“Come il mulino odora di farina / e la chiesa d’incenso e cera fina / sa di gesso la scuola / (…) Tutto qui dentro è bello e sa di buono. / La campanella manda un dolce suono, / e a una parete c’è una croce appesa… / pare d’essere in chiesa: / s’entra senza cappello, / si parla a voce bassa / si risponde all’appello…”
Chi sa se le persone della mia età — almeno quelle che son rimaste — ricordano questa poesia di Renzo Pezzani, un poeta dei “buoni sentimenti” che scriveva in rima… conosceva la metrica e andava direttamente al cuore, e forse, per questo, epurato dai riformatori che, dagli anni Cinquanta in poi, hanno sempre cambiato — e in peggio — la nostra scuola. Vorrei aggiunger “cara scuola” perché in molti di noi, delle passate generazioni, i “Ricordi di Scuola” sono sempre belli e ci toccano il cuore e, dopo aver ricordato, dopo aver “rivissuto” i momenti favolosi della fanciullezza, non raramente arriva qualche lacrimuccia e, per non farcene accorgere, per darci un tono, ci stropicciamo gli occhio dando la colpa al solito venticello che ci ha fatto entrare un bruscolo… in tempi in cui, ormai, a scuola, come in chiesa, non si fa più silenzio, ma si chiacchiera… si chiacchiera e, oltre alle chiacchiere, non manca (in chiesa) lo strimpellar delle chitarre e gli alunni, ora, danno del “tu” all’insegnante, imitati in questo, dalle infermiere dell’ospedale, dai garzoni del droghiere e dalle commesse del bar.
Diceva Balzac che “i ricordi ci sembran sempre belli perché ci ricordano la giovinezza”. E, aggiungo, te la ricordan, spesso a un’età in cui i malanni incombono e allora rivivi quei giorni spensierati e dimentichi quelle “pene” che ti pesavano sull’animo come macigni e che ora ti sembran leggere come piume…
Tanti di noi hanno letto quel capolavoro di Giovanni Mosca — che, prima di andare a dirigere “Il Corriere della Sera” a Milano, fu maestro elementare — il cui titolo è proprio Ricordi di Scuola un libro che riesce a toccare l’animo del lettore dimostrandoci, poeticamente, come le immagini, i personaggi, i luoghi dei ricordi vengano “trasfigurati” e “mitizzati”.
Ma ecco l’Incipit dell’opera di Giovanni Mosca:
“Siete ritornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare? Io sì, la rividi, l’altr’anno, dopo tanto tempo la scuola dov’ero stato prima alunno, e poi insegnante: la bibliotechina, il salone, i maestri…
La bibliotechina sempre la stessa, con gli stessi libri coperti di carta canepina, e il titolo e l’autore scritti in bella calligrafia. (…) E rividi il salone, il grande immenso salone, dove il giovedì, da scolaro, andavo con gli altri a cantare “Fratelli d’Italia” (…) ma com’era diventato piccolo, rivedendolo, il grande, immenso salone!
Come mai? Forse perché da bambini tutto sembra più grande, più bello; ma anche da maestro, il salone m’era parso immenso e i dipinti meravigliosi… come mai ora che non ero più né scolaro né insegnante , tutte queste cose mi sembravano piccole, brutte, misere, e mi davano una stretta al cuore? (…)
“Ci hai lasciati”, mi dissero. (Gli ex colleghi in quando Mosca era stato chiamato a dirigere “Il Corriere della Sera”, lasciando, così, la scuola, N.d.A.) “Una carriera brillante, la tua. Guadagni molto?”
