Tratto da: Europa Cristiana
di: P. Amerigo Berti
Sul fatto e sul tema dell’omosessualità, la Chiesa ha già parlato e detto la sua, e non da oggi, perché tale problematica è molto antica: se ne parla addirittura già nel libro della Genesi, con il famoso episodio di Sodoma e Gomorra (Gen 19,1-29); torna sull’argomento poi a più riprese san Paolo quando affronta la vita morale del cristiano e il suo vivere alla luce del Cristo risorto. Su tale questione la Chiesa, nei vari secoli, ha sempre avuto un atteggiamento univoco, chiaro, con un responso unico nel dipanarsi dello scorrere dei tempi e delle culture. E il responso è questo: l’omosessualità è peccato. La cosa è molto semplice da capirsi, non ci vuole la laurea in teologia. A volte si sente, anche da persone di Chiesa, introdurre il tema con queste parole: «Si tratta di fenomeno molto complesso… occorre valutare tutte le complicate cause e le concause… i giudizi devono essere sempre articolati perché le cose sono più difficili di quanto non sembrano, ecc.». Discorsi. Al contrario, il fatto è molto lineare, e si riassume in una sola parola, chiara ed evidente per un cristiano. È un peccato. Punto.
Non lo dice un Papa, non lo dice un teologo: lo dice Dio. Si può essere d’accordo o meno con Dio, ma non si può fare dire a Dio quello che Egli non dice, o non fargli dire quello che invece afferma.
Il discorso qui lo affronto dal punto di vista della Chiesa.
Chi non è nella Chiesa, chi non crede, chi non ha fede, ovviamente è libero di pensarla come vuole, perché c’è libertà di pensiero, ma dalla parte della Verità di Cristo, dobbiamo affermare che lo Spirito Santo ha espresso la verità in proposito, e noi non possiamo cambiare nemmeno uno iota della Legge divina.
E non è da pensare che l’affermazione «questo è un peccato» sia parlare male del peccatore. Questo, infatti, sembra sia il sentire comune, se arriveranno leggi che condanneranno chi «parla male» delle persone omosessuali. Noi non parliamo “male” di nessuno, parliamo secondo le cose «giuste» dell’ordine divino, al quale uno può essere naturalmente libero di aderire o meno. E il «giusto», voluto da Dio, è Dio stesso, come esprime la magistrale preghiera del profeta Daniele nella fornace: «Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto e tutte le tue opere sono vere; rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi» (Dn 3,27).
Il punto di vista cristiano, infatti, è girato sempre verso il bene. Quando io dico ad una persona: «ti voglio bene» esprimo un sentimento personale soggettivo, ossia il mio amore verso la tale persona. Se invece gli dico: «Io voglio il tuo bene», lo coinvolgo nella mia volontà che desidera sommamente il bene suo, quindi mi pongo sulla parte oggettiva dell’agire. In altri termini, affermo: «Io vivo affinché tu realizzi il tuo bene, perché so che nel realizzarlo vi è la tua felicità somma, ed io sarò contento solo nel saperti felice, perché ti amo». Mi pare tutt’altra cosa. Dal punto di vista cristiano, volere il bene dell’altro non è augurargli soltanto la salute del corpo, che comunque dura finché si vive nel tempo, non è nemmeno procurargli una felicità mondana che passa in fretta, ma è lottare e combattere per la sua salvezza eterna. E siccome il peccato è l’ostacolo numero uno che impedisce la vita eterna, volere il bene di chiunque significa fare di tutto per togliere alla persona amata gli ostacoli per il raggiungimento del suo fine, che è la vita in Dio.
Se tutto questo è vero, quando mi trovo davanti una persona omosessuale, mi devo confrontare con la parola di Dio che la riguarda: «Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti erediteranno il Regno di Dio» (1 Cor 6,9-10).
Noi, infatti, non siamo nostri: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (vv. 19-20). Il quale corpo, ci ricorda l’apostolo, «non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo» (v. 13).
Più che di morale si tratta allora di una questione di giustizia – di cui tutti parlano e che tutti vogliono – semplicemente perché è detto che il Regno di Dio è questione di giustizia. Non lo sapevate? Pensavate che il Paradiso fosse un bengodi dove i salvati ballano la tarantella? Niente affatto: «Il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevande, ma è giustizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). Sorpresa!
