di Daniele Di Sorco

Tratto da Radio Spada

A due mesi dall’uscita di Parole chiare sulla Chiesa. Perché c’è una crisi, dove nasce e come uscirne è tempo di tracciare un breve bilancio. Con questa intervista al curatore dell’opera affrontiamo principalmente gli attacchi che il libro ha ricevuto.


RS: Buongiorno don Daniele, grazie per aver accettato questa intervista. Ormai sono due mesi che “Parole chiare sulla Chiesa” è stato pubblicato: l’interesse destato è stato molto vasto e tante persone ci detto di aver tratto beneficio dalla lettura del volume. Che impressione ha ricevuto dai lettori?

Don Daniele: Nella redazione di Parole chiare sulla Chiesa, la nostra principale preoccupazione – dico nostra, perché al libro hanno collaborato altri due sacerdoti della Fraternità San Pio X, oltre all’intervento di Aldo Maria Valli – è stata quella di mantenerci fedeli ai principi della sana dottrina cattolica, evitando di proporre teorie personali o di inventare una nuova teologia ad hoc per spiegare la crisi. Speriamo, con l’aiuto di Dio, di esserci riusciti. Le prime impressioni dei lettori sembrano molto positive.  

RS: A Roma il libro è stato presentato insieme a Galleria neovaticana. Modernismo, vizi innominabili e corruzione ai tempi di Bergoglio di Marco Tosatti. Gli argomenti trattati dai due volumi sono certamente diversi, ma da diverse angolature entrambi raccontano la gravissima malattia – unica nel suo genere – che attraversa la Chiesa da decenni. Se dovesse raccontare questa crisi ai lettori in poche (e chiare) parole, cosa direbbe?

Don Daniele: Sintetizzare la crisi attuale della Chiesa in poche righe è impossibile. Occorrerebbero diversi volumi. Però si può cercare di individuare il principio generatore della crisi, quello che ci consente di spiegare le sue diverse sfaccettature. A mio avviso, si tratta di ciò che S. Pio X, nell’enciclica Pascendi, definiva “agnosticismo fenomenologico”. Il pensiero moderno, ormai da diversi secoli, sostiene che la verità oggettiva è inaccessibile all’uomo. La nostra conoscenza si limita alle apparenze, ai fenomeni. Tutto è ridotto ad opinione, e le opinioni, come si sa, sono di per sé soggette a variazione. Ora, il modernismo, in tutte le sue forme, consiste nell’applicare il pensiero moderno alla rivelazione cristiana. I risultati sono facili da immaginare. Se non possiamo conoscere la verità oggettiva sul mondo che ci circonda, figuriamoci su Dio. Ecco che, allora, il cattolicesimo viene ridotto ad una delle tante manifestazioni del “senso religioso” che alberga nel cuore dell’uomo. Le verità di fede diventano pure opinioni soggettive, legate ad un’epoca e destinate a cambiare col passare del tempo.

Non bisogna confondere pensiero moderno e modernità. La Chiesa non si è mai opposta a ciò che è nuovo soltanto perché è nuovo. Al contrario, la Chiesa si è sempre opposta al nuovo nella misura in cui esso si pone in contrapposizione con la verità ricevuta dal suo divino Fondatore.

Ora, il tentativo di far penetrare il pensiero moderno agnostico all’interno della Chiesa si chiama “modernismo” ed è assai più antico del Concilio Vaticano II. Ma è col Concilio Vaticano II che l’operazione riesce, che viene avallata e promossa dai più alti vertici dell’autorità ecclesiastica, Papa compreso. Le principali novità del Vaticano II sono appunto una conseguenza della mentalità agnostica applicata alla rivelazione cristiana. Prendiamo l’ecumenismo. Se la verità religiosa diventa soggettiva, allora è logico affermare, come fa Unitatis redintegratio, che anche le religioni non cattoliche sono mezzi di salvezza. Se non ci sono argomenti certi per distinguere la vera religione dalle false, allora è logico che lo Stato riservi a tutte lo stesso trattamento, che tutte abbiano ugualmente diritto di esprimersi, come sostiene Dignitatis humanae. Se l’idea che ci facciamo di Dio cambia a seconda dell’epoca e della cultura in cui siamo immersi, allora è logico che la Chiesa, anziché essere governata da uno solo, assuma una struttura più democratica, perché una collettività di persone è ritenuta più capace di cogliere i “segni dei tempi” e la voce del “popolo di Dio”. Ecco che, secondo Lumen gentium, nella Chiesa esistono due soggetti del potere supremo: il Papa da solo e il “collegio dei vescovi” con il Papa.