Dilatavano gli occhi al pensiero dei miei guadagni favolosi. Avrei voluto dirlo ai maestri che mi invidiavano per la mia brillante carriera libera: “Non li lasciate, i ragazzi: finché si vive in mezzo ai ragazzi si è un po’ come loro, e le piccole stanze sembrano saloni, e quattro pupazzi sul muro sembrano dipinti meravigliosi; e si crede, vivendo con essi, a tante cose cui, allontanandosene, non si crede più…”
Ecco questi ricordi… mi venivano in mente l’altro giorno leggendo un agile libretto di uno scrittore mugellano, Massimo Biagioni (ma che non è della mia generazione… e i suoi ricordi, come la sua età, son certo più “verdi”) che, tratteggiando magistralmente ritratti di persone “immaginarie” fa balzare, invece, davanti ai nostri occhi, in vivi flashback, personaggi reali come quella “Maestra a colori ” (e mai definizione fu più calzante) ovvero la signora Fiammetta Buonamici Vigiani che fu davvero una persona che dedicò, con estrema passione, la vita alla scuola e ai “suoi” ragazzi… E anche in quest’opera di Biagioni: Una Maestra a colori in una società in bianco e nero (Ed. Mauro Pagliai, Firenze) c’è il sapore buono e “nostalgico” dell’Amarcord, del “Mi ricordo” e il profumo proprio dei ricordi di scuola…
Anche uno scrittore scarperiese, Giuseppe Baroni — che io considero uno dei “grandi” mugellani, da mettere insieme a Tito Casini e al quale dedicherò una delle mie “Spigolature” — con magistrali pennellate ritrae luoghi e personaggi della scuola scarperiese di fine Ottocento… e ti sembra di aver vissuto a quei tempi leggendo le agili pagine, scritte in un italiano purissimo che sa di Trecento, di Infanzia a Castel San Barnaba (Pellegrini, 1978) e di Mugello antico (Thule, 1980)… e chi sa se vedranno mai la luce le pagine dei Ricordi della vita del M° Prof. Cav. Uff. Luigi Cipriani, Regio Direttore Didattico a riposo – Ispettore onorario. Scritti nell’inverno del 1930 durante il periodo della mia lunga malattia.
E, poi, anche i miei ricordi di scuola a Borgo San Lorenzo che mi son balzati alla mente l’altro giorno quando ho avuto un invito, tanto inaspettato quanto gradito, per visitare la grande azienda (“Acetificio Aretino”) di un mio vecchio compagno di classe dei primi anni Cinquanta: Giuliano Verdi, un personaggio che si è fatto onore nella vita e che non dimentica il “suo” Borgo, la sua terra, le sue radici… e allora quanti volti, quante persone che non ci son più, quanti addii a “sogni di gloria” e quanta, quanta nostalgia… per cui mi son venuti alla mente i tempi “de’ dolci sospiri” e i versi danteschi della Francesca da Rimini: “Nessun maggior dolore / Che ricordarsi del tempo felice / Nella miseria…”
Già la campana ti dava la sveglia e, subito dopo, eccoti la sirena delle Fornaci del dottor Aldo Brunori… e la nonna che veniva in camera trepidante: forza ragazzi è già suonata la campana… E via, a scuola. E la mia scuola era una scuola statale: “Scuola elementare statale Dante Alighieri” perché dalle suore, dove ero stato all’asilo, c’erano soltanto le classi femminili della scuola elementare. E nella mia scuola elementare, nonostante fosse “statale” ancora vigeva quella saggia pedagogia che divideva i maschi dalle femmine, in quanto i due sessi hanno interessi e livelli di apprendimento diversi.
Noi maschi andavamo a scuola la mattina e, le femmine, il pomeriggio… ricordo la cartella che portavo a tracolla, la cannetta, ovvero la penna alla quale applicavamo un pennino, a foglia o a campanile, che leccavamo, per togliergli l’oleosità, prima di inzuppare nel calamaio che era inserito sul banco e che Beppe Maianardi, con la sua spolverina grigia, riempiva diligentemente con una fiaschetta d’inchiostro nero. E poi il puliscipenne, la carta assorbente, e poi l’astuccio di legno con il quale, a ricreazione, quando la maestra si distraeva, si intraprendevano epiche battaglie, il libro di lettura, il lapis Fila numero 1, con i pastelli Giotto, come recitava la scritta sulla scatola: “Se nel disegno vuoi prender otto: matite Fila pastelli Giotto”, il grembiulino nero con davanti, ricamata in rosso la classe: I – II – III – IV – V… i gessetti che, qualche volta, riuscivamo a “fregare” e che ci sarebbero serviti, poi, nel pomeriggio per tracciare il quadrato del Filetto sulle panchine di cemento dei giardini… una volta — avevo visto precedentemente quella scritta sul muro del Faini — presi il gessetto rosso della scuola e scrissi W la … davanti a casa mia.
La mattina la maestra era già informata di tutto e, dopo il processo scolastico, dovetti subire anche il “processo familiare” che, vi assicuro, fu anche peggiore… il più lieve fu il “processo ecclesiastico” con don Migliorini, talmente comprensivo, da mettere nell’imbarazzo nell’angoscia sia la maestra che i miei familiari che, probabilmente, avevan già preparato il rogo.
Ricordo ancora “La Radio per la Scuola” che ci accendevano dalla segreteria ma che la maestra non ci faceva mai sentire perché “è solo una perdita di tempo”… i vasettini con l’ovatta dove facevamo germogliare il grano e i fagioli, e vasetti con il terriccio e le piantine grasse che erano affidate alla cura di mani esperte come quelle di Baggiani e di Franco Polidori, un ragazzo taciturno e intelligentissimo che faceva il paio con Giovanni Baldi, un “cannone” in aritmetica; spesso andavo a fare i compiti e a giocare a casa di Giovanni Barletti (“Giovannino”), abitava in una bella villetta in via Trieste e viveva con i genitori e altri sette, tra fratelli e sorelle. Il padre di Giovanni era un noto commerciante di vini: il Cav. Emilio Barletti. Ed era commerciante di vini anche il padre di un altro compagno ovvero Giuliano Verdi (“Omo”)… Ricordo le risate fatte in famiglia quando raccontai di essere stato a casa di Giuliano e dissi anche che il padre, Fortunato, aveva otto figli in quanto nella scritta del camion della ditta avevo letto “Verdi Fortunato & Figli” … Plutarco avrebbe certo parlato di queste due famiglie (Barletti e Verdi) nelle sue Vite Parallele… anche la famiglia Verdi, come quella di Giovannino, aveva numerosi figli e, in ambedue le famiglie vi fu un lutto che molto colpì noi ragazzi e tutto il paese. Morì un fratello di Giuliano, Francesco, e, dopo, un fratello di Giovanni, Luigi, un corridore esordiente nella squadra ciclistica borghigiana del Club Ciclo Appenninico, che io vedevo ogni giorno perché ero, come lui, appassionato di ciclismo e tifoso di Ercole Baldini che il Cav. Barletti un giorno — e mi tremavan le gambe — mi presentò…
Un altro fratello di Giuliano, Mauro, era stato a scuola dalla nostra maestra Ida Pini e lei ne conservava un buon ricordo… un giorno “Omo” venne a scuola accompagnato dal fratello Mauro — morirà l’anno dopo soffocato dai vapori del mosto, all’interno di un tino, dove si era calato per salvare la vita a un suo compagno — che, con il permesso della maestra entrò in classe e lei, mandato a posto il fratellino Giuliano, gli fece raccontare la sua avventura: la partenza in moto da Borgo per andare a Siracusa a prelevare le lacrime della Madonna per poter bagnare il volto del fratello morente… un viaggio fatto tutto d’un fiato, andata e ritorno, con solo due brevissime soste per far benzina… e al termine del succinto racconto che Mauro ci fece — con gli occhi inumiditi eravamo, come ammaliati, ad ascoltare il racconto, anzi la “meravigliosa avventura” e trattenevamo il fiato — la maestra Ida Pini, pur sobria nelle lodi, ci disse che quel gesto di Mauro era stato dettato dall’amore del fratello e dalla sua devozione mariana…
Sì, per noi, Mauro diventò un mito…
Come un mito era Giuliano che mi (e ci) difendeva quando altri ragazzi a ricreazione ci facevan le riffe e quando i più grandi, all’oratorio salesiano, si fregavano le palline delle “cheppe”… bastava la parola magica: “Ora lo dico a Omo” e via… il ragazzaccio prepotente se la dava a gambe… ecco quell’invito ha riportato alla mente alcuni ricordi di scuola ed io penso che il ricordare faccia bene al corpo e, soprattutto, all’animo come scrisse Dostoevskij: “Sappiate che non v’è niente di più alto, di più forte, di più sano, di più utile per l’avvenire, nella vita, di qualche buon ricordo, e tanto più se esso appartiene ancora all’infanzia, ala casa paterna. Un bel ricordo, un ricordo sacro conservato dall’infanzia, è forse la migliore educazione, raccogliendo molti di questi ricordi, l’uomo è salvo per tutta la vita”.
E vi par poco? Come fare a non ringraziare, con tutto il cuore, il mio vecchio e caro amico Giuliano?
Gaddo de Grandville (Pucci Cipriani)