Gli ingiusti, quindi, non erediteranno il Regno, perché il Regno, come detto, è una questione di giustizia. Meno male! E il bello è che il Giudice ha già parlato. Ha emesso la sentenza, e per questa è morto sulla croce. Ma per entrare nel Regno, bisogna passare necessariamente per quella croce, accoglierla, benedirla, portarla con amore, dal momento che dobbiamo tutti combattere contro il peccato e dominare le passioni ingannatrici.
Noi non pretendiamo che qualche Parlamento di qualsiasi Stato sia necessariamente giusto e faccia automaticamente leggi giuste e sagge, ma nemmeno possiamo venire meno alla verità professata nella Chiesa, che è assai superiore a qualsiasi decreto di Stato. Nessuno ci toglierà questa libertà. La differenza tra Chiesa e mondo, in questo senso, la annota con intelligenza e arguzia il grande teologo domenicano Reginald Garrigou Lagrange: «La Chiesa è per principio intransigente perché crede, nella pratica è tollerante perché ama. I nemici della Chiesa sono tolleranti per principio perché non credono, e intransigenti nella pratica perché non amano».
Dunque, alla persona omosessuale dobbiamo semplicemente dire che la pratica omosessuale è peccato, toglie la grazia, separa l’uomo da Dio. Ciò, al contrario di essere espressione di disprezzo, è un atto sommo di carità, perché io voglio il bene di quella persona, ossia la sua salvezza eterna. Ovviamente io stesso sono peccatore, e so bene che il campo della vita della carne si presta a cadute di ogni genere, ma questo non toglie che lo splendore della Verità sia il punto al quale tutti guardano, per potersi purificare, elevare, santificare. L’amore infatti non è un sentimento, ma è volontà di bene, e il bene è la Verità. Questa è la dottrina di san Tommaso d’Aquino, che non pretendiamo sia conosciuta dai ministri di Stato (anche se sarebbe cosa ottima da augurarsi), ma nella Chiesa queste cose le sappiamo. Nulla e nessuno potrà obbligarci a pensarla diversamente, e dire bene ciò che male e male ciò che è bene (cfr. Is 5,20).
Se il corpo non è per l’impudicizia, ma per la gloria di Dio, e se siamo chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo, non possiamo farne certo uno strumento di peccato, e questo vale per tutti, qualsiasi sia la vita della sessualità avvertita e sentita. Se cadiamo, ci rialziamo immediatamente, con il serio proposito di non ricadere mai più e, se pentiti, il Signore ci perdonerà, ma la condizione fissa e continuativa di peccato crea una “struttura” che la Chiesa non può approvare.
Dio, infatti, non ci ha amato per scherzo, o per finta, ma si è fatto crocifiggere per far sì che noi potessimo avere parte con Lui nella vita eterna. E noi lo sappiamo: chi sceglie Dio deve essere disposto a mettere sulla bilancia Dio da una parte, e tutto l’universo dall’altra, e scegliere. Troppo facile per noi accomodare Dio e il mondo, Dio e in nostri istinti o la sete di potere. Dio non si irride, ma si dona. E se si dona, ci dà quella pace del cuore che il mondo non ha, perché non la possiede.
La risposta, dunque, ancora una volta, è Cristo. «Il cristiano non nega lo splendore del mondo – scrive Nicolas Gomez Davila – ma invita a ricercarne l’origine, ad ascendere verso la sua neve immacolata». Certo, è un sacrificio per tutti salire verso le cime innevate, ma alla fine il risultato ha valore di eternità. Ricercare la felicità solo nelle cose di questo mondo, invece, rinnegando la natura e la paternità di Dio, fa perdere sia la felicità del mondo che quella eterna. Ne vale la pena? No. Siamo in pochi ad affermare e difendere questa verità? Non importa. «Quando una cosa è importante – commenta lo stesso autore colombiano – tanto meno importa il numero dei suoi difensori. Se per difendere una nazione c’è bisogno di un esercito, per difendere un’idea basta un solo uomo. Le architravi secolari poggiano su spalle solitarie».