di Roberto de Mattei
fonte Radioromalibera.org
Il 25 aprile, festa nazionale della liberazione dal nazismo e dal fascismo, è passato e si allontanano le polemiche che anche quest’anno lo hanno accompagnato.
I più giovani possano credere che queste polemiche siano legate al fatto che in Italia c’è un governo di centro-destra e che una parte della destra italiana sia ancora legata, ideologicamente o sentimentalmente al fascismo. In realtà le cose non stanno così. Chi è meno giovane ricorda le medesime polemiche, quando negli anni Settanta del Novecento in Italia governava la Democrazia cristiana e la principale forza di opposizione, il Partito Comunista guidato da Enrico Berlinguer, sventolava la bandiera dell’unità antifascista.
In quegli anni, tra il 1970 e il 1972, uno dei più grandi filosofi italiani del Novecento, Augusto Del Noce (1910-1989), dedicò sulla rivista “L’Europa”, una serie di articoli all’analisi del mito antifascista.
In uno di questi profetici articoli, apparso il 15 aprile 1971, dunque più di mezzo secolo addietro, Del Noce scriveva: “da quando nella celebrazione del cinquantesimo anniversario della fondazione del Pci (avvenuta a Livorno nel 1921), fu rilanciata la formula dell’unità antifascista diventò chiaro in quale campo si sarebbe svolta la battaglia decisiva di questo lunghissimo dopoguerra. Decisiva anzitutto, perché non ammette termini medi: o le si è pro, o le si è contro”.
Qual’è il senso dell’appello all’unità antifascista? si chiedeva allora Del Noce. “Nessuno – rispondeva – può seriamente pensare che chi oggi vede nel fascismo l’avversario politico fondamentale intenda con tale termine il movimento politico che ebbe inizio il 23 marzo 1919 e che, finito ufficialmente il 25 aprile 1945, sarebbe però misteriosamente sopravvissuto e, permanentemente in agguato, troverebbe oggi le occasioni favorevoli per riaffiorare”.
Il fascismo nel senso storico era chiaramente dissolto e la resistenza antifascista veniva presentata dalla sinistra comunista, socialista e liberal-illuminista del dopoguerra, non come un fatto storico, ma come una categoria ideale. Chi si richiama all’antifascismo – spiegava Del Noce – interpreta il fascismo come una costante della storia italiana, “o meglio come un’essenza universale che non si esaurisce nelle infinite forme in cui può riprodursi”. Il fascismo diventa in questo senso qualcosa di inafferrabile e di proteiforme, uno spettro agitato per colpire l’avversario. “L’accusa di fascismo rimbalza così da un personaggio all’altro, da una forza politica all’altra: l’attribuirla è confidato all’arbitrio”.
In termini generali, però, “fascista”, scriveva Del Noce, sarebbe chi guarda al passato, alla difesa della tradizione, dei suoi princìpi, dei suoi divieti. Fascismo è uguale a: “primato del passato sul futuro”. Antifascismo: “primato del futuro sul passato; società permissiva contro società repressiva, progresso contro reazione”. Il fascista per eccellenza era in quegli anni colui che si opponeva al processo di secolarizzazione della società italiana, rifiutando, ad esempio, il divorzio, l’aborto e i cosiddetti “diritti civili” sventolati dal femminismo e dal partito radicale, con l’appoggio dei comunisti e dei socialisti.
Berlinguer non aveva ancora lanciato la sua offerta di compromesso storico, ma Del Noce prevedeva come il Partito comunista avesse bisogno sia dei cattolici che della borghesia per conquistare il potere in Italia e ciò sarebbe avvenuto proprio in nome dell’antifascismo, inteso come la negazione di ogni valore e istituzione tradizionale.
Del Noce precisava così in due punti il significato che avrebbe assunto l’unità antifascista: la completa subordinazione dei cattolici al marxismo e un processo di dissoluzione destinato ad essere il compimento di quella epoca storica che aveva avuto i suoi inizi col fascismo. Per Del Noce, l’incontro tra comunismo e borghesia, privi entrambi di princìpi assoluti, avrebbe portato alla dissoluzione dei valori morali e, per quanto riguarda i cattolici, al confinamento di questi valori nella sfera privata. Se l’affermazione di una verità morale, assoluta e oggettiva è fascismo, non resta infatti che relegare la moralità alla sfera privata, accettando in quella pubblica il processo di secolarizzazione della società. Fascismo e antifascismo facevano parte di uno stesso itinerario di allontanamento dai valori tradizionali, che coincideva con il processo di secolarizzazione e dunque di autodissoluzione della società italiana.
Nelle sue opere successive, e soprattutto in quella dedicata nel 1978 a Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce avrebbe mostrato la natura filosofica di questo cammino verso la dissoluzione. Fascismo e antifascismo, sono secondo Del Noce due momenti di uno stesso processo rivoluzionario che ha nella filosofia della prassi di Giovanni Gentile, e poi di Antonio Gramsci il suo svolgimento più rigoroso. Tra Gentile, teorico del fascismo e Gramsci, padre dell’antifascismo esiste infatti un rapporto non di frattura o di contrapposizione ma di sostanziale simmetria e continuità. Gentile si propone di liberare la tradizione culturale italiana da ogni forma di trascendenza metafisica, Gramsci porta la filosofia della prassi alle ultime conseguenze, che sono quelle di una definitiva liberazione del marxismo da ogni elemento religioso.
La cultura italiana continua a oscillare ancora oggi tra Gramsci e Gentile, senza uscire dall’hegelismo, cioè da una filosofia dell’immanenza che non lascia posto ai valori tradizionali. Oggi, per essere definito antifascista non basta proclamarsi tale, occorre ammainare la bandiera della legge naturale e divina. Ed è quello che noi non facciamo, anche nel ricordo di un coraggioso filosofo cattolico quale fu Augusto Del Noce. (Roberto de Mattei)
- S. Gli scritti di Augusto Del Noce sono raccolti in Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione, Giuffré, Milano 1993 e Fascismo e antifascismo. Errori della cultura, Leonardo, Milano 1995, e poi nel Il suicidio della Rivoluzione (Rusconi, Milano 1978; poi Aragno 2004).