tratte dalla sua monumentale Storia dei Papi.
Dopo che s’era discusso per lo spazio di più che tre settimane, finalmente ai 16 di settembre avvenne la partenza da Messina. Diversità d’idee e dissapori si verificarono tuttavia anche altrimenti fra i capitani: ma tutti sentivano che s’andava incontro alla battaglia decisiva. Le ciurme vi si prepararono anche col ricevere i santi sacramenti dai Cappuccini e Gesuiti addetti alla flotta (225).
Divisa in quattro squadre, la flotta della lega volse verso Corfù radunandosi poi nel porto di Gomenitsa sulla costa dell’Albania. Ivi in conseguenza d’un’arbitraria azione di Venier contro uno spagnuolo si venne a un litigio con Don Juan, che senza l’avveduto intervento di Colonna avrebbe potuto avere le peggiori conseguenze. Si concordò che intanto Agostino Barbarigo assumesse le veci di Venier.
Nel frattempo, degli esploratori fecero sapere che la flotta turca era nel porto di Lepanto, l’antica Naupatto. I giorni seguenti passarono in mutua osservazione. Frattanto arrivò la nuova della caduta di Famagosta avvenuta il 1° agosto, dell’obbrobriosa mancanza alla parola commessa dai Turchi e della crudele esecuzione dell’eroico Bragadino.
I Turchi avevano scorticato vivo l’infelice, imbottitane la pelle, che, vestita dell’abito veneziano rispondente all’officio, fu trascinata per la città! (226).
La novella di questi orrori andò diffondendosi prestamente e tutti i combattenti anelavano alla vendetta. Presi tutti i provvedimenti necessarii per una battaglia, la flotta nella notte del 6 ottobre nonostante vento sfavorevole fece vela, tenendosi strettamente alle isole rupestri delle Curzolari, note nell’antichità col nome di Echinadi, verso l’ampio golfo di Patrasso. Allorché la mattina seguente, per lo stretto canale fra l’isola Oscia e il capo Scrofa si entrò in quel golfo, Don Juan dopo breve consiglio con Venier (227) diede con un colpo di cannone il segno di disporsi per l’attacco, facendo nello stesso tempo issare all’albero maestro della sua nave il vessillo della Santa lega (228).
Gli ecclesiastici addetti alla flotta impartirono l’assoluzione generale: ancora una breve, fervida preghiera e poi da migliaia di voci risuonò il grido: Vittoria! Vittoria! Viva Cristo! (229)
Le forze a fronte erano molto considerevoli e a un dipresso egualmente forti. I Turchi disponevano di 222 galere, 60 altri vascelli, 750 cannoni, 34.000 soldati, 13.000 marinai e 41.000 schiavi rematori; i cristiani di 207 galere (105 veneziane, 81 spagnuole, 12 pontificie, 3 di Malta, Genova e Savoia ciascuna), 30 altri vascelli, 6 grandi galere o galeazze che «sembravano castelli», 1800 cannoni, 30.000 soldati, 12.900 marinai e 43.000 rematori (230).
Seguendo la tattica d’allora Don Juan aveva diviso la flotta in quattro squadre quasi egualmente forti e distinte dai colori delle bandiere.
Le sei galeazze dei veneziani comandate da Francesco Duodo costituivano l’avanguardia e colla loro superiore artiglieria dovevano spaventare e mettere in disordine i Turchi (231). Dietro ad esse veleggiavano in linea dritta le prime tre squadre, avendo il comando dell’ala sinistra il provveditore veneziano Agostino Barbarigo, della destra l’ammiraglio spagnuolo Doria, del centro Don Juan. Ai due lati della sua nave ammiraglia veleggiavano Colonna e Venier. La quarta squadra sotto Alvaro de Bazan, marchese di Santa Cruz (232), formava la retroguardia.
Comandava l’ala sinistra della flotta turca il rinnegato calabrese Uluds Alì (Occhiali) (233), pascià d’Algeri, la destra Mohammed Saulak, governatore d’Alessandria, il centro il generalissimo grand’ammiraglio Muesinsade Alì.
Verso mezzogiorno si calma il vento favorevole ai Turchi. Mentre che il sole sfolgora dal cielo senza nubi, le due flotte s’urtano una contro l’altra, una sotto il vessillo del Crocefisso, l’altra sotto la bandiera purpurea del sultano col nome di Allah ricamato a lettere d’oro. I Turchi cercano di oltrepassare i loro nemici alle due estremità.
Al fine di impedire la cosa, Doria distende la sua linea di battaglia tanto che fra l’ala destra e il centro si forma un vuoto, nel quale il nemico può facilmente penetrare. Mentre qui la lotta prende una piega pericolosa e Doria in seguito ad abili manovre dei Turchi è spinto con 50 galere verso il mare aperto, la battaglia si svolge molto felicemente all’ala sinistra.
Ivi i veneziani combattono contro forze preponderanti con altrettanta tenacia che successo, sebbene il loro capo, il Barbarigo, colpito a un occhio da una freccia, cada mortalmente ferito.
Più violenta ondeggia la battaglia al centro. Là Don Juan che ha a bordo 300 vecchi soldati spagnuoli (234), muove direttamente contro la nave di Alì, sulla quale trovansi 400 giannizzeri. Con lui partecipano valorosamente alla sanguinosa lotta, che rimane a lungo indecisa, le galere di Colonna, Requesens, Venier e dei principi di Parma e Urbino. La morte del grande ammiraglio turco Alì, la cui ricca galera viene saccheggiata dai soldati di Don Juan e di Colonna, reca la decisione alle ore 4 circa del pomeriggio. Allorquando i Turchi apprendono il disfacimento del loro centro, anche la loro ala sinistra cede e in conseguenza Uluds deve interrompere la lotta con Doria e pensare alla sua ritirata, che egli eseguisce aprendosi fra gravi perdite la via con 40 galere verso Santa Maura e Lepanto (235).
Sebbene l’esaurimento dei rematori e lo scoppio d’un violento temporale impedissero che si compisse lunga caccia dei nemici, la vittoria dei cristiani fu tuttavia completa.
Rottami di navi e cadaveri coprivano in larga estensione il mare. Circa 8000 Turchi erano morti e 10.000 caduti prigioni; 117 delle loro galere caddero in mano dei cristiani e 50 erano affondate o incendiate. I vincitori perdettero 12 galere ed ebbero 7500 morti con altrettanti feriti.
Numerosi trofei, come bandiere purpuree con iscrizioni d’oro e d’argento, con stelle e luna, e una grande parte dell’artiglieria nemica erano venuti in mano dei cristiani: 42 prigionieri appartenevano alle più ragguardevoli famiglie turche: fra essi erano il governatore di Negroponte e due figli del grande ammiraglio Alì. Il bottino più bello consistette in 12.000 schiavi cristiani applicati alle galere, fra cui 2000 spagnuoli, che dovettero alla vittoria la loro liberazione (236).
Molto sangue di nobili andò versato. Mentre gli spagnuoli ebbero a deplorare la perdita di Juan de Córdova, Alfonso de Cárdena e Juan Ponce de León, i veneziani perdettero 20 nobili delle prime case della repubblica. Fabiano Graziani, fratello dello storico di questa guerra, era caduto a lato del Colonna su una galera pontificia. Fra i feriti trovaronsi Venier e un genio allora tuttavia ignoto al mondo, il poeta Cervantes (237).
Come la spagnuola e la veneziana, così s’era coperta di gloria anche la nobiltà di Napoli, Calabria, Sicilia e specialmente dello Stato pontificio. Con Alessandro Farnese, principe di Parma, e Francesco Maria della Rovere, principe d’Urbino, si videro fra i combattenti Sforza conte di Santa Fiora, Ascanio della Corgna, Paolo Giordano Orsini di Bracciano, Virginio Orsini di Vicovaro, Orazio Orsini di Bomarzo, Pompeo Colonna, Gabrio Serbelloni, Troilo Savelli, Onorato Caetani, Lelio de’ Massimi, Michele Bonelli, i Frangipani, Santa Croce, Capizuchi, Ruspoli, Gabrielli, Malvezzi, Oddi, Berardi (238). Con giustificato orgoglio la storiografia italiana ricorda la parte gloriosa presa da rappresentanti di tutti i territorii della penisola appenninica alla battaglia navale, che fu la maggiore a memoria d’uomo (239).
Con indescrivibile tensione aveva Pio V tenuto gli occhi rivolti all’Oriente. I suoi pensieri erano continuamente presso la flotta cristiana, i suoi voti la precorrevano di molto. Giorno e notte egli in ardente preghiera la raccomandava alla protezione dell’Altissimo. Dopo che ebbe ricevuto notizia dell’arrivo di Don Juan a Messina, il papa raddoppiò le sue penitenze ed elemosine. Egli aveva ferma fiducia nella potenza della preghiera, specialmente del rosario (240).
In un concistoro del 27 agosto Pio V invitò i cardinali a digiunare un giorno la settimana ed a fare straordinarie elemosine, solo colla penitenza potendosi sperare misericordia da Dio in sì grande distretta (241). Sua Santità – così notificò ai 26 di settembre del 1571 l’ambasciatore spagnuolo – digiuna tre giorni la settimana e dedica quotidianamente molte ore alla preghiera: ha ordinato anche preghiere nelle chiese (242).
Per assicurare Roma da un’improvvisa irruzione di corsari turchi, il papa al principio di settembre aveva comandato che si terminasse la fortificazione di Borgo (243).
Soltanto molto rare arrivavano notizie sull’armata cristiana e pertanto alla Curia si stava in penosa incertezza. Fu quindi come una liberazione l’apprendere finalmente ai primi di ottobre l’arrivo della flotta della lega a Corfù (244).
Giunta ai 13 di ottobre la nuova che la flotta turca trovavasi a Lepanto e che quella della lega si sarebbe messa in movimento il 30 settembre, (245) non v’aveva dubbio che il cozzo era imminente. Il papa, sebbene fermamente fiducioso della vittoria delle armi cristiane (246), ordinò tuttavia straordinarie preghiere diurne e notturne in tutti i monasteri di Roma: egli poi in simili esercizi andava avanti a tutti col migliore esempio (247).
La sua preghiera doveva finalmente venire esaudita. Nella notte dal 21 al 22 ottobre arrivò un corriere mandato dal nunzio a Venezia Facchinetti e rimise al cardinal Rusticucci che dirigeva gli affari della segreteria di Stato una lettera del Facchinetti contenente la notizia portata a Venezia il 19 ottobre da Giofrè Giustiniani della grande vittoria ottenuta presso Lepanto sotto l’ottima direzione di Don Juan (248).
Il cardinale fece tosto svegliare il papa, che prorompendo in lagrime di gioia pronunziò, le parole del vecchio Simeone: «nunc dimittis servum tuum in pace».
Si alzò subito per ringraziare Iddio in ginocchio e poi ritornò in letto, ma per la lieta eccitazione non poté trovar sonno (249). La mattina seguente si recò a S. Pietro per nuova calda preghiera di ringraziamento, ricevendo poscia gli ambasciatori e cardinali ai quali disse che ora dovevansi fare nel prossimo anno gli sforzi estremi per continuare la guerra turca (250).
In quest’occasione egli alludendo al nome di Don Juan ripetè le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes». (…)
Tanto Colonna quanto il papa avevano chiara coscienza di quanto mancasse ancora per raggiungere la grande meta dell’abbattimento della potenza degli ottomani: ambedue erano così concordi sui passi da intraprendersi che Pio V associò il suo esperimentato ammiraglio ai cardinali deputati per gli affari della lega, che dal 10 dicembre tenevano quasi ogni giorno coi rappresentati di Spagna, Requesens e Pacheco, e cogli inviati di Venezia due sedute (278), spesso della durata di cinque ore (279). Sotto pena di scomunica riservata al papa tutto era tenuto rigorosissimamente segreto, perché il sultano aveva mandato a Roma degli spioni parlanti italiano (280).
Nelle consulte ordinate dal papa nei mesi di ottobre e novembre era venuta in prima linea la provvista dei mezzi finanziarii (281); ora trattavasi principalmente dello scopo dell’impresa da compiersi nella prossima primavera. E qui solo malamente i rappresentanti sia di Spagna, sia di Venezia potevano nascondere la gelosia e avversione, che nutrivano a vicenda. Gli interessi particolari dei due alleati emersero sì fortemente che venne messa in forse qualsiasi azione comune. I veneziani volevano servirsi della lega non solo per riavere Cipro, ma anche per fare nuove conquiste in Levante. Filippo II, invece, avverso ad ogni rafforzamento della repubblica di S. Marco, fece dichiarare dal Requesens che la lega doveva in primo luogo muovere contro gli stati berbereschi dell’Africa, perché questi tornassero in possesso della Spagna.
In questa proposta i veneziani videro una trappola per impedirli dalla riconquista di Cipro ed esporli al pericolo di perdere anche Corfù mentre la loro flotta combatteva gli stati berbereschi pel re di Spagna (282). A Venezia ritenevasi ora sicuro che Filippo II volesse trarre il maggior utile possibile nel suo proprio interesse dalle forze della lega.
Non può dirsi con certezza quanto le lagnanze per ciò sollevate siano giustificate. Per giudicare rettamente il re di Spagna va in ogni modo tenuto conto del contegno della Francia, il cui governo fu abbastanza svergognato da proporre al sultano subito dopo la battaglia di Lepanto un’alleanza diretta contro la Spagna. Filippo II era perfettamente a giorno delle trattative che la Francia conduceva non solo col sultano, ma anche cogli ugonotti, i capi della rivoluzione neerlandese e con Elisabetta d’Inghilterra.
In conseguenza egli doveva fare i conti con un contemporaneo attacco d’una coalizione franco-neerlandese-inglese-turca. Non fu pertanto solo gelosia verso Venezia quella che guidò il re cattolico (283). Del resto lo stesso Don Juan confessò ch’era contro il tenore del patto della lega rinunciare alla guerra contro il sultano a favore di un’impresa in Africa (284).
Di fronte al contrasto degli interessi spagnuoli e veneziani Pio V continuò a rappresentare la concezione più vasta e sommamente disinteressata: egli pensava alla liberazione di Gerusalemme, a cui doveva precedere la conquista di Costantinopoli (285). Ma, come scrisse Zúñiga all’Alba il 10 novembre 1571, un colpo efficace nel cuore della potenza ottomana era possibile soltanto in vista di un attacco contemporaneo e all’impensata per terra e per mare (286). Di qui i continuati sforzi di Pio V per arrivare a una coalizione europea contro i Turchi. Se a questo riguardo nulla era da sperarsi dalla Francia (287), che nel luglio aveva mandato un ambasciatore in Turchia (288), egli tuttavia sperava di guadagnare all’idea almeno altre potenze, prima di tutti l’imperatore, poi Polonia e Portogallo. A dispetto di tutti gli insuccessi finallora incontrati egli coi suoi legati e nunzi continuò a spingere sempre a questa meta (289). Pio V cercava di utilizzare al possibile a questo riguardo il più leggero segno di buona volontà.
Così prese occasione dalle frasi generiche, con cui Massimiliano II assicurò di essere disposto ad aiutare la causa cristiana, per dargli l’aspettativa da parte degli alleati di un aiuto di 20.000 uomini a piedi e di 2000 a cavallo. L’imperatore ringraziò ai 25 di gennaio del 1572 dell’offerta deplorando di non potere subito decidersi in un negozio di tale importanza (290).
A Roma il duca di Urbino fece risaltare che c’era poco da sperare da Massimiliano ed anzi nulla dai principi tedeschi, specialmente dai protestanti. In un memoriale del papa del gennaio 1572 egli sostenne con buone ragioni l’idea che la guerra dovesse condursi là dove esercito e flotta potessero operare congiunte e dove «noi siamo padroni della situazione», quindi principalmente colla flotta in Levante.
Se i Turchi venissero attaccati in Europa dall’imperatore e dalla Polonia, tanto meglio; ma la cosa principale è che si attacchi tosto, perché chi semplicemente si difende non combatte; chi vuole conquistare deve andare avanti risoluto. La lega quindi si volga contro Gallipoli aprendosi così lo stretto dei Dardanelli (291).
Ma per tale impresa era incondizionatamente necessaria una intesa della Spagna con Venezia, mentre invece i loro rappresentanti da mesi altercavano a Roma nel modo più spiacevole. Quando finalmente i veneziani fecero la proposta, conforme alle clausole del patto della lega del maggio 1571, di far decidere dal papa i punti contestati, anche la Spagna non osò fare opposizione.
Decise Pio V che la guerra della lega dovesse continuarsi nel Levante, che nel marzo la flotta pontificia si riunisse con la spagnuola a Messina e s’incontrasse con la veneta a Corfù, donde le tre forze unite dovevano procedere secondo gli ordini dei loro ammiragli, che gli alleati aumentassero, potendolo, le loro galere fino a 250 e procurassero secondo la proporzione prescritta nel patto della lega 32.000 soldati e 500 cavalieri oltre alla corrispondente artiglieria e munizioni e che alla fine di giugno dovessero trovarsi riuniti a Otranto 11.000 soldati (1000 pontifici, 6000 spagnuoli e 4000 veneziani).
Ognuno degli alleati doveva preparare vettovaglie per sette mesi (292). Queste convenzioni vennero sottoscritte il 10 febbraio 1572 (293).
Il 16 Pio V ammonì il gran maestro dei Gerosolimitani di tenere pronte le sue galere a Messina (294). I preparativi nello Stato pontificio, pei quali il denaro venne procurato principalmente col «Monte della Lega» (295), furono spinti avanti sì alacremente che nello stesso giorno si poté inviare ad Otranto 1800 uomini (296).
A Civitavecchia erano pronte tre galere ed altre là erano attese da Livorno (297).
Il papa era tutto pieno del pensiero della crociata: egli viveva e movevasi nel progetto, di cui fin dal principio era stato da solo l’anima. Per dieci anni, così si espresse Pio V col cardinale Santori, deve farsi guerra ai Turchi per mare e per terra (298).
La bolla del giubileo, in data 12 marzo 1572, concedeva a tutti coloro, che prendevano essi stessi le armi o volevano equipaggiare un altro o contribuire con denaro, le stesse indulgenze che per il passato avevano acquistate i crociati; i beni di quelli, che partivano per la guerra, dovevano essere sotto la protezione della Chiesa né potevano venire pregiudicati da chicchessia; tutte le loro liti dovevano sospendersi fino al loro ritorno o a che ne fosse accertata la morte ed essi dovevano restare esenti da ogni tributo (299).
Da una notizia del 15 marzo 1572 appare quanto la faccenda tenesse occupato il papa: in questa settimana si sono tenute in Vaticano niente meno che tre consulte in proposito (300). Per infervorare Don Juan, alla fine di marzo del 1572 gli vennero mandati come speciale distinzione lo stocco e il berretto benedetti a Natale (301).
Con nuove speranze Pio V guardava al futuro: buona ventura gli risparmiò di vedere che la gloriosa vittoria di Lepanto rimanesse senza immediate conseguenze strategiche e politiche a causa della gelosia e dell’egoismo degli spagnuoli e veneziani, che dal febbraio 1572 disputarono sulle spese della spedizione dell’anno passato (302).
Tanto più grandi furono però gli effetti mediati. Quanto profondamente venisse scosso l’impero del sultano, risulta dal movimento che prese i suoi sudditi cristiani. Non era affatto ingiustificata la speranza d’una insurrezione di cui sarebbe stata la base la popolazione cristiana di Costantinopoli e Pera, che contava 40.000 uomini (303).
Aggiungevasi la sensibile perdita della grande flotta, che d’un colpo era stata annientata con tutta l’artiglieria e l’equipaggio difficile a surrogarsi. Se anche, in seguito della grandiosa organizzazione dell’impero e della straordinaria attività di Occhiali, si riuscì a creare un nuovo equivalente, l’avvenire doveva tuttavia insegnare che dalla battaglia di Lepanto data la lenta decadenza di tutta la forza navale di Turchia: era stato messo un termine al suo avanzare e l’incubo della sua invincibilità era stato per la prima volta distrutto (304).
Ciò sentì istintivamente il mondo cristiano ora respirante più agevolmente. Di qui la letizia interminabile, che passò rumorosa per tutti i paesi (305).
«Fu per noi tutti come un sogno», scrisse l’11 novembre 1571 a Don Juan da Madrid Luis de Alzamara; «credemmo di riconoscere l’immediato intervento di Dio» (306).
Le chiese de’ paesi cattolici risuonarono dell’inno di ringraziamento, il «Te Deum» (307). Primo fra tutti Pio V richiamò il pensiero al cielo: nelle medaglie commemorative, che fece coniare, egli pose le parole del salmista: «la destra del Signore ha fatto cose grandi; da Dio questo proviene» (308).
Poiché la battaglia era stata guadagnata la prima domenica d’ottobre, in cui a Roma le confraternite del rosario facevano le loro processioni, Pio V considerò autrice della vittoria la potente interceditrice, la misericordiosa madre della cristianità e quindi ordinò che ogni anno nel giorno della battaglia si celebrasse una festa di ringraziamento come «commemorazione della nostra Donna della vittoria» (309).
Addì 1° aprile 1573 il suo successore Gregorio XIII stabilì che la festa venisse in seguito celebrata come festa del Rosario la prima domenica d’ottobre (310).
In Ispagna e Italia, i paesi più minacciati dai Turchi, sorsero ben presto chiese e cappelle dedicate a «Maria della Vittoria» (311). Il senato veneto pose sotto la rappresentazione della battaglia nel palazzo dei dogi le parole: «nè potenza e armi né duci, ma la Madonna del Rosario ci ha aiutato a vincere» (312).
Molte città, come ad es. Genova (313), fecero dipingere la Madonna del Rosario sulle loro porte ed altre introdussero nelle loro armi l’immagine di Maria che sta sulla mezza luna.
Tratto da: Ludwig von Pastor, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma 1950, vol. 8, 1566-1572
Fonte : UNA VOX
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