Pubblichiamo l’intervento di Cristina Siccardi alla prima presentazione del libro Trilogia romana, pubblicato da Solfanelli, che si è tenuta a Firenze il 13 dicembre scorso al Palazzo della Regione Toscana di Firenze, organizzata dal professor Pucci Cipriani, con il patrocinio della Lega.
È evidente che nel panorama editoriale ci sia un generico disinteresse per la narrativa cattolica, che va dalla narrativa letteraria a quella storica. Essa è destinata a finire come genere letterario? No davvero, la narrativa cattolica esisterà fin quando ci saranno bravi scrittori che vi si cimenteranno.
A dimostrazione di ciò, basti dire che ci sono opere che continuano ad essere ripubblicate. Pensiamo a le Ultime lettere (1532-1535) di Tommaso Moro (1478-1535), il Diario di un curato di campagna e I dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos (1888-1948), La liberazione del gigante (su San Tommaso d’Aquino) o The Golden Thread (su Sant’Ignazio di Loyola) di Louis de Wohl (1903-1961), Loss and Gain, ovvero l’autobiografia del Beato John Henry Newman (1801-1890) e poi tutta la narrativa chestertoniana e quella di Giovannino Guareschi (1908-1968), l’uomo “provinciale” dai grandi occhi e dai grandi baffi, così intelligente da non essere un intellettuale da salotto; non l’opinionista, ma il giudice realista e sagace che usava criteri di ragione e di fede per misurare pensieri e azioni, propri e altrui. Il PCI è passato, Guareschi rimane, perché portatore di verità eterne e di valori intramontabili.
Giornalista e autore di un numero impressionante di testi, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) fu uno scrittore molto brillante, efficace soprattutto nell’arte del paradosso, in grado di mescolare con disinvoltura riflessioni di rara finezza e pagine di esilarante comicità. Interessante notare come ne L’osteria volante del 1914, un romanzo apparentemente surreale, immagina un’Inghilterra del XXI secolo dominata da un potere di tipo massonico che si avvale della collaborazione di ambienti islamici. La forza del libro sta nell’aver individuato i pericoli dell’immigrazione e del multiculturalismo, ma soprattutto nel descrivere l’avvento di masse di uomini devoti al nulla, schiavi senza un padrone e che vivono senza causa e senza ideali oltre la materia. Un tema, questo, che ricorre anche in altri suoi lavori fantastorici come Il Napoleone di Notting Hill del 1904 e La sfera e la croce del 1909.
Esiste poi un filone definito cattolico distopico. Il termine distopìa è stato coniato in contrapposizione a utopia ed è utilizzato soprattutto per descrivere un’ipotetica società del futuro nella quale alcune tendenze filosofiche, culturali, sociali, politiche e tecnologiche sono percepite come negative e pericolose e portate al loro limite estremo. Una delle prime opere distopiche del Novecento è Il padrone del mondodel 1907 del sacerdote inglese Robert Hugh Benson (1871-1914), dove domina la secolarizzazione e l’annullamento della dipendenza dell’uomo da Dio, ponendo se stesso al centro di tutto.
Quelle di stampo cattolico sono distopie in cui il tragico finale sottende sempre una positività ultima, un riscatto possibile in virtù del sacrificio di Cristo sulla Croce e della sua promessa di redenzione universale. Monito e consolazione qui si mescolano.
L’eredità di Benson, che scrisse anche un romanzo utopico, L’alba di tutto nel 1911, è stata raccolta dal canadese Michael D. O’Brien (1948), autore di una trilogia sull’Anticristo che comprende tre volumi: Il nemico, L’inviato e Il libraio, pubblicati rispettivamente nel 1996, nel 2016 e nel 2005. La trilogia coglie spunti da Tolkien (1892-1973), Il Signore degli Anelli, da Dante (1265-1321), La Divina Commedia, da Manzoni (1785-1873), I Promessi Sposi e dall’intera tradizione patristica e scolastica, nonché dalle opere apologetiche di sant’Agostino (354-430), san Giustino (100-163/167) e Tertulliano (155 ca.-230 ca.).
