Tratto da: Quaderni del Covile n.403 del 4 luglio 2007

Di Roberto Berardi

Da: “Lettera a una Professoressa” Un mito degli anni Sessanta, Shakespeare and Company,
1992, Milano.

La Lettera, oltre alla vendetta di cui non faceva mistero, si riprometteva di fare qualcosa che servisse agli alunni e ai loro genitori, cui rivolgeva l’invito a organizzarsi. Nella realtà, le conseguenze furono largamente negative, e proprio a carico di quei ceti che Milani diceva di voler aiutare.
L’amore per i più poveri era reale. Ma nell’animo di chi scriveva la Lettera esso veniva elaborato attraverso la mediazione di groppi psicologici negativi, per cui fu riespresso nella forma di una predicazione di odio per i veri o presunti nemici dei poveri. Questa atmosfera deformante è forse l’elemento che più ha danneggiato la Lettera, sia per la reazione emotiva nei lettori che detestavano gli estremismi, pur perseguendo il miglioramento della scuola del popolo, sia perché la faziosità ha alterato gravemente i contenuti e la solidità logica dell’impianto. Così, sovente, la verità è stata trasformata in sofisma, le analogie non hanno avuto legami reali tra loro, dalle premesse sono state tratte conseguenze che solo apparentemente sono tali. […]

I motivi del successo
[…] Il centro sinistra, isolando all’opposizione il partito comunista e i suoi fiancheggiatori, aveva acuito in quegli anni la polemica politica; l’esaltare la figura di don Milani e tutto quanto egli faceva e diceva — anche se le sue posizioni, per il loro stesso estremismo, non collimavano con quelle di molti suoi sostenitori — poteva servire, e servì alla polemica antigovernativa, e più latamente alla polemica contro la società “capitalistica e borghese”, di cui molti, all’estrema sinistra, ritenevano prossima la disfatta.
Oltre al clima politico, contribuì al successo della Lettera anche, e forse più, l’atmosfera culturale dell’epoca. Da parecchi anni era venuto di moda nei libri, sui giornali, nelle università, il criticare astrattamente e radicalmente le istituzioni e i loro rappresentanti, dallo Stato alla famiglia alla scuola, dai governanti ai genitori ai professori, rispolverando miti giovanilistici che avevano avuto fortuna sotto il fascismo, quando persino l’inno nazionale era Giovinezza, e i giovani erano presentati come il motore della storia.
[…] La contestazione studentesca, affacciatasi nelle nostre università intorno al 1965, avviò quel processo di alterazione fantastica della verità, di disprezzo portentoso dei fatti che di crescendo in crescendo avrebbe preparato il terreno culturale ai deliri dell’eversione armata. Di questa tendenza all’alterazione della verità, la Lettera è già documento; e ciò contribuì al suo successo tra gli utopisti, che di tale alterazione si alimentavano Essa fu pure eco e amplificazione dei fermenti populistici di quegli anni; il suo successo fu anche dovuto alla contemporanea diffusione della “cultura” dello Stato assistenziale che nella tesi fondamentale della Lettera trovò una sponda (il “non bocciare corrispondeva in certo modo al ‘ ‘non rifiutare mai una pensione d’invalidità”, atteggiamento che venne di moda in quegli anni, e durò a lungo).
Questi elementi, aggiunti alla partigianeria ideologica e al plumbeo classismo, spiegano perché il libretto abbia avuto tanta fortuna tra i contestatori. Le forze eversive, sfruttando di volta in volta i singoli punti della Lettera che più convenivano consolidarono a loro volta il mito dell’opuscolo, e quindi della scuola di Barbiana”, di cui il priore aveva posto le basi con l’incessante autoapologia.
Non va infine dimenticato il posto che ebbero i mezzi d’informazione nel diffondere e accreditare tale mito. In fondo le forze contestatrici nella scuola e nella società italiana furono sempre minoranza, anche negli anni della loro maggiore fortuna. Se diedero l’impressione, in certi momenti, di aver preso il sopravvento fu perché le redazioni dei giornali, della radio e della televisione furono a lungo dominate dagli estremisti o da coloro che per conformismo si adeguavano alle loro posizioni perciò la Lettera e la “scuola di Barbiana” ebbero sempre il pregiudizio favorevole. I dissenzienti non avevano accesso ai giornali, ai microfoni, al video. Gli uffici editoriali non li gradivano: uscirono volumi antologici che sulla Lettera e sulla “scuola di Barbiana” raccolsero panegirici o almeno scritti di consenso, m cui eventuali riserve, rare e prudenti, dovevano essere cercate tra le righe; nessuno che fosse dedicato alle voci dissenzienti. Così si spiega anche il conformismo degli intellettuali che non volevano essere esclusi dal giro. […]

