Tratto da Ricognizioni
di Patrizia Fermani
Il ddl Scalfarotto Zan si avvia a realizzare un capolavoro di diabolica astuzia politica e giuridica. Dove nulla è stato affidato al caso, ma anzi, tutto dimostra la ammirevole acribia impiegata nello studio della teoria, insieme alla consumata conoscenza del meccanismo politico e dei fenomeni mediatici. Mentre anche i tempi di realizzazione sono stati studiati con precisione cronometrica.
Possiamo affermare, senza pericolo di smentite, che questa coppia di fatto legislativa abbia realizzato un’arma perfetta, capace di minare un intero ordinamento giuridico e scardinarne senza troppo clamore tutte le colonne portanti in vista della sua distruzione definitiva, mentre la gravità della cosa per certi versi arriva ad essere sottovalutata persino da chi si oppone con forza a questo ultimo parto abortivo della sedicente democrazia rappresentativa.
Infatti si stanno levando le ultime voci non rassegnate alla introduzione nell’ordinamento di questo monstrum giuridico che è destinato a produrre enormi sconquassi etici e sociali e una degenerazione ulteriore degli assetti culturali e dei rapporti di potere. Tuttavia ormai ci si concentra soprattutto sull’annichilimento del diritto alla libera manifestazione del pensiero garantito dalla Costituzione, e sull’attacco obliquamente portato alla famiglia e al diritto naturale che la sostiene.
Ma il ddl Scalfarotto Zan va combattuto con tutte le forze anche da un diverso punto di vista e per ragioni che vanno addirittura più in profondità, perché riguardano lo stravolgimento di principi basilari su cui si regge l’ordinamento giuridico, e in particolare quello penale. Un ordinamento che, pur varato in tempi di dittatura, ha un impianto garantista e nella sua intelaiatura concettuale riflette una statura culturale, propria dei giuristi che l’hanno elaborato, imparagonabile a quella che affligge l’attuale cosiddetto legislatore.
La legge penale, come è noto, presidia le condizioni essenziali etico sociali di coesistenza degli individui all’interno di una comunità organizzata. Dunque si prefigge di difendere questa, sanzionando i comportamenti che vanno a ledere i beni sentiti come fondamentali per una ordinata vita comunitaria e per la sua naturale sopravvivenza. Il reato tutela la vita, come la proprietà, l’onore come la libertà personale, la famiglia come la incolumità pubblica ecc., ovvero quelli che sono considerati come “beni giuridici”, cioè valori e interessi comuni meritevoli di una tutela giuridica, appunto, che risponde ad esigenze profonde della collettività.
D’altra parte, poiché il potere statuale di applicare la pena può trasformarsi anche in uno strumento di arbitrio tirannico, il cittadino delle società cosiddette democratiche è tutelato contro il suo abuso dal principio per cui possono essere puniti come reato soltanto i comportamenti materiali, cioè i fatti che possano essere oggettivamente accertati. Principio che pone al riparo sia dall’arbitrio del legislatore come da quello del giudice. Non per nulla tutti i regimi cosiddetti totalitari, quelli che il novecento ha conosciuto in modo esemplare, hanno previsto la punizione anche dell’atteggiamento interiore, delle intenzioni ostili al partito, all’ideologia del regime, alla persona del comandante supremo ecc.
Il reato deve avere quale elemento costitutivo un “fatto”, mentre gli elementi psicologici, i motivi che corredano l’azione lesiva, possono soltanto aumentarne o attenuarne la gravità e vanno a incidere solo sulla quantità della pena da infliggere in concreto.
Dunque un disegno di legge come quello della accoppiata in questione istituisce figure di reato che contraddicono principi giuridici fondamentali di civiltà, e a rigore, non avrebbe dovuto neppure arrivare alla discussione parlamentare, pur nel degrado che colpisce attualmente tutte le istituzioni repubblicane.
Ma i suoi estensori non sono sprovveduti, non sono dediti all’improvvisazione incosciente. Hanno cercato l’ariete per penetrare nella cittadella del sistema. E l’hanno trovato bell’e fatto nella legge Mancino, che un parlamento già minato ideologicamente e culturalmente aveva approvato in anni passati senza porsi il problema della sua anomalia e della sua pericolosità. Infatti quella legge ha introdotto il reato determinato da motivi razziali, trasformando appunto il “motivo” nell’elemento costitutivo del “fatto” che deve essere punito, sicché il fatto ricava la propria specifica identità proprio dal motivo che ha mosso l’autore.
