tratto da: Sandro Magister
Ricevo e pubblico. L’autore, ben noto ai lettori di Settimo Cielo, filosofo e storico di formazione, ha insegnato sociologia della religione nell’Università di Firenze e nella Facoltà teologica dell’Italia centrale.
LA PESTE DELLA BANALITÀ
di Pietro De Marco
Nella congiuntura mondiale della pandemia in corso non vi è traccia di un intervento della Chiesa “mater et magistra” che sia all’altezza della sua universale maternità e ammaestramento. Lo si è osservato anche grazie, in Italia, a interventi di diverso accento come quelli di Marcello Veneziani, di Massimo Introvigne, di Gianfranco Brunelli de “Il Regno”, di Enzo Bianchi del monastero di Bose. Anni di pia chiacchiera ecclesiale su lievito, evangelizzazione e profezia inciampano platealmente nell’ostacolo imprevisto di una epidemia che, immediatamente, ha drammatizzato e verticalizzato tutto, tra vita e morte.
Questa incapacità di parola è anzi aggravata, contro ogni speranza, dalla ideologia di una Chiesa come “minoranza profetica”, inevitabilmente utopizzante, debole surrogato di una chiesa “militans”.
Anche la commossa preghiera dell’arcivescovo Mario Delpini tra le guglie del duomo di Milano è apparsa senza volontà di autorevolezza – sulla cattedra di Ambrogio! –, a partire dal modo minore, quasi privato, con cui il prelato si è presentato alle telecamere e al mondo, invece che con idonei abiti liturgici. Capisco che bastano tonaca dimessa e zucchetto per esordire con “O mia bela Madunina” invece che con “Recordare Domine testamenti tui et dic Angelo percutienti: Cesset manus tua” [“Dì al tuo angelo devastatore: Fermati”, da 2 Samuele 24,16, introito alla messa “pro vitanda mortalitate vel tempore pestilentiae”]. Ma quello che più conta è che l’invocazione dell’arcivescovo di Milano è stata dominata, come quasi ovunque ormai nella Chiesa, da raccomandazioni relazionali, di buona etichetta cristiana, ad essere gentili, generosi, ospitali, non da visioni fondamentali, storico-salvifiche, e solo debolmente da Dio come interlocutore. La stessa invocazione a Maria, più praticata dai vescovi, ha talora il sapore di una concessione al popolare che portiamo in noi, una cosa del cuore più che una convinzione dell’intelletto. Ma il culto pubblico a Dio, anche attraverso Maria, è “logikòs”.
Non ci si venga a dire che questo è il nuovo, irreversibile stile della Chiesa. Questo stile rivela piuttosto una drammatica paura, anzitutto nel mondo ecclesiastico, della testimonianza della “mater et magistra” come è sempre stata praticata nella tradizione della Chiesa; oltre ad essere mancanza di fede nella preghiera votiva, nelle solenni domande di intercessione.
Chi è stato finora capace di verticalità? Dov’è la franchezza di alzare parole di pentimento e penitenza, quando addirittura la Quaresima ne impone il quotidiano esercizio? Questo si è fatto sicuramente da parte di tanti umili, capaci di chiedere la protezione divina, l’intercessione di Maria e dei santi, assieme alla richiesta di perdono. Si è fatto negli ordini religiosi rimasti uguali a se stessi, nei monasteri di clausura che resistono.
Certo, in ritardo, anche papa Francesco ha fatto qualcosa, che però non basta a indicare agli uomini come vedersi sotto la inconoscibile ma sempre provvidente volontà di Dio. In effetti, nella sua intervista a “la Repubblica” del 18 marzo vi è un solo cenno, per quanto importante: “Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia”, poiché l’altro spunto: “Tutti sono figli di Dio e guardati da Lui”, si diluisce nel surrogato troppo umano delle “buone cose in cui crede [anche chi non crede in Dio]” e dell’“amore delle persone che ha intorno”.
La contemporanea meditazione del cardinale Camillo Ruini a TG2 Post è più ricca ed esplicita: “Dobbiamo credere […] che non siamo soli, […] perché […] il cristiano sa che la morte non ha l’ultima parola. Bisogna dirlo, […] quando si parla di centinaia di morti.[…] È per questo che il Cristo risorto è la nostra grande speranza”. E più avanti aggiunge alla comune esortazione alla riscoperta degli affetti quotidiani: “Nella stessa linea va la riscoperta del nostro rapporto con il Signore”; e con un pensiero particolare alla solitudine dei morenti nelle terapie intensive: “Speriamo che le persone che si trovano lì […] dicano loro una parola buona, che attraverso di loro sentano che non sono abbandonati. E soprattutto vorrei pregare il Signore che faccia sentire a loro che Lui è vicino e li aspetta come il Padre della parabola aspettava il figliol prodigo”.
Ma il pensiero continua ad andare a una diffusa, percepibile, ritrosia a pregare. Il cristiano che si è immerso nella “vita” o nel nulla della mistica, o nella invisibilità, non può avere né le parole della preghiera né a chi rivolgerle. E d’altronde cosa è diventato il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, che un tempo si opponeva alla fredda analisi teologica? Quel Dio è diventato una sorta di idealità, che il cristiano moderno si preoccupa di ripulire dalle “macchie” del Giudizio, dell’ira e della punizione, per farne un’entità dolciastra. Dunque: “Dio non c’entra”. Per di più ci si illude che tenere Dio fuori dalle nostre tragedie storiche sia, oltre che rispettoso, un’ottima apologetica.
