso una sua nuova destinazione, ad usi ed abusi profani più moralmente e economicamente redditizi. Il tutto ovviamente, in attesa di un definitivo aggiornamento architettonico, magari del tipo inflitto a suo tempo da Gae Aulenti, musa del progressismo più illuminato, alla Gare d’Orsay.
Dopo lo scempio di Saint Denis, Chateaubriand scopre però anche “la capacità di amnesia dei francesi”. Il Terrore pare dimenticato, i giardini dei conventi demoliti sono diventati parchi di divertimento, le chiese sono state trasformate in caffè e teatri. E anche questo sembra dunque lo specchio anticipato della nostra contemporaneità.
Questa sorprendente capacità di amnesia lo sconvolge e la misura attraversando la piazza Luigi XV che diventerà de la Concorde. Scrive nelle Memorie :
:” Era nuda, la si attraversava velocemente, ero tutto stupito di non sentire lamenti; temevo di posare il piede in un sangue di cui non restavano tracce, i miei occhi non potevano staccarsi dal punto del cielo in cui si era innalzato lo strumento di morte. Credevo di vedere in camicia legati davanti alla macchina sanguinaria mio fratello e mia cognata. Lì era caduta la testa di Luigi XVI.
I campanili delle chiese tacevano, mi sembrava di essere tornato nel giorno dell’immenso dolore, il giorno del Venerdi Santo”.
Invece tutto intorno c’era tanta allegria nelle strade. Sugli Champs Elisées erano aperti “ chiassosi locali da ballo che sembravano ricoprire di oblio e di disprezzo il sangue degli innocenti “.
Tuttavia trova per sé anche una Parigi accogliente. Il suo romanzo “Atala”, diventa presto un grande successo letterario che dà al Primo Console la soddisfazione di vedere risorgere le arti sotto il proprio regno. Una soddisfazione che aumenterà ancora con la pubblicazione del Genio del Cristianesimo durante la settimana santa del 1801, alla vigilia del Te Deum di ringraziamento per il Concordato firmato da Bonaparte con la Chiesa. Il rovesciamento della fortuna dell’autore è totale.
L’opera è un grande inno alla fecondità spirituale del Cristianesimo che si mostra in modo stupefacente nella sua straordinaria capacità di creare bellezza. Un’idea ripresa fortemente da Benedetto XVI quando chiosava che in fondo la prova migliore della verità della religione cattolica sta nella bellezza creata per essa e da essa attraverso i secoli.
Chateaubriand sente in se stesso la fecondità letteraria del Cristianesimo cattolico che si contrappone con prepotenza alla sterilità contro natura dispensata dalla filosofia illuminista ai giovani dei quali ha seccato lo spirito e l’immaginazione. Con la conversione indotta da tanti tormenti e sgomenti, egli ha ritrovato intatta nell’anima l’eco gioiosa delle feste cristiane e la suggestione dei luoghi di culto della sua infanzia, delle sue preghiere di bambino.
Ma il suo è anche, o soprattutto, il tentativo di riportare alla luce la poetica del regno cristiano dove la memoria religiosa comune diventa anche idea di patria. La storia collettiva e il comune sentire identitario trovano la loro amalgama proprio nel cristianesimo da cui sono inseparabili.
Tutto ciò non poteva non piacere e non servire, come abbiamo visto a Bonaparte che gli affida delicati incarichi diplomatici.
Ma il 21 marzo 1804 il rapimento e la infame fucilazione senza processo del duca d’Enghien lo mettono di fronte al cieco dispotismo di Bonaparte. Questi ha ordito questo osceno assassinio, solo per darsi una buona patente di fedeltà rivoluzionaria in vista della creazione del proprio impero.
Chateabriand dà le dimissioni da ogni incarico e, ormai disincantato, nel secondo libro delle Memorie ripercorre le tappe della carriera di massacratore dell’imperatore autoincoronato, che ormai gli appare chiaramente come l’erede diretto del terrore giacobino.
Quella sinistra carriera Napoleone l’aveva inaugurata a Tolone, proprio là dove si era conquistata la gloria di genio miliare che sarà poi sempre celebrata anche nei nostri libri di scuola media.
Infatti, ripresa Tolone, “ i capestri si drizzarono. Vennero riunite ottocento persone al Campo di Marte. Furono mitragliate. I Commissari si fecero avanti gridando: “coloro i quali non sono morti si rialzino; la Repubblica fa loro grazia “ e i feriti che si rialzarono furono massacrati”.
In un biglietto firmato Bonaparte e indirizzato ai commissari della convenzione si legge :
” dal campo della gloria, la Francia è vendicata. Non sono stati risparmiati né età né sesso. Coloro che non erano stati che feriti dal cannone repubblicano sono stati fatti a pezzi dalla spada della libertà e dalla baionetta dell’uguaglianza”. Su chi avesse dato l’ordine non ci possono essere dubbi.
Il linguaggio non è dissimile da quello psicopatico di un Tureau a capo delle sue colonne infernali in Vandea.
Del resto un gran talento per la bassa macelleria il futuro grand’uomo non mancherà di esibirlo anche a Giaffa, dove ordinò la fucilazione di due o tremila prigionieri che si erano arresi e che, una volta finite le munizioni, furono finiti a sciabolate.
La descrizione di quella carneficina fatta da un testimone oculare è sconvolgente, L’esercito obbedi diligente prima di abbandonarsi ad un orrendo saccheggio della piazzaforte conquistata. La follia del capo si comunicava ai soldati.
Chateaubriand, tornando poi alle grandi battaglie vinte in seguito nel cuore dell’ Europa da Napoleone, osserva come esse abbiano inaugurato una forma di guerra mostruosa, che rimarrà tale per il tempo a venire, e che per la prima volta fu tutta fondata sulla enormità delle forze messe in campo e sulla contigua enormità dei massacri prodotti, ingigantiti da mezzi tecnici sempre più micidiali.
“Napoleone, esagerandola, ha ucciso la guerra. L’occhio non può abbracciare i campi di carneficina che non produssero neppure risultati proporzionati alle loro calamità”.
Tuttavia tanta insensatezza non doveva fermarsi prima della catastrofe finale.
Venne la campagna di Russia dove la corsa folle fu arrestata soltanto col sacrificio di Mosca e con l’inverno che distrusse la enorme armata.
Ma tanto sangue versato e tante sofferenze inflitte non dovevano saziare ancora quella follia. Essa si ripropose dopo l’Elba e ancora una volta con la stupefacente capacità di produrre una immane ecatombe.. La Francia spopolata dei suoi uomini, viveva ormai di fantasmi.
Chateaubriand ricorda come a Sant’Elena emerga anche la pochezza dell’uomo che aveva sconvolto il mondo per una allucinata idea di potenza e una smisurata idea di sé.
Scriveva infatti, scusandosi: “Sono forse i russi che mi hanno annientato? No, sono i falsi rapporti, gli intrighi idioti, il tradimento, la stoltezza, un’infinità di cose insomma che forse un giorno saranno risapute e potranno giustificare i due errori che in diplomazia come in guerra mi vengono attribuiti”.
Ma se questa pochezza morale innestata in una personalità dai tratti paranoici ha potuto trascinare alla rovina enormi masse sottomesse da una volontà dispotica, le immani ecatombi napoleoniche hanno fatto da modello a quelle del ventesimo secolo che tornano sinistramente ad allungare la loro ombra sul mondo. Se egli ha distrutto alla fine e per primo persino il concetto stesso della guerra, portata ormai fuori dall’alveo dello jus publicum europaeum, ha messo a nudo il vuoto di senso in cui è sprofondata una civiltà. Del resto già a partire dal’assassinio del duca d’Enghien Chateaubriand aveva visto nel titanismo dispotico di Bonaparte uno dei sintomi più pericolosi del male del secolo.
