Residence di Ripetta – Roma 7 ottobre 2011
di Roberto de Mattei
La battaglia di Lepanto ha conosciuto, nella storia e nella letteratura, un processo di trasfigurazione, divenendo da fatto storico un simbolo: un simbolo che riassume una teologia della storia, o se si preferisce, una Weltanschauung, una concezione del mondo.
Il nome di Lepanto ricorda che non solo il 7 ottobre del 1571 ma, sempre nella storia, la Civiltà Cristiana ha avuto i suoi nemici e deve avere i suoi difensori. Esso esprime l’idea che i cristiani che vivono sulla terra fanno parte di una Chiesa che è detta militante perché sulla terra combatte: combatte per difendere la propria fede e anche la civiltà che su quella fede è stata costruita.
Ma se, sul piano simbolico, Lepanto ha questo incancellabile significato, sul piano storico la vittoria della flotta cristiana nel 1571 non ebbe conseguenze proporzionali alla grandezza dell’impresa. Non avviò quell’opera di espulsione dell’Islam dall’Europa che sarebbe stato logico immaginare dopo la clamorosa disfatta dei Turchi. Perché questo accada, perché inizi la cacciata dei Musulmani dall’Europa, dobbiamo aspettare oltre un secolo. Dobbiamo attendere un altro evento, che non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza: la liberazione di Vienna dai Turchi, il 12 settembre del 1683.
Anche Vienna, come Lepanto, è stata una vittoria simbolica. Anche essa ha avuto un grande Papa come principale artefice. Anche essa è legata alla liturgia della Chiesa, perché una festa, quella del nome di Maria, fu istituita in suo ricordo, così come la festa della Madonna del Rosario, Auxilium Christianorum, ricorda il trionfo di Lepanto. Ma, a differenza di Lepanto, Vienna è un punto di partenza perché a questa vittoria ne seguirono altre, in rapida successione, dalla riconquista della città di Buda, nel 1686, a quella di Belgrado, nel 1717.
Parlare di Vienna significa parlare dell’epoca che essa inaugurò e parlarne attraverso le figure dei suoi protagonisti, che furono il Beato Innocenzo XI, il Papa che avviò questo processo di riconquista cristiana, e il principe Eugenio di Savoia che, tra il 1683 e il 1717, ne fu il principale artefice.
Di Innocenzo XI abbiamo celebrato quest’anno i 400 anni della nascita. Egli nacque infatti il 19 maggio del 1611 e morì il 12 agosto del 1689. Fu poi beatificato da Pio XII il 7 ottobre 1956. Oggi è un Papa dimenticato, anche se il suo nome è comparso sui giornali, nel maggio scorso, non a causa dell’anniversario della sua nascita, ma perché l’urna contenente le sue spoglie, che riposano nella Basilica di San Pietro, è stata trasferita dall’altare della cappella di San Sebastiano, dove ora sono state poste quelle del nuovo beato Giovanni Paolo II – a un altro altare, quello della Trasfigurazione – a sinistra della navata centrale.
Il cardinale Benedetto Odescalchi, apprezzato da tutti per la santità della sua vita, il suo spirito di carità, ma anche la sua capacità di risolvere difficili questioni amministrative, fu eletto Papa il 21 settembre 1676, alla morte di Clemente X.
Pio XII, nel Radiomessaggio del 7 ottobre 1956, in occasione della sua beatificazione, ricorda che il nuovo Papa si trovò ad affrontare tre impegni primari: la riforma spirituale e morale della Chiesa; la difesa dei suoi diritti contro la Francia di Luigi XIV; la difesa della Chiesa e della Civiltà Cristiana dalla minaccia dell’Islam.
Voglio soffermarmi sul terzo punto del suo programma, quello in cui egli più rifulse ed è oggi più attuale: la difesa della Cristianità
Si trattava, verso il 1680, di liberare l’Europa dal pericolo mortale dell’Islam, che minacciava di conquistare Vienna, capitale dell’Impero asburgico, di invadere l’Europa centrale e poi dilagare in Italia, con il Gran Visir Kara Mustafà, sultano d’Occidente. La meta finale, annunciata, era Roma; San Pietro era già destinata, nei piani del Gran Visir, a divenire la scuderia per i cavalli del sultano.
