Tratto da: Corrispondenza Romana
di Roberto de Mattei
E’ la domenica delle Palme. Gesù piange sul Monte degli Ulivi, dove oggi sorge la chiesa del Dominus flevit, «il luogo dove il Signore pianse» (Lc 19, 41).
Davanti a Lui si apre non solo il panorama di una città in festa di cui Egli conosce il tragico destino, ma anche il quadro altrettanto drammatico dei secoli futuri, fino alla fine del mondo. «Quae utilitas in sanguine meo?» (Ps 30, 10). Il pensiero che Gli costerà sudore di sangue nell’Orto degli Ulivi si affaccia alla sua mente. Il mistero del male è davanti ai suoi occhi. Gerusalemme sarà distrutta non per i suoi peccati, ma per la sua impenitenza. Gesù, dopo la sua morte e Resurrezione, offrirà la grazia del pentimento al suo popolo, ma Egli sa che questa grazia sarà rifiutata. Venient dies in te et circumdabunt te inimici tui: «Verranno giorni su di te in cui i tuoi nemici ti circonderanno con trincee, e ti assedieranno da tutte le parti; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19, 43-44).
Tutto questo si realizzerà trentasette anni dopo, quando gli Apostoli hanno già cominciato a diffondere il Vangelo in ogni angolo della terra, convertendo migliaia di anime. Però il cuore degli abitanti di Gerusalemme e dei loro sacerdoti sarà ancora chiuso e indurito.
La cronaca dettagliata degli eventi si deve a Giuseppe Flavio (35-100 d. C.), uno storico ebreo, imparziale ed equilibrato, che ama il suo popolo, ma ne descrive l’accecamento nella sua opera Guerra giudaica (tr. it. Mondadori, Milano 1999). Nell’anno 67 il generale romano Vespasiano giunge nella Giudea in rivolta, alla testa di tre legioni, accompagnato dal figlio Tito. Tra il 67 e il 70, tra la morte di Nerone e l’ascesa al trono di Vespasiano, si succedono a Roma quattro imperatori, mentre Gerusalemme è in preda ad una spirale di odio e di violenza, a causa della guerra civile che dilania la città. Tre capibanda angariavano la popolazione: Eleazar ben Shimon, leader degli zeloti, era chiuso nella corte del Tempio di Gerusalemme, da dove fu espulso da Giovanni di Giscala che si asserragliò a sua volta nel Tempio, mentre Simone bar Giora, con i suoi Sicarii e gli Idumei, teneva la città bassa e una parte di quella alta. «Sarebbe impossibile – scrive Giuseppe Flavio – raccontare nei particolari la storia delle loro nefandezze, ma per dirla in breve nessun’altra città ebbe mai a subire un tale martirio né, da che mondo è mondo, vi fu una generazione più capace di mal fare» (Libro V, 10, 5).
Tito, che nel 70 aveva ricevuto dal padre l’incarico di conquistare Gerusalemme, fece costruire attorno ad essa una circonvallazione, per impedire ogni accesso di viveri, mentre la lotta tra le fazioni trasformò la città in un campo di battaglia, in cui le fiamme divorarono tutto il grano che avrebbe potuto servire a sopravvivere. Il flagello della fame fu il più terribile tra quelli che colpirono gli assediati. «La fame – scrive Giuseppe Flavio – è la più grande di tutte le sofferenze, e nulla essa distrugge più che il rispetto: ciò che in altre condizioni è oggetto di considerazione viene invece trattato con disprezzo quando c’è fame. Così le mogli strappavano il cibo dalle bocche dei loro mariti, i figli dalle bocche dei padri e, cosa fra tutte più dolorosa le madri dalle bocche dei loro bambini» (Libro V, 10, 3).
Sul Monte degli Ulivi, si accampò la Legio X Fretensis, per scatenare l’attacco dalla parte orientale della città. A questa legione, il cui vessillo rappresentava il maiale, un animale impuro per la religione ebraica, sarà poi assegnato il governo della Giudea soggiogata. I romani riuscirono ad espugnare una ad una le tre cinta di mura e ad abbattere le imponenti torri che dominavano la città. L’ultima furibonda battaglia si svolse presso il Tempio. La mischia, corpo a corpo, era tale che non si poteva più capire da quale parte stessero i combattenti, mescolati insieme in uno spazio ristretto. «Chi si trovava in prima fila doveva necessariamente uccidere o essere ucciso, non essendovi alcuna via di scampo» (Libro VI, 1, 7). Quando i Romani irruppero finalmente nella città la strage fu totale. Gerusalemme fu distrutta «in maniera così radicale, che chiunque fosse arrivato in quel luogo non avrebbe mai creduto che vi sorgeva una città» (Libro 7, 1, 1).