Gli orrori rivoluzionari e quelli del dispotismo moderno non sono certo una novità assoluta rispetto al passato. Diverse sono stati i mezzi impiegati e le dimensioni del male inflitto dal potere dell’uomo sull’uomo. Osservava Burckardt, a proposito delle poleis greche, come lì tutte le punizioni politiche hanno il carattere della vendetta e della liquidazione senza quartiere. E vengono puniti anche i figli degli esiliati e dei condannati a morte, mentre la persecuzione può investire anche i predecessori con la devastazione delle loro tombe.
La vicenda di Saint Denis dunque ne è solo una interpretazione moderna che applica anche il principio di uguaglianza dal momento che la distruzione è stata estesa agli infanti e ai più lontani antenati dei re di Francia.
Ma il fatto inquietante è ovviamente che dopo tanti secoli quella misura feroce sia stata applicata in nome di principi nuovissimi nati dalla pretesa maturazione culturale e politica di una modernità talmente illuminata da potersi dire liberata dal fardello del cristianesimo.
Questo è proprio il punto su cui va fermata l’attenzione. lo stesso Burckardt nell’affrontare il problema del potere e delle sue devianze, sottolineava come la sua possibile cattiveria si mostri in modo esemplare in Luigi XIV, in Napoleone e nei governi rivoluzionari francesi, in quanto già tutti appartenenti alla modernità.
Il potere viene definito comunemente in senso politico sociale come la capacità dell’uomo di determinare la condotta dell’uomo ovvero come potere dell’uomo sull’uomo. E, aggiungerei, in quanto abbia una qualche struttura istituzionalizzata, una organizzazione che ne assicura l’efficacia.
Tuttavia, nota Carl Schmitt nel suo “Dialogo sul potere”è proprio nel XIX secolo che ha iniziato a diffondersi la tesi del potere cattivo, cioè “ è esattamente a partire dall’epoca in cui si doveva compiere la umanizzazione del potere, cioè dalla Rivoluzione francese, che si diffonde irresistibilmente la convinzione che il potere sia in sé cattivo. Non solo. Il detto “Dio è morto “ e “il potere è in sé cattivo”, nascono nel medesimo tempo e dalla medesima situazione”. Perché in fondo, conclude, essi sono la stessa cosa.
Anche Burckardt aveva associato la devianza del potere alla eclissi di Dio ed a questa in fondo Chateaubriand riconduce la follia e l’orrore che hanno attraversato in forme diverse la proprie vita e quella dei suoi contemporanei.
D’altra parte la negazione di Dio è la forma ammodernata di quella ybris che induce al superamento del limite e della misura alla quale l’uomo deve attenersi secondo ragione per poter essere e rimanere veramente “umano”. Quella ybris in cui gli antichi avevano visto la fonte di ogni male, e che sembra non esaurire mai la propria capacità di produrre il male.
Ora è sotto gli occhi di tutti come oggi una debordante follia del potere minacci in modi del tutto nuovi e con mezzi sconosciuti al passato le anime, le menti e i corpi, la intera nostra vita individuale e collettiva. Tuttavia non è consentito l’apparente e suicidario commodus discessus del “non c’è alternativa”.
Soprattutto per la responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni, non è consentita una resa senza condizioni. Occorre un recupero culturale capace di opporre alla cecità indotta dall’inquinamento mediatico di cui si serve il potere, la capacità di vedere la verità delle cose senza l’oscuramento della ragione. Dobbiamo recuperare il senso del diritto al di là della prepotenza e della manipolazione della legge, con cui il potere realizza la propria ybris. Occorre ritrovare la sostanza metafisica delle cose oltre ogni loro mortificazione nella prassi. Occorre ritrovare la vera unica legge degna di essere obbedita perché dettata dalla ragione superiore di Dio.