Innocenzo XI avviò una politica lungimirante per riunire i principi cristiani contro l’impero ottomano. Avvalendosi di abili e decisi esecutori come i nunzi Obizzo Pallavicini e Francesco Buonvisi, ma anche di santi sacerdoti, come il padre cappuccino Marco da Aviano, egli svolse una intensa attività diplomatica, al fine di creare una Lega Santa contro i Turchi.
Il Papa cercò anche, ma senza successo, di convincere il re di Francia Luigi XIV dell’importanza di un contrattacco concentrico delle potenze cristiane unite, inclusa Mosca e in cooperazione con la Persia. Arrivò ad offrire a Luigi XIV la carica di Imperatore d’Oriente. La realtà dei fatti deluse le sue speranze ed egli dovette accontentarsi di promuovere un’alleanza tra l’Imperatore d’Austria Leopoldo I e il Re di Polonia Giovanni III Sobieski.
Nello stesso giorno in cui, grazie al Papa, l’alleanza fra l’Imperatore Leopoldo e Sobieski era conclusa, uno sterminato esercito turco di oltre 200.000 uomini, giungeva alle porte di Vienna, abbandonata dallo stesso Imperatore, e la cingeva di assedio. Nella capitale dell’Impero austriaco, ridotta allo stremo, solo resisteva il conte Ernst Rüdiger von Starhemberg, con quindicimila soldati e qualche migliaio di civili atti alle armi.
Il 15 luglio. I Turchi gettarono oltre le mura una lettera minacciosa con la quale imponevano ai viennesi non soltanto di arrendersi, ma anche di riverire il profeta Maometto e di adorare Allah. Erano certi della loro vittoria,
L’Europa intera teneva fissi gli occhi su Vienna, uno fra i più memorabili assedi in tutta la storia umana, come scrive giustamente lo storico Ludwig von Pastor, perché dalle sorti di quell’assedio sarebbe dipeso l’avvenire del Cristianesimo; ma la difesa appariva ardua: “Per salvare Vienna – scrisse in quei giorni Cristina di Svezia – occorre un miracolo non minore di quello del Mar Rosso”. Intanto si prevedeva che dopo Vienna sarebbe stata la volta di altri Paesi d’Europa. “Dopo Vienna, Roma” aveva scritto il nunzio Buonvisi al cardinale Cybo.
L’armata cristiana, fermamente voluta da Innocenzo XI, mosse finalmente verso la città assediata. Era composta da circa settantamila uomini e guidata dal re Giovanni Sobieski. Al suo fianco erano accorsi molti principi cristiani, dal duca Carlo di Lorena al principe Massimiliano di Baviera.
Mentre Kara Mustafà tardava a lanciare l’attacco, l’armata giunse ai primi di settembre sulle colline di Vienna. Nella città assediata si pianse per la commozione quando si videro i fuochi accesi dell’esercito cristiano sulle colline del Wienerwald.
Il padre Marco d’Aviano, inviato da Innocenzo XI all’imperatore come predicatore, era venuto al fronte, in prima linea. L’8 settembre 1683 celebrò una Messa solenne, sulle alture del Kahlenberg che dominano la città. Il re Giovanni Sobieski servì la Messa. Padre Marco d’Aviano, prima di impartire la solenne benedizione papale, cui era annessa l’indulgenza plenaria, invitò a compiere l’Atto di dolore perfetto con queste parole.
“O grande Dio degli eserciti, guarda a noi prostrati ai piedi della Tua Maestà per implorare perdono delle nostre colpe. Abbiamo provocato la tua ira e giustamente (i nostri avversari) hanno preso le armi per opprimerci. O gran Dio Ti domandiamo perdono dall’intimo del cuore e detestiamo il nostro peccato… Abbi pietà di noi, abbi pietà della Chiesa che la rabbia e la potenza degli infedeli vogliono opprimere.
Sebbene la invasione di queste belle terre cristiane sia avvenuta per colpa nostra e i mali che ci affliggono siano stati causati dalla nostra malizia, buon Dio sii a noi propizio e non dimenticare l’opera delle tue mani. Ricordati che per strapparci dalla schiavitù di Satana hai versato tutto il Tuo prezioso Sangue. Non permettere che gli infedeli si vantino e ripetano: Dove è il loro Dio, che non ha potuto liberarli dalle nostre mani? Vieni in nostro aiuto gran Dio degli eserciti. Se Tu sei con noi, non potranno nuocerci. (…) Libera dunque le armi cristiane dai mali che le affliggono. Fa conoscere ai tuoi nemici che non c’è Dio fuori di te. Tu solo sei potente nel dare e negare la vittoria e il trionfo, quando ti piace. Stendo le mie mani come Mosè per benedire i tuoi soldati. Sostienili: dà ad essi la tua potenza, affinché questa porti la sconfitta dei nemici tuoi e nostri. A gloria del Tuo Nome. Amen”.
