di Giovanni Tortelli

RISTAMPA (9/2024) – Pucci Cipriani e Ascanio Ruschi (a cura di) – DA BARBIANA AL FORTETO (Don Milani e il Donmilanismo), Presentazione di Vito Comencini, Edizioni Solfanelli, [ISBN-978-88-3305-467-4], Pagg. 184 – € 14,00

Don Milani fu il tipico esempio di lupo travestito da pecorella, di ecclesiastico sedotto dalla Rivoluzione, sorta di Abbé Grégoire del Mugello. […] Memore dell’insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo (“Ma il vostro parlare sia sì sì, no no, tutto il resto viene dal Maligno”, Mt. 5, 37) il volume collettaneo curato da Pucci Cipriani e Ascanio Ruschi ha il merito di smascherare il don Milani aureolato dei catto-marxisti e dei progressisti, mostrandone invece il vero volto e le opere, poiché è da queste che si riconosce l’albero buono: “Bona arbor bonos fructus facit” (Mt. 7, 17). Il don Milani di cui ci parlano Cipriani e Ruschi è alla continua ricerca di un “di più”, dell’inciampo, del tradimento e quindi del male travestito da bene. Il fatto che a farne le spese siano stati dei bambini e dei ragazzi è certamente una grossa e ulteriore aggravante. Né conforta (a proposito di frutti) un certo discepolato milaniano: dal fotografo Oliviero Toscani, al Sindaco della mia città, Verona. Per fare solo due esempi. Del primo, tutti rammentano le ricorrenti campagne blasfeme. Per l’ex calciatore Damiano Tommasi, cattolicissimo bon butèl (bravo ragazzo, come si usa dire nella città scaligera) parlano i suoi atti, a cominciare dalla sua partecipazione alle parate dei sodomiti, al patrocinio comunardo ai libretti transgender, al sostegno all’utero in affitto e ai napoleonici massacratori dei suoi stessi concittadini, al tempo della gloriosa insurrezione delle Pasque Veronesi (17-25 aprile 1797). Insomma il peggio dell’Occidente consumistico, ultraliberale e perverso, sempre schierato con la Rivoluzione. Sono certo che tutti i buoni si riconosceranno in quest’opera e nello spirito cattolico e autenticamente controrivoluzionario che la anima. Quella degli amici identitari e valoriali, come gli amici Pucci e Ascanio, è del resto una scelta di campo, dove per i vili e per gli opportunisti non c’è posto. E mentre confidiamo nelle promesse della Santissima Vergine Maria a Fatima circa il prossimo trionfo del suo Cuore Immacolato, leviamo al Cielo il nostro sguardo (“ad te levavi oculos meos, qui habitas in caelis”, secondo le parole del versetto iniziale del Salmo 122). Giacché Dio solo può salvarci e far cessare il tempo della prova, di questa lunga e plurisecolare prova chiamata Rivoluzione, affinché essa duri non un minuto, non un secondo di più.

On. Vito Comencini

Recensione di Giovanni Tortelli

Come a volte succede con certi personaggi, se più o meno fortunati non è detto, la leggenda si è da tempo impadronita di don Lorenzo Milani (1923-1965) fino a farne un geniale anticipatore dei diritti socio-politici, per i laici; un apostolo della Chiesa degli ultimi, per i riformati del Vaticano II; per tutti quanti un modello da imitare. 

Ed ecco le imitazioni. Le esperienze del Forteto e di Bibbiano, le cooperative sociali ispirate al prototipo della Scuola di Barbiana, che negli anni hanno fornito materiale di cronaca per i tristi abusi sui minori affidati alle loro strutture. Con don Milani questo non successe, mentre gli toccò la sorte molto più benigna di trasformarsi in leggenda positiva per i più. Don Milani, a un certo punto, ha oltrepassato la sua stessa soglia fisica e ha dato vita a un fenomeno: il «donmilanismo».