In altre parole, è stata creata una figura autonoma di reato, caratterizzata dal motivo, accanto a quella ordinaria, cioè al reato comune, che di norma viene punito indipendentemente dai motivi che l’hanno determinato: accanto all’omicidio commesso per qualunque motivo, viene previsto l’omicidio commesso per determinati motivi qualificanti. Ed è evidente che, così, il contenuto dei motivi individua il bene giuridico violato. Così, ad esempio, l’omicidio commesso per un motivo qualunque si configura diversamente rispetto a quello commesso per quel motivo “qualificato”, con una conseguenza paradossale: anche la vita umana offesa, che dovrebbe rimanere l’unico valore in gioco, acquista un peso diverso a seconda dei motivi che hanno mosso chi l’ha distrutta.
La legge Mancino ha introdotto anche la surreale figura del reato di atti di discriminazione compiuta sempre per certi motivi qualificati. E qui la distorsione giuridica diventa surreale, quasi metafisica. Infatti discriminare vuol dire scegliere, esercitare la facoltà di giudizio, applicare criteri di valutazione a una qualunque scelta naturalmente libera. Infatti ogni scelta operata nella vita quotidiana implica una discriminazione, che si tratti del bar sotto casa, della scuola dei propri figli, del voto politico, di uno spettacolo, di una squadra del cuore. Appartiene alle facoltà degli esseri viventi non ridotti in schiavitù, quella di scegliere tra possibilità diverse, con le conseguenze che ogni scelta comporta. Ogni diritto di libertà è esso stesso un diritto di scelta.
Invece il principio di non discriminazione riguarda e può riguardare soltanto la legge, come prescrive articolo dall’articolo 3 della Costituzione che, proclamando appunto l’uguaglianza di fronte alla legge, impone a questa di non riservare ai cittadini trattamenti disuguali a parità di condizioni, e pur sempre secondo un criterio di ragionevolezza. Il privato invece è naturalmente libero di operare le proprie scelte lecite indipendentemente dai motivi da cui sono indotte. Confondere i due piani significa non soltanto alimentare un errore grossolano, significa mettere in piedi una truffa inaudita ai danni di chi non vede il pericolosissimo equivoco.
Infine sono previste come reato quelle manifestazioni di pensiero in cui si riflettono sentimenti che nessuno deve osare coltivare in se stesso. Anche se per tanto tempo si è ritenuto che solo l’occhio di Dio fosse abilitato a guardare dentro ai pensieri umani.
La legge Mancino nasce fra l’altro quale distorta applicazione di pregressi impegni internazionali, mal interpretati e mal digerirti. E diventa come un corpo estraneo inserito nell’ordinamento vigente. Ma sopravvive curiosamente, sia perché non viene abrogata, sia perché, non avendo mai trovato applicazione, nessun giudice ha potuto sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale.
Ecco allora l’idea folgorante che ha illuminato la mente di Scalfarotto e compagni, guidati dalla lobby omosessualista ben radicata nei palazzi delle istituzioni nazionali e internazionali. L’idea di sfruttare la ancora vigente legge Mancino per innestarvi il piano di imposizione manu militari della ideologia omosessualista e genderista. È bastato estendere i motivi “omofobici” a quelli già previsti, che avevano a che fare con l’odio razziale, e creare una nuova serie di reati capaci di incidere sulla tenuta etica dell’intera società.
Con la differenza che, se la legge Mancino non ha mai trovato applicazione perché riguardava un problema di fatto inesistente, oggi la macchina dell’omosessualismo ha creato il problema, imponendo in via mediatica e istituzionale il modello omoerotico e genderista con la invasione inarrestabile nel terreno della educazione e della scuola, con la perversione dei criteri valutativi, con la penetrazione in ogni ganglio vitale della società. Il tutto, dopo che i mezzi di comunicazione hanno creato giorno dopo giorno, attraverso una propaganda martellante, la normalizzazione di ciò che normale non è. Dopo che la manipolazione del linguaggio ha introdotto concetti fasulli, parole vuote di senso come quella di discriminazione o quella di diritto che, usate a vanvera, creano però suggestioni e inducono convinzioni senza contenuto di senso, al pari di realtà inesistenti come una presunta minoranza oppressa, ancorché gaia.
Ma nonostante questa ben riuscita eversione culturale, occorre ora annichilire sul nascere ogni forma di opposizione soprattutto per portare a termine il progetto di indottrinamento alla religione omosessualista e genderista nelle scuole, specie della prima infanzia, dato che dopo è più difficile deviare le tendenze naturali. Ecco dunque la minaccia della pena per chi osi intralciare la marcia trionfale di un canone etico rovesciato che l’opportunismo politico, laico o chierico, senza scrupoli e senza cervello, non esita ad avallare. Ecco il ddl Scalfarotto Zan.
Un’operazione che, da spericolata qual era, ha guadagnato astutamente terreno secondo un piano orchestrato ad ampio raggio. Che ha battuto il passo soltanto quando motivi di tattica politica suggerivano di non dare troppo nell’occhio e ha una portata addirittura più devastante di quanto non vedano anche i suoi valorosi e accorati oppositori. Come dicevamo, qui non è in gioco soltanto la libertà di manifestazione del pensiero e l’attacco aperto al valore etico della famiglia e della legge naturale che la regola.
Da una simile novità normativa deriva tecnicamente che l’omosessualità e la famosa libertà di genere entrano di diritto nella rosa dei “beni giuridici” tutelati dalla legge penale, con quel che ne segue sul piano interpretativo e quindi sui futuri, anzi, già presenti, orientamenti giurisprudenziali.
Ne deriva che non viene più punito il fatto, ma l’intenzione. Che tutti dovremmo censurare pensieri parole e omissioni. Che dovremmo condizionare la scelta di uomini e cose solo dopo avere cancellato dalla nostra mente ogni pregiudizio “omofobico” antipederastico e alla fine antipedofilo. Sicché in virtù del divieto di discriminazione, un genitore si vedrà punito per avere licenziato il maestro di musica che riservava all’allievo attenzioni troppo particolari.
Dunque la carica distruttiva che verrà attivata riguarda l’intero sistema penalistico di cui si vanno ad erodere principi inderogabili e in cui si aprono falle destinate a prepararne il crollo totale.
Un sistema penale è il barometro che misura l’evoluzione di una civiltà giuridica, e di un’etica comunitaria, come può diventare la spia di ogni degenerazione del potere verso l’arbitrio. In esso confluiscono correnti di pensiero, si rispecchiano contingenze storiche, si determinano le condizioni per un affinamento della sensibilità sociale o del suo ottundimento. Non si identifica con la morale, ma può condizionarne gli andamenti nel bene e nel male, a seconda che i valori difesi dalla legge siano quelli su cui si costruisce una società sana e vitale, o siano meri interessi di parte mossi da un pensiero distruttivo. Cesare Beccaria non è passato invano e oggi guardiamo con orrore a strumenti giudiziari che sono stati cancellati anche grazie a quel pensiero.
Ma la pena rimane sempre l’arma insidiosa di cui può impadronirsi il potere. Se la legge penale non assolve il compito di incoraggiare un’etica costruttiva e di garantire l’individuo dalle insidie del potere, essa si trasforma in una forza irresistibile che precipita la società verso il caos. Qui la posta in gioco è lo scardinamento di un sistema giuridico e l’apertura verso l’arbitrio di forze ormai dominanti quanto deviate.
Intanto, contro il diritto positivo e il diritto naturale hanno puntato le proprie degenerate batterie anche gli agonici e miserabili lacerti di quella che è stata per duemila anni la Chiesa di Cristo, e che ha finito per chiamare un magniloquente esecutore fallimentare ad avviare la relativa procedura. Senza che il popolo di Dio, annichilito, sembri avere il coraggio di liberarsi di usurpatori e collaborazionisti.
Sorvoliamo sulle festività che si intendono istituire per celebrare questi nuovi valori collettivi, come sul programma di pene rieducative. La democrazia del nuovo millennio è troppo nostalgica per non essere anche commovente, oltre che commossa.
La pericolosità di questo astuto marchingegno legislativo forse non poteva non sfuggire agli ottusi rappresentanti di una democrazia in dissoluzione e a quella chiesa che le fa vergognosamente da spalla. Ma non deve sfuggire a chiunque senta il dovere di difendere l’oggi e il domani delle nuove inermi generazioni.