(di Cristina Siccardi) Gli edifici più diffusi al mondo sono le chiese. Piccole, grandi, magnificenti, sublimi; semplici e graziose, di metropoli o di piccoli borghi, di grandi agglomerati o di stradine di campagna… fino ad arrivare sulle cime dei monti. Lasciando da parte i luoghi di “culto” modernisti – poiché non “appetibili” a nessuno (alla foggia di sale riunioni, hangar, garage, parallelepipedi e cubi aniconici, asettici, gelidi, brutti e spesso orribili, che la committenza ecclesiastica ha voluto erigere in nome del «segno dei tempi» dove la protestantizzante liturgia si accompagna alla desacralizzazione architettonica e artistica) – consideriamo che cosa sta avvenendo delle Case di Dio.
Se nella Francia giacobina e nell’Unione Sovietica le chiese venivano distrutte, saccheggiate o utilizzate per usi profani, oggi, nell’Occidente del dio Mammona, le chiese – un tempo edificate per celebrare il Santo Sacrificio sugli altari, e, conseguentemente, per la maggior Gloria di Dio e per la salvezza delle anime – sono sempre più vuote di fede, di liturgia, di lodi, di clero, di fedeli, perciò subiscono multitrasformazioni: vendute, affittate, colonizzate, pauperizzate, profanate. Sono, in sintesi, un succulento strumento economico.
Secondo il filosofo Giorgio Agamben, classe 1942, amico di Elsa Morante e di Pier Paolo Pasolini, «profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro» ed è esattamente ciò che sta facendo la Santa Sede, nella persona del Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. Un piatto succulento sono divenute le chiese per la Chiesa interreligiosa dei nostri giorni.
Se le chiese erano il cuore pulsante di tutte le comunità cristiane, urbane e rurali, oggi sono un problema e un’opportunità allo stesso tempo. Di quelle orribili, postconciliari, se ne può fare ciò che si vuole, mentre quelle sotto i riflettori delle Belle Arti, assumono un valore storico-artistico-turistico assai appetibile.
Quasi come san Francesco, che iniziò la sua mirabile missione restaurando, con le sue mani, proprio le chiese, la dismessa San Damiano, al fine di onorare la Santissima Trinità: «La prima opera cui Francesco pose mano, appena libero dal giogo del padre terreno, fu di riedificare un tempio a Dio. Non pensava di costruirne uno nuovo, ma restaurò una chiesa antica e malridotta; non ne scalzò le fondamenta, ma edificò su di esse, lasciandole così, senza saperlo, il primato a Cristo. Nessuno infatti potrebbe creare un altro fondamento all’infuori di quello che già è stato posto: Gesù Cristo» (Tommaso da Celano, Vita Prima, 350, 18. Il periodo in tondo è tratto da 1Cor 3, 11).
Quale differenza con il Pontificato di papa Francesco! Nel Duomo di Milano, per esempio, il 23 novembre 2018 non si è data maggior Gloria a Dio, bensì alla cantante pop Giorgia con l’avallo gioioso del Cardinale Ravasi, come risulta dalle interviste rilasciate.
A Praga, a Londra, a Roma, ovunque, ci sono chiese divenute ristoranti e pub di tendenza, inoltre: sale concerto, night club, ludoteche (come la chiesa olandese di Arnhem, ora pista da skateboard), scuole (come la chiesa di Saint Paul a Bristol, ora sede di una scuola di circo), sedi di produzioni televisive (la chiesa di San Giovanni Battista a Torino, dove svetta sul campanile Cristo Re, ora magazzino della Nova-T dei Cappuccini), location per convegni, mostre e quant’altro.
L’arte contemporanea, quella mercificata, è assai ghiotta di questi prestigiosi luoghi perché danno lustro, come cornice, alle sue desolanti e insipide, quando non scandalose e orripilanti, proposte. Poi ci sono le chiese musealizzate per il loro alto valore artistico come è accaduto, per esempio, per Santa Maria di Donna regina Vecchia di Napoli. Ma i riferimenti sono ormai molteplici e vanno ad aumentare di mese in mese: un enorme patrimonio presente, in maniera capillare, in tutta Europa, dove l’Italia primeggia.
Chiese sconsacrate, dunque dismesse, e chiese ancora attive che si prestano a liturgie blasfeme e ad usi impropri, perché trasformate in mense o dormitori per i poveri oppure come è accaduto nella chiesa dei Santi Martiri Gervasio e Protasio di None (Torino), dove il parroco ha ospitato Griot Dieng e i suoi musicisti, che si sono esibiti scatenandosi con ritmi tribali, strumenti a percussione, canti, grida, torsi nudi, danze africane in un turbinio di colori, di salti, di giravolte.
Le chiese possono divenire luoghi di aggregazione o di nuove comunità con il cambiamento di culto, come nel caso della cappella degli ex ospedali Riuniti di Bergamo, venduta all’asta dalla Regione Lombardia, la quale, invece di essere acquistata, come si presumeva, dalla comunità romeno-ortodossa, è stata comprata legalmente, con un’offerta più alta, da un’associazione musulmana, aggirando in tal modo una norma regionale antimoschee voluta dalla Lega.
Questa la destinazione d’uso delle Case di Dio e non solo di quelle dismesse.
Per mettere “ordine” in questo caos, è arrivata la Santa Sede, attraverso il suo Dicastero, il Pontificio Consiglio della cultura, che ha prodotto un documento, La dismissione e il riuso ecclesiale di chiese. Linee guida, linee rivolte a tutte le comunità ecclesiali per affrontare il fenomeno in continuo aumento. Il documento è stato sottoscritto dal Dicastero e dai delegati delle Conferenze episcopali di Europa, Canada, Stati uniti d’America e Australia, a conclusione del convegno internazionale Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, promosso a fine novembre dello scorso anno alla Pontificia Università Gregoriana dal Pontificio Consiglio della cultura in collaborazione con la Conferenza episcopale italiana e l’Ateneo dei Gesuiti.
Per la dirigenza ecclesiastica secolarizzata e laicizzata, politicamente attiva e impegnata, occorre coinvolgere nella programmazione le comunità cristiane locali e cercare un’intesa con le comunità civili e tutti i soggetti pubblici e privati interessati affinché i progetti di trasformazione, si legge nel documento, «siano sostenibili dal punto di vista tecnico, economico, sociale e culturale» e si inseriscano come tasselli all’interno di «una storia di identità comunitaria storicizzata e plurale».
La Chiesa interreligiosa dei nostri tempi ha tragicamente rinunciato all’evangelizzazione (primo scopo della Chiesa fondata dal Figlio di Dio), come infatti si evince dal documento, privo di qualsivoglia sguardo spirituale e men che meno soprannaturale, che sfiora il termine «evangelizzazione», ma per inserirlo in un processo meramente evolutivo: le chiese «associano (nella loro molteplicità storica e nella loro stessa natura teologica) elementi spaziali sia di continuità identitaria, sia di trasformazione storicizzata: da un lato la loro stabilità esprime la plantatio ecclesiae in un territorio, in un contesto geografico, culturale e sociale; dall’altro, considerate le trasformazioni storiche dei riti, della spiritualità e delle devozioni, devono poter seguire la vita delle comunità, chiamate a operare con discernimento nella dialettica tra fedeltà alla memoria e fedeltà al proprio tempo. Letto alla luce di tale dinamismo trasformativo, l’eventuale processo di dismissione e di riuso costituisce un momento delicato, che si inserisce come tassello ulteriore in una storia di identità comunitaria storicizzata e plurale».
Venendo al concreto, si invita a mettere le chiese a disposizione delle pluralità ecclesiali e sociali: «tanto in ambito liturgico (luoghi di culto per pastorali specializzate) quanto catechetico, caritativo, culturale, ricreativo ecc. Ambiti privilegiati per il riuso delle chiese sottoutilizzate sono sicuramente il turismo e la creazione di spazi di silenzio e di meditazione aperti a tutti», le chiese, così, potranno essere affidate ad associazioni e movimenti laicali «che ne garantiscano un’apertura prolungata e una migliore gestione patrimoniale. In alcune realtà si sta facendo strada l’esperienza di un utilizzo misto dello spazio, destinandone una parte alla liturgia e un’altra a scopi caritativi o sociali; tale soluzione comporta però la necessità di una revisione del diritto canonico». «Ogni intervento non può restare un caso isolato: una visione territoriale unitaria delle dinamiche sociali (flussi demografici, politiche culturali, mercato del lavoro ecc.), delle strategie pastorali […] e delle emergenze conservative […] consente di inserire ogni chiesa in una trama di valori e strategie condivise».
Quando Cristo si è Incarnato non ha badato né ai flussi demografici (migratori), né alle politiche culturali, né al mercato del lavoro… così neppure i Suoi Apostoli, che andarono in tutto il mondo a celebrare il Santo Sacrificio dell’altare e a battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; così neppure i Padri della Chiesa, i Papi e i pastori per duemila anni, i quali hanno innalzato, nelle società che avevano cristianizzato: sacelli, cappelle, chiese, abbazie, cattedrali, basiliche, santuari per glorificare in terra Dio e per la salvezza eterna delle anime. Ma a questi funzionari dello Stato Vaticano tali realtà non interessano: sono nel mondo e del mondo. (Cristina Siccardi)