tratto da Blog di Amerino Griffini
di Amerino Griffini
L’altro giorno a Firenze è morto Enrico Bosi, era nato nel 1939.
L’avevo conosciuto quando ero un ragazzo che si affacciava alla politica, nella prima metà degli anni ‘60, quando lui era già un giornalista. Nella stessa comunità umana dalla quale nel 1965 uscii assieme ad un gruppo di amici ma con la quale, non più politicamente, ma nelle relazioni personali, non ho mai interrotto i legami.
Noi, minoranza europeista troppo prematuramente arrivata sulla scena politica rispetto ai tempi; così inclassificabile da essere forzosamente definita sulla stampa del ‘68 come “nazimaoista” (oggi si direbbe “rossobruna”), gli altri, destinati comunque a continue diaspore o individuali uscite.
Ma era un bel mondo, quello nostro e quello fiorentino degli anni Sessanta, la vena culturale pareva inesauribile, l’ambiente vivo della cultura, fatto non solo di persone, di intellettuali, come Barna Occhini e Cristina Campo, Adolfo Oxilia e don Luigi Stefani, Neri Capponi, Pietro Porcinai, Roberto Melchionda, Sigfrido Bartolini, Pucci Cipriani, Antonio Paolucci, e tanti altri.
Troppo giovani alcuni di noi, l’avevamo solo sfiorato quel mondo. Uno dei raccordi fu Attilio Mordini che consideravamo il nostro maestro, Franco Cardini era poco più grande di noi ma già si percepiva la stoffa del grande studioso e fu capofila nella nostra avventura di perenni dissidenti alla ricerca di nuove vie.
Ma Firenze, Firenze era un mondo a sé, non solo per per la sua arte, ma per le strade c’era la percezione del bello che ci circondava, che in modo naturale educava all’estetica, ma anche il mondo pulsante delle librerie che non ci sono più, la Seeber, Le Monnier, Marzocco, le tane librarie dell’usato (c’è rimasto solo Vittorio e la Salimbeni o poco più), le case editrici come la Vallecchi, i caffè storici, i luoghi della cultura, della bellezza; al Giardino di Boboli si entrava senza biglietti e e senza fare file interminabili, come nelle chiese, e il Gabinetto Vieusseux e le biblioteche nelle quali ci si incontrava, e per strade non affollate.
Era la Firenze che ebbe per sindaco lo scrittore Piero Bargellini, con noi nel fango dell’alluvione del 1966, per rettore dell’Università il glottologo Giacomo Devoto che dette le dimissioni perché la polizia manganellò gli studenti davanti al rettorato in piazza San Marco nel gennaio 1968.
Un mondo che non c’è più, profanato da legioni di turisti ignoranti (che fortunatamente intasano solo le solite piazze e strade, solo quelle) e di scolaresche distratte in visita fintamente culturale, da “antiche osterie” che non c’erano l’anno precedente, da Gambrinus smantellati per far posto ad Hard Rock Caffé.
Ci sarà ancora qualche fiorentino a Firenze? O sono tutti andati via, i più vicini a Scandicci, a Sesto Fiorentino e Prato, a Pontassieve, sulle colline attorno dove se non altro si può vedere dall’alto la città e il suo profilo anche se rovinato dalla presenza ingombrante del nuovo Palazzo di giustizia. La città ormai è solo bottegaia, un turistificio o un’esibizione di stato sociale per ricconi che la comprano a pezzi, venuti di lontano.
E in tutto ciò, Enrico Bosi? Era un giornalista della “Nazione”, quotidiano del quale era stato responsabile anche delle pagine economiche. Un giornale nato all’indomani della fine del Granducato di Toscana e che con le sue pagine ha seguito passo passo la storia della città e quella della regione, con una Terza pagina che quotidianamente sfoggiava il meglio dell’intellettualità fiorentina e toscana.
Tutto ciò fino alla direzione di Enrico Mattei, quindi al 1970; poi, con la direzione di Domenico Bartoli cambiò la grafica, e poi, lentamente, lo stile, anche la linea “politica” e l’approccio culturale. Una direzione dopo l’altra sempre meno interessante.
Bosi ci lavorava ancora ma, quando lo incontravo manifestava il suo disagio, ormai il grande giornale stava svanendo. Una volta mi disse che portava malvolentieri il giornale a casa.
I direttori si avvicendavano e, uno dopo l’altro sfumava l’aura di ciò che fu. Siamo arrivati all’oggi, ad una specie di gazzetta di news, concise come impone lo stile telegrafico di Internet, gemellata con un’altra ex testata storica, “Il Resto del Carlino”, che ormai ha virato verso il nome comune di “Quotidiano nazionale”.
Enrico Bosi amava quel giornale, di quella passione me ne resi conto quando fece da guida tra uffici e rotative alla visita che facemmo come classe scolastica.
Ma i suoi interessi culturali lo spingevano anche ad altro, tutta toscanità, dai suoi libri sui castelli del Chianti, del Senese, sui nostri vini. Ormai sono lontano da Firenze e ci torno malvolentieri, è soffocante, maleodorante e insopportabile quella immersione di gente nella quale mi imbatto appena scendo dal treno.
Non ho più un parente in città, come me, tutti emigrati, chi a Fiesole, chi a Scandicci, chi all’Impruneta (anche Bosi abitava all’Impruneta); in città mi sono rimasti cinque, sei amici, con i quali ci si vede più facilmente fuori Firenze, da me, o a Pistoia, a Lucca, altrove insomma.
Fino a vent’anni fa lo incontravo spesso Enrico Bosi, sempre casualmente ma facilmente. Condividevo una stanza con l’avvocato Carotti, ad un primo piano di piazza della Repubblica, con una finestra sopra il Caffé delle Giubbe Rosse, quando eravamo colleghi nel vecchio SanPaolo di Torino, ben prima della nascita dell’Intesa San Paolo, e Bosi lo incontravo in piazza o sotto i portici della stessa. Era sempre un inaspettato piacere, lui sempre cortese, con quell’aplomb aristocratico. Parlavamo sempre di qualcosa di interessante ma principalmente degli amici comuni, di come stavano fluendo le nostre vite.
Della sua vita so qualcosa di più dai giornali, dell’amicizia con Tiziano Terzani, dei premi letterari e delle giurie delle quali faceva parte, come quella dell’Antico Fattore, della sua conoscenza dei vini da sommellier e del suo impegno politico così lontano da quello comune del secolo scorso.
Oggi ho una ragione in più per non tornare in città.