di Antonello Cannarozzo
tratto da: Stilum Curiae
Una storia di fedeltà al proprio Re ed alla Patria napoletana
Civitella del Tronto, l’ultimo eroismo dei soldati borbonici
Antonello Cannarozzo
La mattina del 17 marzo del 1861, in una Torino in festa, la sala del trono di Palazzo Carignano era già gremita da tutta la nobiltà sabauda, dagli uomini che avevano combattuto per l’unità d’Italia, dai notabili locali e dal corpo diplomatico per assistere alla nascita del nuovo Stato italiano anche se per la sua completezza mancavano ancora la Roma di Pio IX e il Veneto austro-ungarico.
Ciò nonostante, venne proclamato solennemente il Regno di Italia con il decreto n° 4671, dell’ancora Regno di Sardegna, con il quale si confermava, tra l’altro, che: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato “.
Un grande giorno, dunque, di quelli da passare alla storia e con la soddisfazione di chi aveva combattuto per un’Italia unita ed indipendente.
Peccato che a rovinare la festa ci fosse, nella allora sperduta provincia del teramano, a 652 km da Torino, un paese di poche centinaia di anime, Civitella del Tronto, ma che diventerà un vero incubo per il nascente Stato italiano.
La proclamazione dell’Unità d’Italia si era potuta celebrare, infatti, dopo la fine del Regno Borbonico che aveva dato al piccolo Piemonte le grandi e ricche province meridionali.
La retorica patriottica vuole che il regno di Francesco II cadde con l’intervento dei Mille di Garibaldi e per la inefficienza e corruzione dell’esercito borbonico; tutto vero ma solo in parte, perché, anche se ormai dimenticati, ci furono molti atti di vero eroismo da parte dei soldati meridionali in nome del loro Re e della loro patria, come accadde, ad esempio, per la resistenza di Messina o come vedremo poi di Gaeta. Ma fu soprattutto Civitella del Tronto con la sua Fortezza rinascimentale a creare maggiori problemi al governo piemontese.
Vediamo allora di quest’ultimo avvenimento risorgimentale le fasi più rilevanti.
Inizialmente, da parte dei comandanti e dello stesso Cavour, si pensò che doveva essere una passeggiata per il neo esercito unitario conquistare Civitella e la sua fortezza, ed invece divenne un vero supplizio durato ben 8 mesi trasformando questo piccolo paese nel teatro dell’ultima battaglia tra l’esercito borbonico e quello sabaudo.
Tutto cominciò il 10 settembre del 1860 quando, dopo la rivolta “spontanea” nel teramano fu dichiarato decaduto di fatto il governo legittimo borbonico e ne fu nominato uno provvisorio.
Davanti a questa nuova condizione e per non aggravare la situazione già critica dell’esercito napoletano, il comandante militare della provincia abruzzese esortò i suoi soldati a schierarsi al fianco del nuovo governo e ad arrendersi poi ai vincitori piemontesi.
Questa scelta fu ritenuta da molti militari un atto di vigliaccheria e l’anziano generale di fanteria Luigi Ascione, comandante del forte, con il maggiore Domenico Solinas ed il capitano dei Cacciatori, Giovanni Raffaele Tiscar, rifiutò di arrendersi e, nel contempo, decise di vendere cara la pelle asserragliandosi con i propri uomini nella fortezza di Civitella del Tronto.
Il drappello all’interno del forte era composto da circa 650 uomini, tra cui anche molti volontari fedeli alla corona borbonica, avendo a disposizione venti vecchi cannoni, tre obici, due mortai, un pezzo di antiquariato, una colubrina rinascimentale di bronzo a canna lunga e sottile, oltre ai fucili dei soldati, ma con scarse munizioni.
Dopo il primo entusiasmo per la scelta di continuare a combattere, ben presto arrivarono notizie sempre più sconfortanti per i soldati del re Francesco II.
Cadevano infatti, in poco più di un mese, una dopo l’altra importanti piazze militari come quella di Pescara e di Ancona, oppure la rivolta anti sabauda, tra le tante, della popolazione di Campli, sedata poi nel sangue dai “liberatori” italiani.
Tutte queste notizie non rincuoravano certo gli animi della truppa assediata, ma ciò nonostante riuscirono ad organizzare alla meglio le proprie difese in attesa dei primi scontri a fuoco con l’esercito piemontese, un evento atteso ormai da un giorno all’altro.
E lo scontro arrivò la mattina del 26 ottobre quando furono sparati i primi colpi contro il paese come avvertimento; ma l’assedio vero si ebbe solo dal 9 novembre con l’occupazione militare delle località di Ripe, Piane, Fucignano e Passo per isolare maggiormente gli assediati.
Ormai, era cosa fatta per i comandi piemontesi, ancora pochi giorni, avevano già comunicato a Torino, e ci sarebbe stata una sicura resa pacifica da parte delle truppe borboniche e così anche l’ultima bandiera del Re di Napoli sarebbe stata ammainata per sempre.