All’alba del 12 fu celebrata l’ultima Messa, prima dell’attacco. Tutti i reggimenti erano schierati, con i loro stendardi dai diversi colori. Il reggimento Carafa, con i suoi stendardi neri; il reggimento Piccolomini, con i suoi stendardi rossi. Entrambi prendevano il nome dai loro comandanti, i generali Antonio Carafa e Ottavio Piccolomini, che furono tra i grandi condottieri del Seicento. Sull’altare del Kahlenberg, tutti i combattenti cristiani, si inginocchiarono,, così come si era inginocchiata, sugli spalti delle navi, tutta la flotta cristiana prima della battaglia di Lepanto. Guerrieri di tutte le nazioni si riconoscevano in quelle parole in lingua latina che il padre Marco d’Aviano, agendo in persona Christi, pronunciò a bassa voce al momento della Consacrazione.
E, in ginocchio, stringendo l’elsa della spada che tra poco avrebbero impugnato, per la vita o per la morte, quegli uomini veterani di tante battaglie, alzarono gli occhi al momento dell’elevazione, per adorare dietro le specie del pane e del vino, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, che rinnovava, sull’altare, in maniera incruenta, il sacrificio del Calvario.
Questi uomini, questi soldati di Europa, partecipavano al Santo Sacrificio non solo con la loro adorazione e la loro preghiera, ma offrendo la loro vita, sul campo di battaglia.
Non conoscevano il relativismo che dissolve ogni convinzione profonda, che spinge all’indifferenza e alla resa. Sapevano di dover combattere: uccidere o essere uccisi. Con questo spirito si slanciarono dalla collina del Kahlenberg verso Vienna ingaggiando una furiosa battaglia contro il nemico. La battaglia durò dall’alba al tramonto e vide la clamorosa vittoria degli eserciti cristiani. Il bilancio della giornata fu di diecimila morti turchi contro duemila dei cristiani. L’esercito turco abbandonò Vienna, rinunciando ai suoi piani di conquista dell’Europa.
A Roma il Papa era stato talmente in ansia che aveva passato le ultime notti senza dormire: appena gli portarono la notizia della vittoria si buttò in ginocchio, ringraziò Dio piangendo, incitò gli altri a fare altrettanto. La sera stessa tutta la città fu illuminata; il popolo gridava entusiasticamente: Viva il Papa, viva l’Imperatore e il Re di Polonia! La facciata e la cupola di S. Pietro vennero illuminate, e da Castel Sant’Angelo spararono i cannoni.
Il 25 settembre il Papa stesso cantò in Santa Maria Maggiore un solenne “Te Deum”. “Il riconoscimento generale della parte grande, decisiva, avuta da Innocenzo XI alla liberazione di Vienna – scrive von Pastor –, riusciva penoso alla profonda umiltà di lui. Quando gli altri parlavano dei suoi meriti, egli portava il discorso su quelli altrui, e ascriveva al Signore Iddio tutto l’onore. Per sottolineare questo motivo fece coniare delle medaglie commemorative che recavano la scritta: ‘La tua destra o Signore, ha colpito il nemico“.
Per ringraziare la Madonna, il 5 febbraio del 1685, il Papa stabilì per tutta la Chiesa la festa del Nome di Maria per la domenica dopo la natività della Santissima Vergine”. A Roma, una chiesa dedicata al Santissimo Nome di Maria fu costruita al Foro Traiano, per ricordare la vittoria di Vienna.
L’impresa tuttavia non era conclusa. Rimaneva un grande obbiettivo: la liberazione della città ungherese di Buda, ancora in mano all’Islam.
Quando l’esercito imperiale mise l’assedio a Buda, nel luglio del 1686, contava circa 56.000 uomini, cui bisogna aggiungere i volontari che affluirono da varie parti dell’Europa: Italia, Spagna, Francia e Germania. Tra i combattenti figuravano persone d’ogni classe e di tutte le nazioni: “tedeschi di ogni stirpe – scrive il Pastor – Ungheresi, Croati, Grandi di Spagna, marchesi di Francia, Lords Inglesi, nobili Italiani; ma anche molti della borghesia, fra i quali sessanta catalani di Barcellona…”.