Negli ultimi anni del Novecento si è avuto un ritorno alla narrazione storica, attraverso un romanzo, ambientato nel Medioevo, profondamente anticattolico. Nel 1980 Umberto Eco (1932-2016) ottenne un successo mondiale con Il nome della rosa, avviando così la rinascita del genere definito «romanzo neostorico».
La fioritura di romanzi storici, a partire dagli anni ottanta del Novecento fino ad oggi, può apparire come un paradosso, se si tiene conto della perdita di prospettiva storica che è caratteristica della cultura postmoderna. Tuttavia si tratta di un paradosso apparente, poiché il filone odierno si differenzia da quello ottocentesco proprio nel suo rifiuto di esprimere una concezione forte, organica e positiva della Storia; anzi, il romanzo neostorico respinge ogni idea storicistica di progresso. I narratori contemporanei non manifestano alcuna fiducia nei processi evolutivi della civiltà, ma sono loro i primi a porsi in modo critico verso la Storia stessa.
Il successo di alcuni nuovi romanzi storici può essere messo in rapporto con la crisi delle ideologie e la sfiducia nel divenire: il presente troppo squallido indurrebbe a rifugiarsi in un passato lontano. Il passato non è più la ricerca delle origini, ma può rappresentare una fuga dalla realtà, oppure la rappresentazione di una realtà sostanzialmente inconoscibile, quanto quella del presente. Non bisogna comunque dimenticare che il successo del romanzo storico non è un fenomeno solo italiano, ma riguarda tutta la narrativa postmoderna. È sufficiente ricordare Don DeLillo (1936) e Thomas Pynchon (1937).
Se Alessandro Manzoni, pur essendo cattolico liberale di formazione, ha lasciato spiccate tracce di cattolicità autentica nei Promessi Sposi, non così è avvenuto per Mario Pomilio (1921-1990). La sua narrativa si confà con lo spirito neomodernista, dove la Verità rivelata non è una certezza, ma un dubbio ed è il dialogo, il confronto con gli altri, l’incontro, l’esperienza a dare una linea che, però, non è mai definitiva. La sua attività è centrata intorno a casi o problemi di coscienza, di fede religiosa cattolica, come dimostrano L’uccello nella cupola del 1954 e Il quinto evangelio del 1975, che ebbe un grande successo di critica e di pubblico; ma anche di vita civile, sociale e politica con intenti moraleggianti, pensiamo a Il testimone(1956); Il nuovo corso (1959); La compromissione (1965); Il Natale (1983).
Nella finzione teatrale de Il quinto evangelio, altamente drammatica e carica di tensione, è rappresentato un pubblico dibattito, ambientato nella Germania degli anni quaranta, nel quale sono messi a confronto personaggi dei Vangeli, emblematiche figure contemporanee e un misterioso “quinto evangelista”, tutti quanti impegnati in un’appassionata discussione sulla vera identità e natura di Gesù. Il testo, costruito su un intricato gioco delle parti, si chiude con un colpo di scena che implicitamente propone la soluzione sul mistero del quinto vangelo:
«Lentamente il Quinto Evangelista si leva in piedi … liberandosi nel frattempo della benda che ha attorno al volto. Quando l’ha fatto si scopre, tra il silenzio dei presenti, un uomo che ha il volto stesso di Gesù.».
Il quinto evangelio va considerato come il vero capostipite di un fortunato filone di romanzi storici, proseguito qualche anno dopo la sua pubblicazione con Il nome della rosa di Umberto Eco del 1980 e I dodici abati di Challantdi Laura Mancinelli (1933-2016), pubblicato nel 1981. Il romanzo innovativo di Pomilio, dall’impianto complesso e dai molteplici volti, rappresenta in sintesi l’avventura della coscienza cristiana contemporanea, intossicata di modernismo, sempre in conflitto tra lo spirito soggettivo e la lettera del Vangelo, tra l’obbedienza alla Chiesa e la libertà della propria personale ricerca, tra la verità rivelata e l’attesa di una verità di là da venire, fra l’oggettività e l’ordine della presa d’atto della ragione e della fede e l’orgoglioso libero arbitrio dell’io disordinato, che nella contemporaneità ha preso il sopravvento. Le molte anime dell’opera si riflettono sul suo aspetto formale che presenta a un tempo numerose caratteristiche: dal romanzo all’epistolario, dall’antologia all’opera teatrale, dal saggio storico-biografico all’indagine filosofico-religiosa.