Giuseppe Flavio descrive con minuzia di particolari la magnificenza del Tempio, che era stato costruito, a partire dal 536 a. C., al ritorno degli Ebrei dall’esilio babilonese. Esso aveva nove porte tutte ricoperte d’oro e d’argento, mentre quella fuori del santuario era di bronzo di Corinto e superava in valore quelle rivestite d’argento e d’oro. «All’esterno del Tempio non mancava nulla per impressionare né la mente né la vista; infatti essendo ricoperto dappertutto di massicce piastre d’pro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori, e a chi si sforzava di fissarlo faceva abbassare lo sguardo, come per i raggi solari» (Libro V, 5, 6).
Tutto questo fu divorato dal fuoco. Tito cercò invano di arrestare la furia delle legioni. «Contro il volere di Cesare, il Tempio fu distrutto dalle fiamme» (Libro VI, 4, 7). Mentre il Tempio bruciava gli assalitori sterminavano indistintamente tutti coloro che capitavano sotto le loro mani: laici e sacerdoti, vecchi e bambini. «Pareva che la collina del Tempio ribollisse dalle radici gonfia di fuoco in ogni parte, e che tuttavia il sangue fosse più copioso del fuoco e gli uccisi più numerosi dei loro uccisori» (Libro VI, 5, 1).
L’offensiva finale dei romani era iniziata nel mese di Pasqua, quando una grande moltitudine di ebrei si accalcavano nella città. «L’intera nazione era stata come chiusa in prigione dal destino e la guerra ghermì la città rigurgitante di abitanti. Fu così che il numero delle vittime risultò superiore a quello di qualsiasi sterminio compiuto da mano umana o divina» (Libro VI, 9, 4).
La caduta di Gerusalemme prefigura non solo la fine del mondo, ma tutti i castighi che l’umanità è destinata a subire per i suoi peccati. Ciò che provocò la giustizia divina più ancora dei peccati, fu la mancanza di pentimento del popolo. A causa dell’impenitenza il destino di Gerusalemme fu quello di Sodoma, e non quello di Ninive.
Nel 362 l’imperatore pagano Giuliano progettò di ricostruire il tempio di Gerusalemme, con l’intento di smentire la profezia di Gesù sulla sua distruzione, affidandone il compito ad Alipio di Antiochia, ma le tremende scosse di terremoto e le fiamme che si levarono dalle rovine atterrirono gli operai e lo costrinsero a desistere dall’impresa, come testimonia il pagano Ammiano Marcellino: «Globi di fuoco paurosi che erompevano vicino alle fondamenta, resero quel posto inaccessibile agli operai, che ne risultavano a volte bruciati. Il fuoco ricacciava indietro dovunque con ostinazione assoluta, pertanto l’impresa fu abbandonata» (Res Gestae, 23, 1, 3).
Oggi il pianto della Madonna è simile a quello di Nostro Signore sul Monte degli Ulivi. Domina flevet. Maria, dal Cielo, piange contemplando l’orizzonte storico del nostro tempo. Nel 1917 a Fatima Ella annunciò un grande castigo per l’umanità, se non si fosse convertita. La conversione esige il pentimento delle proprie colpe, individuali e storiche, ed al pentimento deve seguire la penitenza, come chiede per tre volte l’Angelo nella visione del Terzo segreto di Fatima. Nessuna autorità politica, e neppure religiosa, pronuncia però parole di pentimento o di penitenza. L’umanità, la Chiesa, le nazioni subiranno un castigo analogo a quello di Gerusalemme?
L’unica certezza che abbiamo è che, “infine” il Cuore Immacolato di Maria trionferà. E’ Lei che lo ha promesso e in Lei confidiamo, tra le macerie di un mondo che inizia a crollare tra le fiamme.