La città sembrava quasi imprendibile. A fortificarla contribuivano gli elementi della natura ancor più che le opere umane. Si trattava di un’alta muraglia che misurava tre miglia di perimetro, e sulla quale si ergevano ben tre file di baluardi fortificati.. Ma anche questa volta il miracolo avvenne. Dopo molti assalti sanguinosi, sotto il fuoco di quattrocento cannoni, i combattenti cristiani riuscirono a penetrare attraverso le brecce di muraglia in muraglia. Un romano, Michele d’Aste, fu il primo a varcare le mura di Buda, cadendo sotto i colpi nemici.
Buda venne liberata il 2 settembre 1686 dopo 145 anni trascorsi sotto i musulmani. I turchi morirono quasi tutti combattendo, compreso Abdurrahman Pascià, il loro capo. A Roma si ripeterono le grandi manifestazioni del 1683 per la liberazione di Vienna, si udì il rombo dei cannoni di Castel Sant’Angelo e la facciata di San Pietro scintillò rivestita di fiammelle. Tutto quello che fu possibile dire o fare per esprimere l’esultanza e la riconoscenza a Dio, venne fatto.
Innocenzo XI era stato il grande stratega delle vittorie, non solo perché aveva compreso la portata della minaccia turca, ma perché aveva indicato come unico rimedio possibile la grande alleanza tra i principi cristiani. La diplomazia pontificia, attraverso l’opera infaticabile delle nunziature di Vienna e di Varsavia aveva lavorato a creare questa alleanza, mentre l’appello lanciato dal Pontefice risuonava in tutta Europa, dalle rive portoghesi dell’Atlantico alla Vistola, ai Carpazi, all’Adriatico. Ma al di là di queste ragioni umane fu determinante la grande fede del Pontefice, la preghiera di lui, o suscitata da lui, nella Cristianità. Esiste sempre una chiave soprannaturale per comprendere le vicende storiche e quanto accadde, a partire dalla liberazione di Vienna, non può essere spiegato senza un aiuto speciale concesso dalla Provvidenza agli eserciti cristiani.
La Provvidenza si serve però nei suoi piani degli uomini e l’opera di Innocenzo XI, fu continuata dopo la sua morte, nel 1689, da un generale che personificò la difesa della Cristianità contro l’Islam. Quest’uomo era il principe Eugenio di Savoia, che, poco più che ventenne aveva iniziato proprio sul campo di battaglia di Vienna una carriera prodigiosa che gli avrebbe fatto raggiungere i massimi gradi militari dell’Impero.
Se a Vienna nel 1683 ebbe il battesimo del fuoco, il suo nome fu consacrato dalla vittoria contro i Turchi di Zenta nel 1697. Eugenio di Savoia aveva 34 anni e venne inviato, come comandante dell’esercito imperiale, a fermare gli ottomani che da Costantinopoli marciavano verso l’Ungheria. Il Sultano Mustafà II in persona guidava le truppe. Eugenio di Savoia, che gli andava incontro a marce forzate, venne a sapere che il Sultano aveba costruito un ponte di barche per varcare con la sua armata il Danubio, presso Tibisco. Eugenio decise di attaccarlo nel momento in cui il Sultano aveva appena superato il fiume. Mancavano due ore al tramonto e l’attacco improvviso e travolgente, si concluse con una strage dei Turchi. Il Sultano dall’altra parte del fiume assisté impotente al massacro. Le truppe imperiali persero solo 300 uomini, mentre 20.000 Turchi morirono sul campo e 10.000 annegarono nel Tibisco. La vittoria prese nome dalle alture di Zenta, da cui l’esercito imperiale era calato sui Turchi. “Questa grande e clamorosa vittoria e questa grande battaglia – scrisse Eugenio all’Imperatore – volsero al termine col giorno stesso: fu come se il sole decidesse di non tramontare fino a che non avesse visto e illuminato coi suoi raggi il trionfo della armi di Vostra Maestà”.
Il sultano fu costretto a firmare la pace di Carlowitz. Ungheria e Transilvania passarono alla Corona degli Asburgo. La clamorosa vittoria diede ad Eugenio di Savoia fama europea.