La pubblicazione del volume Da Barbiana al Forteto – Don Milani e il Donmilanismo curata da Pucci Cipriani e Ascanio Ruschi (Solfanelli, Chieti 2023), giunge a bomba per ristabilire la verità dei fatti, per sfatare la leggenda e per ridimensionare il fenomeno don Milani grazie ai contributi di autori che hanno personalmente conosciuto e studiato la vita, gli atti e i misfatti del Priore di Barbiana. L’impresa non è facile perché il «donmilanismo» si è consolidato nel tempo e ha trovato un credito trasversale sia negli ambienti ecclesiastici sia in quelli laici. E così, con l’arcivescovo di Firenze e il rettore del seminario in testa, seguiti a ruota e a vario titolo da sindaci e assessori, giudici e politici, pubblici amministratori e volontari, fino alle scuole, e in particolare quella scuola dove don Milani strappò – primo esempio nella cristianità – il crocifisso dalle aule, tutti si danno in questi giorni un gran daffare per celebrarne la figura presso le più svariate sedi nel centenario della nascita.

La vera storia di don Milani era quella di un uomo conflittuale sia per natura che per formazione marxiana. Per natura anche insofferente all’ubbidienza soprattutto nei rapporti con chi deteneva un’autorità superiore alla sua, come ad esempio verso il cardinale Ermenegildo Florit, allora arcivescovo di Firenze, al quale don Lorenzo non risparmiò una guerra fatta di turpiloqui, di offese volgari e di pesanti insolenze pubbliche e private, come le testimonianze raccolte in questo volume documentano ampiamente.

Don Milani non aveva né la stoffa né l’animo del rivoluzionario perché gli mancava quello sguardo d’insieme “in grande” come di solito hanno i grandi sovvertitori, prigioniero di una visione classista della realtà che non lo faceva andare oltre la pars destruens delle cose. Non per nulla l’esperienza della scuola di Barbiana non andò oltre la vita del suo fondatore, ma intanto si era arrivati alle soglie del mitico ’68, di cui don Milani fu certamente il precursore più prossimo, come esattamente sottolinea Pucci Cipriani che ne ha conosciuto bene le opere.

Ma don Milani fu anche pericolosamente altro. Nell’Italia degli anni Cinquanta ancora legata ai valori morali della tradizione e della dottrina cattolica, fu uno fra i primi e più aspri critici della famiglia e della figura paterna. La Scuola di Barbiana era una scuola dispoticamente governata dal Priore senza la presenza delle famiglie, senza regole e senza ruoli, più una comunità “sciolta” che una scuola dove si imparava seriamente, esattamente come al Forteto e a Bibbiano dove le famiglie dei ragazzi erano praticamente ignorate o addirittura estromesse dai programmi riabilitativi. 

La figura paterna e la famiglia, già dimezzate da quegli assalti, finirono per essere impallinate dal mitico ’68, ma le conseguenze – che né don Milani né i sessantottini poterono forse prevedere – furono il divorzio, l’aborto, la fecondazione eterologa, l’eutanasia e poi lo sarà il suicidio assistito e così via, per non parlare delle ideologie gender. Cioè la vittoria del nichilismo radicale che nullifica la vita e l’ordine cosmico che è ordine divino ordinato alla vita (Sant’Agostino, De ordine).

Il radicalismo sociale e classista di don Milani si accomodava perfettamente alla Chiesa, che proprio nell’anno della sua morte prematura concludeva i lavori del Vaticano II. La culla dove accogliere il pensiero e l’azione di don Milani era già stata preparata fin dai primi decenni del ‘900 da autori come Rahner, il destabilizzatore per eccellenza della tradizione tomista, da Congar, che nel 1937 aveva scritto Chrétiens désunis; da Bea e Alfrink che nel 1963 scrivevano L’Église en dialogue mentre negli anni ’60 Raniero La Valle imperversava coi suoi «laici come cristiani adulti», immuni dal Magistero e pronti per la salvezza a prescindere. Nel momento stesso in cui la Chiesa – grazie anche all’opera di questi autori divenuti poi in buona parte padri conciliari o periti e qualcuno anche fatto cardinale – distruggeva l’autorità del Magistero e al primato del Romano Pontefice affiancava un Collegio episcopale posticcio e senza alcuna radice nella tradizione cattolica, come poteva questa Chiesa riformata non accogliere e premiare il pensiero e l’opera di questo brillante e così anticattolico – ma proprio in quanto anticattolico – prete di campagna?

Giovanni Tortelli