La storia può essere spiegata, ma può anche essere narrata. Negli ultimi decenni a raccontarla è stata più la filmografia (cinematografica o televisiva) che la letteratura, talvolta con buoni risultati, talaltra discreti, talora pessimi. Di sicuro nell’editoria troviamo molto ciarpame, sia nei contenuti, sia nello stile letterario e non solo per ciò che riguarda i romanzi o i racconti storici. Scrivere bene è un’arte, richiede preparazione, essere ruminatori di libri, rielaborare concetti e parole con un fraseggiare che catturi, rispetti, educhi il lettore, e quando si fa memoria di chi o di cosa non è più, allora occorre essere seri, esigenti nel rigore, intellettualmente onesti.
È così che, fra una scuola che non dedica più spazio sufficiente per una buona preparazione storica, fra un’istruzione agli studenti maggiormente proiettata alla formazione scientifica, informatica e tecnologica, fra la disattenzione generale ai fatti del passato a motivo della rivoluzione culturale del ’68 che ha sprezzato la Storia in quanto tale per proiettarsi in un futuro libero appunto dal passato, la narrazione storica non solo non è più considerata editorialmente appetibile, ma mancano proprio gli scrittori competenti in grado di proporla in maniera sincera e genuina, poiché l’ideologia discriminatoria e tendenziosa, erede delle teorie comuniste o radicali, è sempre in agguato.
Certamente grande fortuna procura l’occuparsi di romanzi anticattolici e blasfemi, come dimostra Dan Brown (1964), scrittore statunitense di thriller, con più di 200 milioni di copie vendute, autore dei bestseller Il codice da Vinci, pubblicato nel 2003, Crypto del 1998, Angeli e demoni del 2000. Il Cristianesimo è, in assoluto, la religione che maggiormente è da sempre la più perseguitata al mondo, sia con il martirio (rosso o bianco), sia a colpi di cultura. A fronte di una narrativa anticristiana degenere vorrei ricordare il bel romanzo di Elisabetta Sala, L’esecuzione della giustizia (D’Ettoris Editori) del 2017, che tratteggia le vicende della cosiddetta «Congiura delle polveri» e della persecuzione anticattolica dell’Inghilterra anglicana del 1605.
Nello squallido panorama narrativo in genere e narrativo-storico in particolare, arriva Trilogia romana di Roberto de Mattei, pubblicata da Solfanelli. Sono tre racconti ambientati nella Roma dell’Ottocento e del primo Novecento. È la prima volta che de Mattei si cimenta in questo genere letterario. La tipologia non è comunque quella del romanzo storico, bensì della ricostruzione di personaggi ed eventi rigorosamente documentabile, il che rende il lavoro alquanto accattivante e, allo stesso tempo, istruttivo.
De Mattei non ha mai amato molto i romanzi perché, come storico, sa che la realtà è spesso più romanzesca e interessante di quanto la fantasia umana possa immaginare. Ma l’iniziativa è nata dal fatto che oggi, per trasmettere delle verità storiche, religiose o morali, occorre trovare nuove forme espressive, non solo ricorrendo agli strumenti dell’innovazione tecnologica, come Internet, ma anche riproponendo generi letterari tradizionali, quali il teatro, la poesia, il romanzo. L’intento è dunque quello di avvicinare una cerchia più ampia di lettori, attraverso una ricostruzione storica di fatti e di eventi presentata in maniera narrativa. L’autore ha scelto, come forma predominante dell’esposizione, il dialogo, che gli è parsa la più efficace, come Joseph de Maistre (1753-1821) aveva fatto con le sue Serate di San Pietroburgo.
Quest’ultime, dette anche Colloqui sul governo temporale della Provvidenza è un capolavoro letterario pubblicato postumo dal figlio Rodolphe nel 1821. Nell’opera, suddivisa in undici colloqui fra tre personaggi immaginari – il Conte, piemontese; il Senatore, russo; il più giovane Cavaliere, francese -, si mettono in scena discussioni fra i protagonisti, che si trovano ad affrontare i più svariati temi relativi al senso della vita, della morte e della storia, oltre che del bene e del male e delle loro conseguenze.
Molto probabilmente il personaggio del Conte è de Maistre stesso e gli altri due personaggi sono ispirati a persone che l’autore conobbe durante il suo soggiorno a San Pietroburgo a causa dell’esilio patito a seguito dei successi napoleonici in Europa. Il testo narrativo è considerato il capolavoro del pensiero reazionario e controrivoluzionario. Qui vengono criticate le espressioni politiche, filosofiche, scientifiche e letterarie moderne con i loro eccessi secolaristi e irreligiosi, contrapponendo alle stesse le verità tradizionali, la dottrina cattolica e la filosofia cristiana di stampo aristotelico-tomista.
Si tratta dell’apice letterario del pensiero reazionario e controrivoluzionario. Nel testo vengono criticate e confutate le espressioni politiche, filosofiche, scientifiche e culturali moderne con i loro eccessi secolaristi e irreligiosi, contrapponendo alle stesse le verità tradizionali, la dottrina cattolica e la filosofia cristiana. Fra i filosofi più responsabili della rivoluzione culturale in Europa de Maistre indica Voltaire e Locke, esponenti dell’illuminismo che aveva causato la Rivoluzione francese, considerata il peggiore dei mali ed un castigo per i peccati e la poca fede dell’Europa stessa e della Francia.
Importante intuizione quella del Professor de Mattei di riproporre la forma letteraria, nelle sue manifestazioni drammaturgiche, liriche e narrative: è uno strumento che deve essere recuperato perché, nello squallido panorama odierno e nel deserto lasciato dalla Chiesa postconciliare, le persone vanno avvicinate alla verità e alla fede non solo in modo accademico (non sarebbe sufficiente), ma anche in maniera divulgativa e affabile per arrivare a molti.
Trilogia Romana è un’opera che può essere letta a diversi livelli e può, quindi, interessare diversi tipi di lettori. Alcuni saranno attratti dal quadro di vita romana tra Ottocento e Novecento; altri dalla singolarità delle figure e degli eventi storici che sono presentati; altri ancora dal ruolo delle società segrete della Storia che viene messo in evidenza, con particolari anche inediti. Ciò che particolarmente si evince da una lettura attenta è innanzitutto la teologia della storia che soggiace ai racconti a fronte di una narrativa contemporanea, come pure la filosofia contemporanea, che navigano nel vortice del nulla e dell’elucubrazione del banale e dell’inutile, dove l’esistenza perde drammaticamente valore e significato.
In queste pagine, invece, è data la possibilità al lettore di elevarsi ad una visione alta delle vicende storiche, una visione ormai abbandonata anche dagli uomini di Chiesa. Solo la teologia della Storia può far comprendere le vicende della Storia stessa. Ecco il segreto di questo libro che non è solo un rimembrare con coerenza e fluidità linguistica accadimenti del passato, ma c’è qualcosa di più profondo, di più incisivo: qui viene ridato il giusto posto d’onore alla lettura provvidenziale della Storia. E le pagine si fanno pedagogia. Allora tornano in mente le illuminanti parole di Dom Prosper Gueranger (1805-1875) nel suo testo Il senso cristiano della storia (Amicizia Cristiana), quando dice che a rendere la visione dello storico cristiano solida e serena è la certezza che gli dà la Chiesa in quanto Sposa di Cristo, la quale gli rischiara il cammino come un «faro e illumina di divino i suoi giudizi. Egli sa quanto stretto sia il legame che unisce la Chiesa all’Uomo-Dio, quanto la Chiesa sia salvaguardata dalla promessa divina dalla possibilità di commettere qualsiasi errore nell’insegnamento e nella guida generale della società cristiana, e quanto profondamente lo Spirito Santo l’animi e la conduca; è dunque in essa che lo Storico cercherà il criterio dei propri giudizi».
Lo storico cristiano non si spaventa, non si dispera, non si angoscia, non si adira come potrebbe esserlo, invece, uno storico ideologico, legato alla sola politica, in cui la sua fazione cede agli accidenti della storia.