Nel 1715 per l’ultima volta nella storia, i Turchi tentarono un supremo attacco contro l’Occidente. Questa volta il Papa è Clemente XI. Il Pontefice, ispirandosi ai suoi predecessori san Pio V e Innocenzo XI, lanciò un appello ai principi cattolici per difendere la Cristianità contro il nemico musulmano. Il vincitore di Zenta, riprese il supremo comando. Ha 53 anni e lo accompagnano giovani principi di tutte le case d’Europa per apprendere da lui l’arte della guerra. I Turchi, comandati dal Gran Visir in persona, assediano Petervaradino, presso il Danubio, la città che secondo la tradizione era stata fondata da Pietro l’Eremita durante la Prima Crociata. Eugenio, ricevuto il comando supremo per la nuova guerra partì per la Serbia nel giugno del 1716, raggiungendo la città assediata.
Il Gran Visir comparve all’orizzonte con i suoi 86.000 uomini il 4 agosto 1716 e li schierò a mezzaluna, circondando il campo degli imperiali. Altre decine di migliaia di uomini erano tenuti di riserva attorno a Belgrado. Eugenio, come al solito, decise di anticipare l’avversario. Alle sette del mattino del 5 agosto, festa della Madonna della Neve, diede l’ordine di attacco contro un nemico tre volte superiore. I giannizzeri cominciarono ad arretrare sotto l’improvviso attacco, ma l’arretramento si trasformò in fuga generale quando si seppe che il Gran Visir Damad Alì era stato colpito a morte da una palla di moschetto che lo aveva colpito alla fronte mentre cercava invano di organizzare il contrattacco.
A mezzogiorno gli imperiali erano padroni del campo ed Eugenio inviò il conte Khevenhüller all’Imperatore con un dispaccio che annunciava la disfatta totale del nemico. La notizia si sparse rapidamente in tutta Europa: in ogni città e in ogni villaggio si suonarono le campane a festa mentre a Vienna e a Roma si esaltava il Principe Eugenio.
Clemente XI decise di concedergli il sommo onore del “Pileo e dello stocco”. Si trattava di una berretta viola ornata di ermellino e di una spada benedetta, ornata di pietre preziose, che investivano l’insignito della dignità di Generale della Santa Chiesa. Le insegne gli furono consegnate solennemente a Vienna, dalle mani del cardinale e legato pontificio Orazio Rasponi. Di tutti gli onori avuti nella sua, vita di condottiero era il più grande e significativo.
Nell’ agosto 1716 marciò sulla fortezza di Temesvar che resistette fino al 14 ottobre quando fu conquistata, dopo 164 anni di dominio turco. L’entusiasmo a in Europa saliva alle stelle. Ora Eugenio pensava a Belgrado, la più potente fortezza di Oriente. Egli sapeva che la città era difesa da una guarnigione di trentamila giannizzeri di élite, mentre i Turchi stavano sopraggiungendo con un’armata di soccorso di oltre duecentomila uomini.
La grande armata turca arrivò in soccorso di Belgrado il 31 luglio 1717 e si accampò alle spalle degli Imperiali. Un’immensa distesa di tende rosse e verdi formava coma la base di un triangolo alla cui sommità stava la fortezza di Belgrado. All’interno del triangolo stavano l’esercito imperiale, divenuto da assediante ad assediato.
La situazione era grave. La sera del 15 agosto Eugenio convocò a rapporto i suoi ufficiali comunicando loro che l’indomani, il suo esercito avrebbe attaccato frontalmente quello del Gran Visir. Il successo, spiegò, dipendeva dalla disciplina. L’esercito si mosse a mezzanotte, del 16 agosto mentre sulla piana calava una fitta nebbia. Nello scontro furibondo, Eugenio guidò il contrattacco della cavalleria, continuando a combattere, pur se ferito ad un braccio. Mustafà, dall’alto della fortezza in cui era rinchiuso, fu lo spettatore di un incredibile spettacolo, che alle dieci del mattino vide il campo di battaglia coperto dai cadaveri di diecimila Turchi e duemila cristiani, mentre l’esercito della mezzaluna era in fuga. Il giorno successivo, per evitare una strage, egli consegnò le chiavi della città di Belgrado a Eugenio.