Le conseguenze negative
Alle valutazioni interessate dello scritto corrispose un’applicazione devastante dei suoi presunti modelli pedagogici e didattici. Confluendo nel torrente sessantottesco insieme agli scritti di Marcuse e di Mao, la Lettera vi portò un’idea fiabesca della “scuola di Barbiana” e della sua “rivoluzione”. Questa fiaba fu vista come un archetipo da imitare. La parola d’ordine più seguita, all’inizio, fu “né registro, né voti”. In realtà, volendo conservare i benefici dell’uno e dell’altro sistema, fu introdotto il “voto unico dequalificato”: non solo “tutti promossi”, ma anche, dove i docenti erano d’accordo, il medesimo voto (il “sei”, ma assai più spesso l’“otto”, persino il “dieci”) a tutti gli alunni in tutte le materie, “per debellare la competitività e la meritocrazia”. Dove il docente contestatore era uno solo, il voto unico capitava solo nella sua materia. Alla maturità ci furono commissioni che diedero il “sessanta” (secondo il nuovo sistema di valutazione introdotto nel 1969) a tutti i candidati indistintamente. In certi licei scientifici fu abolito di fatto il latino, altro bersaglio della Lettera, e negazione del presentismo (i compiti in classe venivano effettuati comodamente a casa, e poi ricopiati in aula “per far contento il Ministero”).
Nella scuola media il modello barbianese più seguito fu la composizione collettiva. Si abolirono i lavori scritti individuali, non solo i “temi”, ma anche i quaderni degli appunti e degli esercizi. Gli uni e gli altri furono sostituiti con “lavori di gruppo” che potevano avere per oggetto una “ricerca” seria, ma ridursi anche ad un cartellone murale su un argomento di attualità preso dal giornale. Eccettuati casi rari dovuti ad un impegno eccezionale del docente, questi “lavori di gruppo” consentivano a chi aveva meno iniziativa, o era pigro, o meno istruito, di starsene passivo, e ai “pierini” di emergere divenendo i leader del gruppo: essi restavano così gli unici a trar profìtto dal lavoro, e ad appropriarsi dei contenuti culturali e della capacità di comporre. Il “presentismo”, con l’introduzione del giornale, non ad integrazione ma in sostituzione di materie istituzionali, offrì poi l’occasione per discorsi sull’oggi — ed è superfluo dire di quale tenore, visto il clima estremizzante dell’epoca — ma senza quei punti di riferimento che solo il passato può offrire, e senza quell’organicità del sapere che solo viene, nella scuola italiana dei nostri tempi, dallo studio istituzionale e dallo sfruttamento regolare e sistematico dei manuali, integrati, per quanto è possibile, con la lettura dei libri della biblioteca.
La scuola media, alla fine, restituiva alla famiglia e alla società ragazzi preparati non più di quanto lo fossero al momento di entrarvi. […]

Solo un documento
La Lettera insomma contribuì, con altre forze disgregatrici, ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori. In parte la responsabilità fu di chi, consapevolmente o meno, trasformò un pamphlet in una sorta di tavola della legge, in cui si scorgeva a volta a volta un programma educativo che apriva nuovi orizzonti, o un esempio rivoluzionario di nuova struttura scolastica, o una fucina di nuove didattiche e di nuovi programmi da imitare o da applicare. Ma la responsabilità prima fu dell’autore, che sotto l’apparenza di un discorso che riguardava la scuola e gli alunni dei ceti più diseredati, non solo diffuse informazioni infondate e giudizi ingiusti, ma si propose scopi ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici. Scopi legittimi, in un paese libero, ma che per la forma con cui furono perseguiti crearono confusione, mescolando ideologia e tecnica didattica, ideologia (sempre settoriale) e formazione dell’uomo (sempre universale).

Nel perseguimento dei suoi scopi, comunque, il libro ha registrato un fallimento. Esso vale oggi come un documento marginale della lotta di classe del suo tempo, e perciò appartiene a buon diritto alla pubblicistica sociale. Ma non è qualcosa che documenti con serietà la storia dell’educazione e dell’istruzione negli anni ‘60, né delinea un programma fattibile, né presenta un modello imitabile. Insomma, non è uno scritto che abbia giovato o che possa giovare all’educazione, all’insegnamento e agli alunni. In questa ottica fu, e rimane, un libro sbagliato.
R. B.

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