A proposito della storia del Risorgimento italiano troppo si è equivocato sul cosiddetto “Brigantaggio”, identificando i briganti comuni (giustamente combattuti sia dai Borboni, prima, che dai Savoia, dopo) con i combattenti lealisti, un’operazione che è servita a dare una sorta di legittimità alla Conquista del Sud perché, si sa, per la storia ufficiale, quella scritta dai vincitori, quella stessa impostaci fin da ragazzi dai libri di testo faziosi e manichei, è peccato mortale parlar male del Risorgimento e di Garibaldi, il biondo eroe dagli occhi celesti, che non esitò nei “Due Mondi” a fomentare torbidi e ad alimentare il fuoco della sedizione e della rivolta canagliesca; quello stesso eroe che – scriveva il mio sussidiario delle elementari – pianse una notte intera per avere, inavvertitamente, strappato una zampetta a un grillo ma che – sembra – non esitasse, nella pineta di Ravenna, ad aiutare la concubina Anita a “dolcemente morire”.
Insomma – e i programmi ministeriali delle scuole ne son pegno – il popolo meridionale che, comunque la si voglia mettere, subì i moti risorgimentali e, conseguentemente, l’unità italiana, deve far la figura del cattivo e dell’arretrato che rifiuta la libertà e le “nuove idee”, insomma il progresso, arrivando fino ad osteggiarli con la guerra di popolo.
Ma siamo certi che la libertà portata dagli “apostoli” piemontesi e “garibaldeschi” fosse stata invocata dal popolo meridionale?
“Ce l’ho qui (e si tocca il petto) la libertà, dacché tra la mia e quella dei liberali ho scelto liberamente, da uomo. Non mi piace la loro libertà, ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa” esclama uno dei protagonisti de “L’Alfiere” entro la piazzaforte di Gaeta assediata e cannoneggiata dai “liberatori” piemontesi. Una riflessione su cui tutti noi dovremmo meditare.
L’ interesse che ancora molti (specialmente tra i giovani) hanno per le vicende dell’Antirisorgimento che, comunque, appartiene anch’esso alla nostra storia patria, mi hanno indotto a buttar giù queste note su quel fenomeno che fu il “brigantaggio”, una guerra “di popolo” combattuta senza esclusione di colpi.
Questo movimento lealista (certamente nella guerra partigiana contro l’invasore piemontese si infiltrarono anche i briganti veri e propri che se ne “fottevano” della Monarchia e della libertà) non ebbe mai un serio coordinamento e un vero “capo” ma fu una sollevazione generale, spontanea, delle popolazioni contro la Rivoluzione italiana, aiutata dall’Inghilterra, che cercava di opprimere il popolo del meridione d’Italia..
“Secondo la stampa estera- scrive Carlo Alianello ne “La Conquista del Sud” – dal gennaio all’ottobre del 1861, si contavano nell’ex Regno delle Due Sicilie 9.860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paese bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 16.628 imprigionati, 1.428 comuni sorti in armi. E questo martirio, questa insana persecuzione assai anni durò, finché i morti furono troppi , nauseati, soldati e ribelli, dal lungo e sfibrante lezzo dei cadaveri. La rivolta durò ancora molti anni, fin quasi al 1869, spegnendosi, coprendosi di cenere, e poi tornando a divampare d’un tratto come il fuoco delle boscaglie, se lo rattizza il vento. Ché sempre vi fu vento di fame e di patimenti.”
Anche se non mancò chi, nel nome della Corona, si dette al brigantaggio comune, taccheggiando proprietari “borbonici” e “liberali”, mentre i piemontesi , sulle orme di Liborio Romano, avevano messo ai vertici del comando ladri, spie, ruffiani, grassatori…insomma la Camorra che si stava organizzando e che, sotto i Borboni, quasi non esisteva.
Dunque la popolazione meridionale vide nel “brigantaggio” e, molte volte non solo in quello politico ma anche in quello comune, la lotta contro il potere totalitario, che, in questo caso, era l’usurpatore piemontese.
Tra i “briganti del Re” emerge una figura romantica : quella di José Borjes .
I legittimisti francesi e napoletani, nella vana speranza di coordinare i moti antiunitari, contattarono Don José Borjes, antico cabacilla spagnolo, già compagno d’armi di Zumalacarreguy, eroico combattente carlista nelle guerre civili di Spagna che, fedele al suo motto : “Por Dios, la Patria y el Rey”, sposò subito la causa lealista del Regno delle Due Sicilie, recandosi in Italia meridionale per iniziare i combattimenti.
Non si sa bene quello che gli esuli legittimisti pensassero, ma una cosa è certa, il Borjes partì con tante promesse avute ma con soli ventidue uomini e venti fucili, a differenza del grande “eroe” Garibaldi che, come scrive il De Sivo : “Andò con mille da sicuro porto in sicuro mare, sorretto da mezza Italia, da Francia e Inghilterra, con oro massonico, con la già compra flotta avversa, e co’ preparati tradimenti militari.”
Sceso in una deserta spiaggia nei pressi di Bruzzano, questo cavaliere antico dai lunghi mustacchi e dagli occhi neri e penetranti, arrivò a Precacore, acclamato dai cinquecento abitanti del paese che, nella chiesa, intonarono il “Te Deum” di ringraziamento: ma i “cafoni” pagheranno subito questa loro insubordinazione al nuovo potere totalitario, infatti Precacore verrà saccheggiata dai rivoluzionari.
Il Borjes cercò di unirsi subito al capo – brigante Ferdinando Mitica che contava su un centinaio d’armati; la diffidenza del Mitica verso il comandante spagnolo e un conflitto a fuoco dello stesso Mitica con la Guardia Sarda, convinsero il capo – brigante a sciogliere la sua banda.
Rimasto solo, mentre i liberalrivoluzionari consumavano le loro vendette sui sospetti “reazionari” bruciando le case e i raccolti di coloro che avevano servito Francesco II, il Borjes iniziò la sua ritirata, mentre Ferdinando Mitica, ferito in un agguato, fu ritrovato morto il giorno di poi.
Il Cialdini, con la censura alla stampa, non certo ignaro dello spargimento di sangue fraterno, celebrava intanto la sua vittoria asserendo di aver sconfitto definitivamente il “brigantaggio”.
Ma intanto i moti continuarono e, ovunque, il popolo meridionale, seppur disordinatamente, senza una guida,si levava in armi contro gli “apostoli della libertà” : “(in) un conflitto a fuoco a Montecilfone…i montanari manomisero la casa di un liberale: costui accusò correi i suoi nemici, onde molti andarono fucilati , cui poi, seguìto giudizio, i tribunali dichiararono innocenti. Inoltre il comandante promise con un bando la vita a chi si presentasse; avutone da due dozzine legolli come per mandarli a Larino; ma fatte due miglia li uccise. Sui primi di ottobre per un tafferuglio in Marruci, tra marrucesi e arischiani, si fucilarono sulla piazza di Arischia tre ‘facinorosi’ cioè borboniani.”
(Cfr: Giacinto de Sivo in “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861” Vol.II pag.174 -Trieste 1868)
Arrivato in Basilicata il Borjes e i suoi spagnoli si incontrarono con il brigante Carmine Donatello Crocco che, insieme a Ninco Nanco, contava circa quattrocento uomini e, facendosi chiamare Generale, era più intento alla rapina che alla guerra lealista.
Comunque Borjes, spes contra spem, si unisce alla banda di Crocco e, facendo fuggire i Sardi, i Comuni e i Nazionali, entra vittorioso in Staglieno accolto dalla popolazione in festa; oltre mille bersaglieri giunsero, chiamati dai liberali di Potenza, per rioccupare Staglieno.
Ma la “guerra per bande”, le rapine e la brutalità di Crocco e il suo disimpegno nella lotta per il Trono e per l’Altare, non solo delusero, ma prostrarono profondamente il Borjes che, all’istante, decise di andare a riferire al “suo” Re la situazione vera, onde mostrargli anche il suo piano per una “Guerra di Liberazione”.
Braccato da cinquanta battaglioni tricolorati e da cinque generali, , con una cinquantina di camerati rimastogli fedeli, il comandante carlista, attraverso la Basilicata arriva in Abruzzo ove, stremato dal freddo e dalla fame, si fermò, con i suoi, per riposare, nella cascina detta Loppa, a sole quattro miglia dal confine dello Stato Pontificio.
Qui avviene l’ultimo tradimento: la guida che aveva condotto fin qui l’eroico manipolo di lealisti informò i “nazionali” ; giunse subito il comandante Franchini che, con oltre cento bersaglieri, circondò la casa.
Dopo oltre un’ora di fuoco il Borjes, con diciotto uomini, si arrese ai nazionali con la promessa di aver salva la vita, consegnò la sua spada al Franchini ed ebbe anche parole di elogio per il comportamento dei bersaglieri; non fu lo stesso il comportamento del comandante Franchini che fece incatenare il Borjes e i suoi camerati, arrivando perfino a schiaffeggiarli, quindi li fece rivestire di stracci e sporcò i loro visi per mostrare i “ceffi” dei briganti.
L’iconografia risorgimentale del “bandito” da mostrare, secondo le indicazioni del Lombroso, al popolo, era pronta!
In quelle condizioni i diciannove carlisti vennero portati a Tagliacozzo e qui furono tutti fucilati : morirono invocando il nome di Dio e caddero sotto il fuoco giacobino inneggiando a Re Francesco.
José Borjes invitò i bersaglieri a sparare al petto perché gli venisse risparmiato il bel volto arso al sole di mille battaglie!
Poco dopo la fucilazione dei carlisti arrivò l’ordine di salvar loro la vita (con molte probabilità il Franchini aveva ricevuto prima tale ordine e l’aveva tenuto nascosto onde poter portare a termine la sua “impresa”) ; gli sfortunati lealisti furono derubati dei pochi soldi che avevano addosso e che il Franchini e i suoi scherani poterono spendere, all’indomani, nelle bettole della cittadina.
Volò così, nel cielo degli eroi, quell’anima inquieta e ingenua del Donchisciotte spagnolo che regalò al re e alla Corona la sua giovane vita; poco dopo : “il napolitano principe di Scilla e il parigino Visconte di Saint Priest ottennero (…) dal Lamarmora l’esumazione del corpo di lui e ‘l menarono a Roma ov’ebbe dagli esuli napoletani solenni funerali.”
(da “TRONO E ALTARE” – Krinon Ed., Caltanissetta 198- di PUCCI CIPRIANI)
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