Il Concilio Vaticano II ha poi un’appendice liturgica, il Novus Ordo Missae di Paolo VI. Anch’esso è figlio della stessa mentalità. Come evidenziato da autorevoli teologi, fra cui il card. Ottaviani, il nuovo rito della Messa esprime una dottrina vaga, ambigua, indefinita, che può andare bene sia a un cattolico che a un protestante o a un modernista.

Questi errori possono sembrare circoscritti ad ambiti che toccano solo marginalmente la vita dei fedeli. In realtà, sono le fondamenta stesse del cattolicesimo ad esserne scosse. Se è possibile salvarsi in qualunque religione o anche senza nessuna religione, per quale motivo dovrei restare cattolico o continuare ad osservare la morale cattolica? Se non si capisce più che nella Messa si rende nuovamente presente il sacrificio della croce, che Cristo è realmente e fisicamente presente sotto le specie del pane del vino, che interesse ho di continuare ad andare in chiesa? Se il cattolicesimo non pretende più di essere riconosciuto come vera religione dallo Stato, perché dovrebbero farlo i cittadini? Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le società si scristianizzano. Sempre più persone abbandonano la fede. La pratica religiosa è ridotta ai minimi termini. E anche fra quelli che continuano ad andare in chiesa, la stragrande maggioranza ha un’idea della religione di fatto agnostica: il cattolicesimo non è “la” verità (oggettiva), ma la “mia” verità (soggettiva), che peraltro posso moderare a mio piacimento. “Sono cattolico, ma favorevole all’eutanasia”. “Sono cattolico, ma non trovo niente di male nel divorzio”. Questa situazione non è frutto del caso o di nefaste influenze esterne. È la logica conseguenza del modernismo penetrato all’interno della Chiesa col Concilio Vaticano II.

Del resto, anche gli errori dei Papi postconciliari trovano la loro spiegazione nelle dottrine del Concilio. Paolo VI che si prostra di fronte al patriarca “ortodosso” di Costantinopoli, Giovanni Paolo II che organizza gli incontri interreligiosi di Assisi, Benedetto XVI che prega rivolto alla Mecca nella Moschea Blu di Istanbul, Francesco che celebra i vespri insieme all’arcivescovo anglicano di Canterbury: tutti questi gesti (per non parlare dei documenti del magistero che vanno nello stesso senso) si fondano sulle false dottrine di Unitatis redintegratio. Allo stesso modo, Paolo VI che chiede alle nazioni cattoliche di abbandonare la religione di Stato, Giovanni Paolo II che vede nella libertà religiosa (anche quella delle false religioni) il fondamento di ogni libertà, Benedetto XVI che proclama l’autonomia dello Stato rispetto alla religione: tutto questo sarebbe impensabile senza Dignitatis humanae. E si potrebbe continuare a lungo.

Mi sembra evidente che la crisi abbia subito un’accelerazione da quando c’è papa Francesco. Questo però non significa che la crisi cominci con lui. Papa Bergoglio non ha fatto altro che portare alle sue logiche conseguenze gli errori di principio già sostenuti dal Concilio Vaticano II e dai suoi predecessori.

RS: Passiamo alle reazioni più strane che il libro ha suscitato. In un articolo apparso recentemente sul blog del quotidiano Libero, le pagine da Lei curate vengono duramente attaccate. Che ci può dire?