Ma non avevano fatto i conti con la fermezza ed il coraggio degli ultimi epigoni di quello che era stato chiamato ironicamente “l’esercito di Franceschiello”.
Il comandante Ascione rifiutò di arrendersi ai ripetuti inviti e minacce degli assalitori che per risposta cominciarono un potente cannoneggiamento con altrettanti assalti, ma tutto fu inutile.
I soldati borbonici resistevano ad oltranza.
Ciò che doveva essere una passeggiata si stava dimostrando un vero e proprio percorso ad ostacoli.
Era passato quasi un mese e mezzo dal primo cannoneggiamento contro il forte e tutto era rimasto come prima.
Se, dunque, la situazione era grave per gli assediati i cui mezzi di difesa andavano assottigliandosi ogni giorno di più, non meno tranquillo era lo stato d’animo dei sabaudi nel campo avverso; tanto che, per rinforzare la truppa d’assalto furono tolti gli insediamenti militari nelle montagne circostanti creando una forza d’urto di alcune migliaia di soldati ben armati e addestrati. Ma tutto fu ancora inutile e arriviamo così al 6 dicembre senza un nulla di fatto.
Torino non poteva permettersi una tale brutta figura agli occhi delle cancellerie straniere che guardavano alla nascente Italia con qualche entusiasmo, ma ancora con molti dubbi.
Per sovvertire le sorti dell’assedio arrivò il generale Ferdinando Pinelli insieme a diverse compagnie e ad una sezione di artiglieria di una decina di nuovi cannoni con i quali, poco dopo il suo insediamento, ordinò ai suoi uomini di cominciare un forte bombardamento, sicuro della prossima imminente caduta di Civitella, ma la situazione si dimostrò anche per lui impossibile: gli uomini fedeli ai Borboni non cedevano.
Dopo un ulteriore invito ad arrendersi caduto nel vuoto, i soldati di Pinelli ricominciarono allora nuovi e più violenti bombardamenti e a lanciarsi con assalti senza sosta verso la rocca, ma ciò nonostante venivano immancabilmente respinti.
Ormai la situazione militare non cambiava, era in perfetto stallo, ed anche a livello diplomatico la situazione era assai imbarazzante, infatti sventolava ancora la bandiera dei Borboni sul futuro Regno d’Italia, nonostante gli sforzi degli assedianti piemontesi.
Non solo, le popolazioni intorno a Civitella cominciavano a parteggiare apertamente per gli assediati e questo costrinse i “liberatori” ad emettere durissimi bandi contro le popolazioni civili, ma di tale violenza da suscitare lo sdegno degli stessi piemontesi, tanto da sollevare Pinelli dall’incarico di sedare l’insurrezione sostituendolo col generale Luigi Mezzacapo.
Intanto era già passato un altro mese e ancora nulla di fatto, la fortezza teramana rimaneva un vero ed unico baluardo delle residue speranze borboniche, sapendo benissimo che, al di là dei facili entusiasmi, la situazione era sempre più grave per gli abitanti del forte tanto che il generale Ascione firmò un armistizio di otto giorni nei quali si sarebbe deciso il da farsi.
L’anziano militare cercava di prendere tempo con la scusa di attendere ordini dal suo comando ormai fatiscente, ma Pinelli che rimasto ancora il comandate dell’operazione contro il forte, era pressato quotidianamente da Cavour che gli chiedeva di chiudere al più presto la faccenda a qualsiasi costo, giacché di lì a poche settimane ci sarebbe stata la proclamazione del Regno d’Italia davanti al mondo ed una macchia come Civitella non era ammissibile.
Così continuarono i bombardamenti ancora più violenti di prima, ma senza ulteriori cambiamenti tra i due schieramenti; solo all’interno della fortezza, molto repentinamente, c’era stato un mutamento di responsabilità, Giovine venne nominato sul campo colonnello e posto al comando della cittadella militare mettendo da parte il gen. Ascione al quale venivano imputati alcuni errori nella conduzione dell’assedio, ma ciò nonostante gli accadimenti ormai stavano precipitando.
Il 13 febbraio 1861 cadde dopo una eroica resistenza anche l’ultima roccaforte borbonica nel Sud, Gaeta, che aveva visto dagli spalti della locale fortezza combattere anche la famiglia reale fino all’ultimo giorno prima della resa, per rifugiarsi poi a Roma sotto la protezione di Papa Pio IX.
La situazione a questo punto si fece drammatica all’interno del forte con dissidi tra chi, come il neo comandante Giovine, vista l’impossibilità di resistere, voleva accettare una resa immediata e quelli che volevano continuare a combattere per l’onore militare capeggiati dal sergente di artiglieria Domenico Messinelli.
Prevalse ampiamente quest’ultimo e l’assedio continuò suscitando anche l’ammirazione della stampa straniera e soprattutto, dall’esilio romano anche quello della famiglia reale dei Borboni, tanto che in più occasioni la regina Sofia esclamò: “Piuttosto che stare qui, amerei morire negli Abruzzi in mezzo a quei bravi combattenti”.
Ma l’entusiasmo e l’eroismo non potevano certo cambiare le sorti della battaglia, tanto che 15 febbraio Mezzacapo, grazie a nuovi e moderni cannoni, appena arrivati da Torino, cominciò un altro duro ed ancora più feroce bombardamento che distrusse in parte la potente fortezza.
Ormai era sicuro che di lì a pochi giorni sarebbe entrato nel pase da trionfatore.
Nonostante il cumulo di macerie, gli scarsi approvvigionamenti e l’avvicinarsi anche lo spettro della fame, i soldati resistevano in maniera sbalorditiva.
Ma la situazione ormai andava chiusa subito, ancora pochi giorni e il 17 marzo Vittorio Emanuele sarebbe stato incoronato Re d’Italia e per quel giorno la Fortezza di Civitella del Tronto doveva essere presa ad ogni costo.
Venne allora rinforzato il presidio con l’arrivo di altri 3.379 soldati, 167 ufficiali e altri venti nuovi cannoni.
Nessuno, all’interno della fortezza, si faceva alcuna illusione; ciò nonostante veniva ribadito da tutti i resistenti era il giuramento: “prima il dovere e l’onore militare”; così, con questo spirito, quando si presentò al forte in quelle stesse ore il generale borbonico Della Rocca recando un messaggio di re Francesco II con l’ordine della resa, non accettarono l’ordine perché nessuno di loro conosceva la vera firma del re. Forse fu una scusa, in questo modo però continuarono nella difesa sempre più strenua.
Il 20 marzo, a tre giorni dalla proclamazione del Regno d’Italia, divenne per Civitella il giorno del giudizio.
I piemontesi, fin dalle prime luci dell’alba, iniziarono terrificanti bombardamenti tanto che alla fine furono contati 7.860 proiettili pari a 6.500 kg di polvere da sparo.
Ormai, senza munizioni e con tanti feriti allo stremo delle forze, alle ore 11 di quello stesso giorno il maggiore Raffaele Tiscar, vice-comandante del Forte, firmava la capitolazione congiuntamente al ten. col. Pallavicini per la parte sabauda.
Due ore dopo, in spregio ad ogni “onore militare”, veniva fucilato senza processo dai vincitori e con una accusa ridicola, il tenente Messinelli insieme al pari grado Zopito per aver disobbedito, loro soldati borbonici, alla resa ordinata dal generale borbonico Della Rocca e condannato da parte degli italiani che non c’entravano nulla; ma questa non fu l’unica azione deplorevole, scrive Giorgio Cucentrentoli nel suo libro ‘La difesa della Fedelissima Civitella del Tronto’: “A calci e pugni vengono tratti fuori il tenente Messinelli e Zopito di Bonaventura, rei di trasgredire le “leggi di guerra” con una prolungata difesa».
La sentenza è la fucilazione: anche per padre Zilli. (Cappellano militare borbonico. Ndr) L’esecuzione è sommaria: si fucila alla schiena come si usa per i traditori. Zopito di Bonaventura, il “Generale di Franceschielle”, si reca incontro alla morte da valoroso con la sua coccarda rossa borbonica sul petto. Il plotone dei bersaglieri è con l’armi puntate. Padre Zilli da Campotosto si asciuga la fronte con una pezzuola, che poi ripone con cura nella manica del saio; guarda in alto come per cercare Dio. Aveva chiesto al Maggiore Finazzi una grazia, quella di poter essere seppellito nella sua chiesa. “No, aveva replicato Finazzi, “i briganti devono essere seppelliti sul luogo!”
Tutto era oramai finito.
Per la Porta Napoli entrarono nella fortezza i bersaglieri a passo di carica insieme alla fanfara per fare festa all’evento, ma qualcosa mandò di traverso i festeggiamenti.
Sul punto più alto della rocca sventolava ancora la bandiera dei Borboni, un piccolo gruppo di irriducibili, infatti, fedeli a Messinelli mantenevano ancora salda la resistenza, ma fu, ovviamente, tutto inutile.
In breve, anche con la complicità di alcuni traditori, il generale Mezzacapo riuscì ad entrare nella rocca superiore conquistandola definitivamente.
Gli eroici 291 difensori di Civitella del Tronto vennero catturati e lo stesso giorno venne ammainata per sempre la bandiera borbonica e issato finalmente il tricolore con lo stemma sabaudo, ma la cerimonia avvenne tra un mucchio di rovine ancora fumanti perché per dare dimostrazione di forza del nuovo Stato venne abbattuta e rasa al suolo quasi per intero questo gioiello di architettura militare del rinascimento che, per quasi un secolo, rimasero, a futura memoria, cumuli di rovine su una terra bruciata.
A conclusione di questo scritto vogliamo ricordare ciò che scrisse Carlo Alianello nel suo libro L’Alfiere del 1942 che illustre assai bene quei giorni della fine del Regno delle Due Sicilie: “Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un’idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c’è vanità, non c’è successo, non c’è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora –. Uomini che la violenza e l’illusione non li piega e che sentono la fedeltà, l’onore, la bandiera e la Monarchia, perché son padroni di sé e servitori di Dio”.