A Passarowitz, il 21 luglio 1718, fu firmato un trattato con il quale i Turchi cedevano il Banato di Temesvar e Belgrado con la maggior parte della Serbia. Si concludeva così l’ultima crociata di Eugenio di Savoia. Per l’Occidente fu la fine della minaccia turca.
Lo spirito che animava il Beato Innocenzo XI ed il principe Eugenio di Savoia era uno spirito di crociata. La Civiltà Cristiana, nel XVII secolo, come tante altre volte nella storia, era in pericolo. I Turchi avanzavano in Europa: il nemico che la Cristianità aveva di fronte non era solo politico, ma religioso. L’obiettivo dell’Islam era quello di estendere su tutta la terra allora conosciuta il proprio Impero, di ridurre i cristiani in schiavitù o dhimmitudine, di distruggere tutto ciò che nei secoli la Civiltà Cristiana aveva creato, per imporre sul piano religioso e sociale la legge di Maometto: una legge che non negava solo il dogma primario della Trinità, ma contraddiceva i princìpi di fondo della morale cristiana, facendo della legge del piacere sessuale non solo una suprema aspirazione terrestre, ma anche l’agognata ricompensa celeste per i seguaci del Corano, il cui Paradiso più che luogo di eterna felicità spirituale può essere definito in termini di eterno piacere sensuale.
Tra l’Islam e il Cristianesimo non c’era – e non c’è – accomodamento possibile. Si trattava – e si tratta – di due religioni proiettate verso la conquista del mondo.
Da una parte la Religione di Gesù Cristo, l’Uomo-Dio che con la sua Resurrezione ha provato la sua divinità; dall’altra la religione di Maometto, l’uomo che con la ferocia e la dissolutezza della propria vita e di quella dei suoi seguaci ha mostrato e mostra ogni giorno la falsità della propria dottrina.
Grazie al Beato Innocenzo XI e al principe Eugenio Eugenio di Savoia, l’Islam fu respinto alle porte dell’Europa, nel XVII secolo. Ma negli stessi anni dell’epopea asburgica contro l’Islam, avveniva in Europa quella che lo storico francese Paul Hazard, ha chiamato la crisi della coscienza europea. Un mutamento di cultura e di mentalità che preparava la strada alla Rivoluzione Francese. Un secolo dopo la liberazione di Vienna, la Cristianità fu travolta da un nemico interno peggiore del nemico esterno che per secoli l’aveva minacciata. La Rivoluzione colpì infatti le fondamenta stessa di quella civiltà che il Beato Innocenzo XI e il principe Eugenio di Savoia avevano difeso con eroismo contro il nemico
La crisi contemporanea affonda le sue radici in quello spirito moderno di dubbio, di ricerca, di relativismo culturale e morale che si affermò in Europa con l’Illuminismo e che oggi impone all’Europa una dittatura che spiana la strada all’Islam.
Di fronte all’Islam che ancora una volta avanza, il nostro sguardo si volge alla storia. Lo spirito dei combattenti di Lepanto e di Vienna non va relativizzato, come se fosse quello di un’epoca storica ormai conclusa, superata, da un nuovo Cristianesimo, buono, tollerante e arrendista.
La disposizione di animo che animava san Pio V e il Beato Innocenzo XI e con la quale combattevano i guerrieri di Lepanto e di Vienna è una attitudine dello spirito mai tramontata, che sempre riaffiora nei momenti di crisi della civiltà. Per comprenderlo possiamo cogliere questo spirito nelle molte fotografie che conserviamo dei combattenti cattolici nella guerra di Spagna.
Negli sguardi seri, velati dalla tristezza che suscita la visione del male, ma densi di quella gioia che si ha nel combattere il male, negli sguardi dei giovani requetés di Navarra che marciano verso il nemico comunista nella Spagna degli anni Trenta del Novecento, noi leggiamo la stessa tristezza e la stessa gioia di coloro che da Lepanto a Vienna, da Vienna a Belgrado difesero, una volta, con le armi in pugno, la Civiltà Cristiana in pericolo.
Questo spirito non è morto perché è inestinguibile nell’animo umano. È lo spirito di chi sa che la Chiesa di cui siamo membri si chiama militante perché combatte sulla terra e se il tempo della gloria è in Paradiso e quello della sofferenza è in Purgatorio, il tempo sulla terra, che è il nostro, è tempo di lotta: lotta che ci fa anticipare le sofferenze del Purgatorio, ma che ci dischiude anche le gioie eterne del Paradiso.