Don Daniele: La prima impressione è che gli autori di questi attacchi non abbiano neppure letto il libro. Ci si definisce sedevacantisti, quando un intero capitolo di Parole chiare sulla Chiesa è appunto dedicato a confutare il sedevacantismo. La Fraternità San Pio X non è mai stata sedevacantista. Ha sempre riconosciuto tutti i Papi postconciliari (compreso Francesco) come veri Papi, pur rifiutando di prestare loro obbedienza a causa delle loro dottrine moderniste. Come abbiamo spiegato nel libro, non c’è nulla di contradditorio nel riconoscere una persona come vero Papa e, al tempo stesso, rifiutare di obbedirgli se i suoi ordini sono oggettivamente ingiusti e contrari alla fede. Non si vede che cosa c’entri il sedevacantismo. Sedevacantista, semmai, è chi pensa che la sede romana sia senza Papa da cinque mesi, cioè dalla morte di Joseph Ratzinger. Per non parlare delle sedi episcopali, la maggior parte delle quali sarebbe vacante a causa dell’invalidità delle nomine fatte da Bergoglio.

Ancora più paradossale è l’accusa di essere “pretoriani di Bergoglio”. Chiunque conosce la Fraternità San Pio X sa che essa non ha mai smesso di denunciare pubblicamente gli errori di papa Francesco e di invitare il mondo ecclesiastico alla resistenza. Il nostro libro non fa eccezione. Solo che questo atteggiamento la Fraternità l’ha avuto anche con gli altri Papi postconciliari, perché, come abbiamo detto, la crisi non comincia con Francesco. Il problema è che, per alcuni, il solo fatto di riconoscere Bergoglio come Papa basta per renderci suoi “pretoriani”.

Per quanto riguarda la rinuncia di Benedetto XVI, in Parole chiare sulla Chiesa se ne parla con abbondanza di particolari. Mi pare che i critici non rispondano a nessuno dei nostri argomenti, ma si limitino a ribadire parossisticamente le loro tesi. Purtroppo per loro, affermare non equivale a dimostrare, alzare i toni non significa avere ragione. Sarei tentato di non aggiungere altro. Ma la confusione su questo tema è troppo grande e quindi approfitto dell’occasione che mi fornisce la vostra intervista per precisare alcuni punti.

L’argomento principale di chi afferma l’invalidità della rinuncia di Benedetto XVI è la distinzione fra munus ministerium. Munus significherebbe essere Papa, avere il potere papale, mentre ministerium significherebbe fare il papa, esercitare il potere papale. E in effetti, se così fosse, la rinuncia di Benedetto XVI sarebbe invalida, perché rinunciare a fare il Papa non implica rinunciare ad essere Papa. Il problema è che la distinzione munus = essere / ministerium = fare, a quanto sembra, è stata inventata di sana pianta da un certo Michaël Steenbergen (citato come fonte da Estefanía Acosta) proprio allo scopo di provare l’invalidità della rinuncia di Ratzinger. Steenbergen non è un canonista, ma un filosofo, e non offre nessun argomento a sostegno della sua tesi. Del resto, neppure la Acosta e Sanchez sono canonisti, bensì esperti di diritto civile. La distinzione proposta non trova nessun riscontro né nei documenti magisteriali, né nel diritto canonico e nemmeno nei commentatori di quest’ultimo. Questo vuol dire che non esiste nessuna distinzione fra munus ministerium? Certo che esiste. Solo che non è quella proposta da Steenbergen e dai suoi epigoni. Se studiamo il codice e la dottrina degli autori, ci accorgiamo che munus significa carica, ruolo, ufficio dal punto di vista della causa efficiente, dell’origine (il primo significato di munus è “dono”, e una carica è per l’appunto qualcosa che si riceve o direttamente da Dio o dal proprio superiore gerarchico). Ministerium significa invece carica, ruolo, autorità dal punto di vista della causa finale, dello scopo (il primo significato di ministerium è “servizio”, perché l’autorità va esercitata a beneficio della comunità). Ecco perché ministerium viene usato di preferenza, ma non esclusivamente, per i diversi gradi del sacramento dell’Ordine. Come si vede, entrambi i termini si riferiscono all’essere dalla carica e non al suo esercizio, sia pure con sfumature diverse. In termini filosofici, si tratta di una differenza non reale, ma di ragione. Le due parole sono sinonimi, non nel senso che abbiano esattamente lo stesso significato (come prendere pigliare), ma nel senso che indicano la stessa cosa (come causa prima creatore). A riprova di quanto detto, citiamo un solo testo, tratto dall’Ordo rituum pro Ministeri Petrini initio Romae Episcopi, approvato da Benedetto XVI nel 2005: “L’elezione del Vescovo di Roma […] è sempre stata accompagnata da celebrazioni liturgiche che […] mettono in risalto il significato del ministero del successore di Pietro come Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa cattolica. L’assunzione di tale Ufficio nel momento in cui l’Eletto accetta l’elezione […]”. Come si vede, ministerium viene qui usato come sinonimo di officium, cioè, ancora una volta, di carica. Per altri esempi e per la dottrina dei canonisti rimandiamo al libro. D’altra parte – sia detto per inciso – alcuni sembrano non rendersi conto che la distinzione proposta da Steenbergen, Acosta e Sanchez farebbe crollare il “codice” da essi inventato come un castello di carte. Se infattinel linguaggio teologico-canonico ministerium significasse non “essere Papa” ma “fare il Papa”, chiunque si sarebbe accorto che la Declaratio di Benedetto XVI non implicava nessuna rinuncia al papato. Sarebbe stato chiaro come il sole.

 A fugare ogni dubbio, Benedetto XVI dichiarò di rinunciare al ministerium di Vescovo di Roma “in modo che […] la sede di San Pietro sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. Qui si è sostenuto che l’espressione tradotta con “sede vacante” significherebbe in realtà “sede vuota” e che di conseguenza Benedetto rinuncerebbe solo al trono fisico di San Pietro, mantenendo però il potere papale. Certo, etimologicamente la parola latina vacans viene da vacuus, ossia “vuoto”. Ma nella terminologia tecnica del diritto ecclesiastico sedes vacans è, da secoli, un’espressione metaforica che significa sempre la cessazione da una carica, il fatto che un certo ruolo non ha più chi lo ricopra: la “sede vacante”, appunto. Qui i nostri critici fanno due pesi e due misure: munus ministerium dovrebbero essere interpretati in senso strettamente giuridico (peraltro sbagliato, come abbiamo visto sopra), mentre per sedes vacans andrebbe bene un significato vagamente etimologico! Con un simile trattamento, si può far dire tutto e il contrario di tutto a qualsiasi testo.

Anche l’espressione “da coloro a cui compete” è tecnica, la troviamo in innumerevoli altri documenti ecclesiastici. Inoltre, l’uso di + ablativo nella perifrastica passiva è comune nel latino ecclesiastico. Non si vede dove sia il mistero.

Per finire, si è molto speculato sulla frase di Ratzinger: “Non sono più Pontefice Sommo”: in italiano si dice normalmente “Sommo Pontefice”, quindi questa inversione sarebbe la conferma che Benedetto XVI non ha veramente rinunciato al papato. Ci limitiamo a far notare che l’espressione “Pontefice Sommo”, benché più rara ed aulica, esiste in italiano. La troviamo, per esempio, nella lettera che il Procuratore Generale degli Oratoriani inviò a Benedetto XVI in occasione della sua elezione a Papa. Del resto, le espressioni “Sommo Pontefice” e “Pontefice Sommo” sono perfettamente sinonime. Paragonarle alle espressioni “vecchio amico” e “amico vecchio”, come fa qualcuno, è un sofisma, perché qui l’aggettivo si riferisce ora all’amicizia ora alla persona, cosa che non avviene tra “Sommo Pontefice” e “Pontefice Sommo”, così come non avviene tra “alto monte” e “monte alto”.

Ecco quel che valgono i principali argomenti di chi sostiene l’invalidità della rinuncia. Non credo sia il caso di discutere gli altri, che sono ancora meno consistenti, in alcuni casi al limite della ragionevolezza. Molti si fanno impressionare dal numero di “prove” e “indizi” accumulati da chi sostiene l’invalidità della rinuncia. Certo, di “prove” e “indizi” se ne presentano molti. Peccato che valgano zero. Ora, una somma di zeri, per quanto lunga, darà sempre zero.

RS: Secondo alcuni, la crisi della Chiesa comincia con Bergoglio. Prima di lui, i Papi hanno sostanzialmente fatto il loro dovere. Che ne pensa di una simile posizione?

Don Daniele: Che essa, come abbiamo visto, è contraddetta dai fatti. Ma quel che è peggio, è che un’idea del genere spinge le persone a non vedere le vere cause della crisi e ad accettare una parte del modernismo. Si rifiuta il modernismo “estremo” di Francesco, ma si accetta il modernismo “moderato” di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Senza capire che quello è figlio di questo.

RS: Focalizziamoci un attimo su un punto spesso carico di confusione: molti oggi credono che la resistenza al neomodernismo sia iniziata nel 2013, in reazione a Bergoglio. Può dirci in breve chi era Mons. Lefebvre, cos’è la Fraternità San Pio X? Insomma, può spiegare ad alcune vittime di mistificazioni che Lei non ha frequentato il seminario modernista, non vive in parrocchia e non percepisce il cosiddetto 8×1000? Detto in termini ancor più espliciti: può spiegare il senso e le difficoltà di un apostolato come quello che svolge?

Don Daniele: Si moltiplicano sul web gli appelli di alcuni sacerdoti che esortano i loro confratelli a “uscire fuori” a “venire allo scoperto” per manifestare la loro opposizione a Bergoglio. In realtà, l’opposizione a Bergoglio esiste già da anni: è quella della Fraternità San Pio X. Solo che la nostra Fraternità non si oppone solo a Papa Bergoglio. Si oppone a tutto il modernismo, dal Concilio Vaticano II in poi. La missione della Fraternità San Pio X può essere sintetizzata in una frase: conservare la dottrina cattolica nella sua integralità, senza aggiungere o togliere nulla. È invalso l’uso di parlare di “cattolici tradizionalisti”. L’espressione è comoda, ma non del tutto corretta. Noi siamo cattolici e basta. Abbiamo la stessa fede che la Chiesa romana ha professato da duemila anni a questa parte. È stato il modernismo del Vaticano II e dei papi postconciliari che, come vi abbiamo visto, ha avuto la pretesa di cambiare questa fede, come se essa fosse una realtà puramente umana, sottoposta al divenire della storia e all’evoluzione delle mentalità.

Mons. Lefebvre è stato il vescovo che ha avuto la lucidità di capire tutto questo già durante il Concilio Vaticano II. E non soltanto di capire, ma di correre ai ripari. Per preservare la fede cattolica occorre in primo luogo formare buoni sacerdoti. Ecco perché la sua prima grande impresa fu quella di fondare il seminario di Ecône, diventato ben presto famoso in tutto il mondo. La sua seconda grande impresa è connessa alla prima. Sentendo la morte avvicinarsi, egli decise di consacrare quattro vescovi anche senza il mandato del Papa. Non c’era altro modo per assicurare la sopravvivenza del cattolicesimo di sempre. Se mons. Lefebvre non avesse fatto quelle consacrazioni, il clero “tradizionalista” si sarebbe semplicemente estinto.

Tutti sappiamo le reazioni delle autorità romane: Mons. Lefebvre fu prima sospeso a divinis e poi scomunicato. Tutte sanzioni che sono oggettivamente invalide perché palesemente contrarie al bene comune, l’intenzione di Roma essendo quella di imporre a tutti i suoi errori modernisti.

È facile immaginare che, in questo contesto, le difficoltà del nostro apostolato sono immense. Molti ci considerano scismatici, disubbidienti, quando non facciamo altro che difendere la fede cattolica e il papato così come sono sempre esistiti. Non percepiamo nessun sostegno economico né dallo Stato né dalle diocesi. Tutto ciò che la Fraternità possiede è frutto della generosità, talvolta eroica, dei suoi fedeli. Le autorità ecclesiastiche attuali ci mettono i bastoni fra le ruote. A fronte di innumerevoli chiese chiuse o affidate agli “ortodossi” e protestanti, la Fraternità deve accontentarsi – come i nostri fedeli sanno bene – di qualche locale adattato alla bell’e meglio per il culto e pagato a sue spese.

Nonostante questo, la Fraternità si diffonde, le nostre opere fioriscono, le vocazioni aumentano. Segno che il Dio benedice chi, nonostante tutto, resta fedele alla sua dottrina, ai suoi comandamenti.