Spiega ancora Dom Gueranger: «Le debolezze degli uomini di Chiesa, gli abusi temporanei, non lo stupiscono perché sa che il Padre della famiglia umana ha deciso di tollerare la zizzania nel suo campo fino alla mietitura. Se deve raccontare, sarà attento a non tralasciare tristi episodi che testimoniano le passioni dell’umanità e attestano allo stesso tempo la forza del braccio di Dio che ne sostiene l’opera; ma sa dove riconoscere la direzione, lo spirito della Chiesa, il suo istinto divino. Li riceve, li accetta, li confessa coraggiosamente; li applica nei suoi scritti. Parimenti non tradisce e non sacrifica». Chiama buono ciò che la Chiesa di Cristo giudica buono e chiama cattivo ciò che la Chiesta di Cristo chiama cattivo. Lo storico cristiano, pertanto, è tenuto a raccontare fatti e persone alla luce della trascendenza che, in definitiva, significa essere storiografi dall’orizzonte eterno, liberi dalle catene del contingente.
Le vicende presentate in Trilogia romana sono poco note oppure inedite; interessante è che i soggetti ivi inseriti, anche quelli apparentemente in secondo piano, vengano ad assumere connotazioni di rilievo. Tutti i personaggi presentati in Trilogia romana, sono realmente esistiti. Le parole che ad essi si attribuisco sono state realmente pronunciate o corrispondono al loro pensiero. La figura a cui viene dato maggior spazio è quella della principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959) che l’autore ha conosciuto attraverso memorie familiari, la lettura dei suoi scritti e grazie al devoto ricordo di un caro amico scomparso, Pierre Engel.
Una figura particolarmente inquietante e pericolosa è
quella del principe romano, islamista ed esoterista, Leone Caetani (1869-1935). Il primo racconto rievoca il Cardinale Giuseppe Mezzofanti (1774-1849) e lo storico Jacques Crétineau-Joly (1803-1875); il secondo è un mosaico di figure fra cui spiccano Monsignor Umberto Benigni (1862-1934) e Don Ernesto Buonaiuti (1881-1946), nonché i citati principe Leone Caetani e la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini, protagonista principale del terzo e ultimo racconto, il quale, con freschezza e pennellate di particolari, descrive il passaggio di Roma da capitale della Cristianità a capitale dei liberali, dei massoni, dei politici, dei democristiani, aperti al socialismo e al comunismo, dai quali si dipartì la riforma agraria di De Gasperi, che toccò con prepotenza la proprietà privata degli italiani; un atto che Pio XII, nel 1951, giudicò negativamente, affermando la legittimità dei grandi latifondi. Con l’abolizione della mezzadria e con lo sradicamento dei contadini dai loro territori, persone e famiglie si sono dovute spostare in massa nelle periferie urbane, edificate dai “palazzinari”. Contemporaneamente la cultura è stata strappata da socialisti, comunisti e liberali, che hanno occupato le cattedre delle scuole e delle Università.
Maria Montessori (1870-1952), qui perfettamente radiografata, rappresenta il veleno ideologico e culturale di una classe intellettuale e dirigente che ha guidato la secolarizzazione dell’Italia e al suo abbruttimento morale. L’ “educatrice” dell’infanzia, che a 28 anni aveva abbandonato suo figlio (avuto da una relazione con lo psichiatra Giuseppe Montesano), non parlava di matrimonio, ma della necessità di un’evoluzione della concezione della maternità, grazie alla «scelta cosciente e libera» del proprio partner «come contributo alla rigenerazione della razza. Insomma si va dal libero amore alla trasformazione dell’educazione in un allevamento di razze umane». In lei si trovano i germi della teoria gender. Femminista e seguace della teosofia di Hélène Blavatskij, la Montessori è tuttora considerata un punto di riferimento della pedagogia moderna, svincolata dai “tabù” del passato e dai “pregiudizi”, proiettata a rendere l’individuo autonomo e indipendente. Personaggi come lei hanno in realtà formato generazioni di persone sole, insicure, allo sbando, in balia del potere assoluto dello Stato, compreso quello “democratico”.
AUTORE : Cristina Siccardi
FONTE : EUROPA CRISTIANA