Non è mai stato così. La relazione tra Dio e la sofferenza degli uomini è una parte eminente della riflessione religiosa, dai tragici antichi ai maggiori pensatori cristiani. Saperlo ci mantiene al livello del mistero dell’uomo; altrimenti tutto scivola verso il futile. E poi, chi mai invocherà nel bisogno un Dio che “non c’entra”? E difatti non lo si invoca. Si aprano invece i Salmi dell’angoscia, della lamentazione, della prova. Si proclami ad alta voce il Salmo 88:
“Signore Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte. […]
Io sono colmo di sventure,
la mia vita è vicina alla tomba.
Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa. […]
Mi hai gettato nella fossa profonda,
nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Pesa su di me il tuo sdegno
e con tutti i tuoi flutti mi sommergi. […]
Sono prigioniero senza scampo,
si consumano i miei occhi nel patire. […]
Sopra di me è passata la tua ira”.
Per la verità, non è molto che il Signore ha punito i cristiani, i cattolici, con la nuova lebbra della banalità. “Affondo nel fango e non ho sostegno”, grida il Salmo 69. A qualcuno piace questa debolezza, e alla preghiera di salvezza oppone un “cupio dissolvi” che confonde con l’umiliazione di Cristo. Ma l’arco, o il ponte, che dalla sofferenza conduce al “Domine exaudi orationem meam / et clamor meus ad te veniat” (“e ti giunga il mio grido”, Salmo 101, 2) esige volontà di essere, contro l’abbandono nichilistico, quindi di individuare e giudicare il male.
Abbiamo già sperimentato, nei decenni, che una Chiesa che si proponga come “supplemento d’anima” (essa è molto di più, anzi non è questo) non possa evitare la deriva. Il riferimento alla persona, se non è fondato nella rivelazione divina e non vi trova il suo orizzonte di significato, si riduce a un fragile e retorico presupposto umanistico. E non è vero quello che troppo spesso si dice, che “noi amiamo Dio nei fratelli”, poiché senza l’adempimento della prima parte (“Amerai il Signore Dio tuo”, Matteo 22, Marco 12), il primo e massimo comandamento, la seconda (“e il prossimo tuo come te stesso”) produrrà forme necessariamente troppo umane, illusorie o improprie. Per tutto vale l’indimenticabile inizio del salmo 127:
“Se il Signore non costruisce la casa
invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città
invano veglia il custode”.
Non può sfuggire che l’obiettivo di “rinnovare la società” sostituisce oggi, in termini moralistici e indeterminati, quell’ideale laicale della “consecratio mundi“ che, con i suoi limiti, conservava nell’età del Concilio Vaticano II una qualche continuità e coerenza con il momento salvifico-sacramentale e con l’universalità della Chiesa come Città di Dio in terra.
Una vera, biblica minoranza profetica è una realtà in dialettica col Popolo di Dio esteso all’ecumene. Mai il Popolo di Dio, nemmeno come resto d’Israele, coincide con la cerchia del profeta. La Chiesa cattolica, la ecclesiosfera cattolica, non può coincidere con la setta, ovvero col piccolo gruppo degli eletti, ora piuttosto “salvatori” che salvati. Mille minoranze profetiche, anche quelle desiderabili, non sono la “Catholica”, che è costituita potenzialmente dalla maggioranza degli uomini (in conformità alla “missio”), tenuti assieme nella comunione del Corpo mistico.
Solo il sapersi corresponsabili, nella Chiesa, della infinità degli uomini comuni, anzitutto dei battezzati, può dare parole al clero e alla gerarchia. Le parole sono quelle della storia sacra, millenaria. Oggi debbono essere richiesta di aiuto e atti di penitenza, fondati nel Dio che crea ed eleva. Le parole dell’utopia, orgogliosamente fondate nel mito del futuro, nel non-ancora-esistente che solo dà senso, si esauriscono presto e miseramente.
La grande peste contemporanea insegna che dovremmo liberarci dagli orpelli della retorica ecclesiale che ci soffoca, “in capite et in membris”. Essa non ha né ali né profondità di sguardo; è vistosamente incapace di altro che non sia un eloquio consolatorio e benevolente. Per esibire parole del genere non era certo necessario che l’amore di Dio si rivelasse nel dolore e nella potenza cosmica che, comunque, celebreremo a Pasqua.
di Pietro De Marco
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(s.m.) Là dove Pietro De Marco scrive che il culto cristiano a Dio non può essere solo “una cosa del cuore” ma è “logikòs”, cita san Paolo nel capitolo 12 della Lettera ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale”. L’originale greco è “logikè latrèia”, in latino “rationabile obsequium”, e così nel canone romano della messa. Una magnifica, imperdibile esegesi biblica e liturgica di questa formula è nell’udienza pubblica tenuta da Benedetto XVI il 7 gennaio del 2009: