tratto da: atfp
di Federico Catani
Risale al 1967 il “manifesto” della nuova scuola italiana, ovvero la celebre Lettera ad una professoressa di don Lorenzo Milani. Il prete di Barbiana voleva una scuola diversa, democratica, non elitaria, vicina al popolo. E cosa proponeva? Di eliminare la letteratura e la grammatica, viste come materie che umiliavano i poveri. Ai figli dei contadini, diceva, bisognava insegnare come si lavorava i campi. Solo così non si sarebbero sentiti inferiori e non avrebbero percepito la scuola come un’istituzione che li escludeva.
A distanza di tanto tempo, questa visione dell’istruzione appare in tutto il suo delirio. Eppure all’epoca venne esaltata da molti come una grande e benefica novità. Ed anche oggi non mancano i suoi estimatori.
Attualmente abbiamo davanti agli occhi la catastrofe che la Lettera ha provocato. Una scuola pensata e fatta in nome dei più poveri, ma che ha portato solo a un livellamento verso il basso, ad un egualitarismo estremo che penalizza i meritevoli e svantaggia proprio i ceti più bassi che dice di voler difendere e valorizzare.
Questa è la tesi di fondo del libro “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (La nave di Teseo, Milano 2021), di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. I due autori, rispettivamente docenti al liceo e all’università, mette in luce con dolore e senza pietà tutte le contraddizioni e le mancanze dell’attuale sistema scolastico italiano. La cui crisi va fatta risalire alla scuola media unica, nel 1962, passando per la riforma dell’esame di maturità e il libero accesso alle università del 1969 sino ad arrivare alle devastanti riforme Berlinguer degli anni 2000, alle quali nessun successivo governo ha voluto porre realmente mano.
Il J’accuse è rivolto al mondo progressista (ma anche alla cosiddetta destra, che non si è mai preoccupata troppo di questi temi). Infatti – afferma la prof.ssa Mastrocola – «è la cultura progressista che si è battuta per la democratizzazione della scuola; è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come diritto al “successo formativo”; è la cultura progressista che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare falsi attestati».
Gli amari frutti della scuola progressista
Ad alcuni questo libro potrà apparire un testo nostalgico. Tuttavia si tratta solo della descrizione di cosa abbiamo perso in questi anni di scuola “democratica” e “progressista” e della constatazione degli amari frutti raccolti dalle varie riforme. Frutti ben riassunti dalla Mastrocola quando scrive che oggi «mediamente almeno un terzo di una classe di prima liceo fa errori gravi di ortografia, non ha nessuna nozione di punteggiatura, confonde una congiunzione con un avverbio, non sa fare l’analisi logica di una frase né l’analisi di un periodo; non è in grado di fare un discorso orale più lungo di un minuto; non comprende un romanzo del Novecento; non sa costruire un testo organizzandolo su basi logiche ma affianca solo le frasi una accanto all’altra, scarne e banali, senza alcuna capacità di raccontare, di esprimere compiutamente un pensiero, una riflessione, un’opinione».
Del resto – e chi ha figli o nipoti a scuola lo saprà benissimo – «un ragazzo degli anni duemila non solo sostiene un esame di maturità farsa, ma ha imparato fin dalla scuola media che può permettersi benissimo di studiare solo in prossimità dell’interrogazione (le interrogazioni sono “programmate”), e che quando sarà interrogato lo sarà solo su piccole porzioni di programma. E più recentemente, dopo l’introduzione massiccia degli strumenti di valutazione “a crocette”, sa perfettamente che quello su cui deve veramente attrezzarsi non è a rispondere, cioè a costruire una risposta riproducendo lui stesso un discorso, un ragionamento, un’argomentazione, ma è a selezionare una risposta fra un piccolo numero di risposte preconfezionate. A valutarlo, infatti, saranno sempre di meno esseri umani, ma quiz, test, questionari che una macchina provvederà a elaborare e trasformare in punteggi».
Questo accade alle superiori. Ma all’università non va certo meglio. Come nota il prof. Ricolfi, «se gli studenti universitari hanno permanente bisogno di essere supportati, aiutati, assistiti, stimolati, monitorati, è prima di tutto perché arrivano largamente impreparati; e se arrivano largamente impreparati è perché, per decenni e decenni, la scuola è stata indotta ad abbassare gli standard, non tanto e non solo nel senso di annacquare i programmi (cosa avvenuta in Italia meno che altrove), ma nel senso di abbassare sempre più l’asticella della promozione». Tanto che «qualsiasi docente universitario non afflitto da chiusure ideologiche – osserva – non ha difficoltà ad ammettere che, in mezzo secolo, i contenuti dei programmi sono stati di molto alleggeriti, e che nessuno oggi, agli esami, si sogna di pretendere dagli studenti quel che potevano pretendere Bobbio, Magris o getto alla fine degli anni sessanta».
E ci siamo mai chiesti perché oggi tanti ragazzi non ce la fanno e abbandonano gli studi o cambiano scuola? Per la Mastrocola è molto semplice. Perché, per l’appunto, non sono stati ben preparati negli anni precedenti. Senza temi, analisi grammaticale, logica, del periodo e le parafrasi, ad esempio, non si può essere pronti a studi più complessi. Non si può frequentare il liceo classico. O, se lo si fa, bisognerà faticare il doppio o il triplo. Eppure tutti vogliono andare in un liceo. Ecco allora che «s’è creato un liceo per coloro che non vogliono fare latino, ma desiderano comunque fare un liceo (meraviglioso controsenso!). Abbiamo pensato a opzioni più facili e snelle, nonché più “moderne”: un liceo scientifico-tecnologico, per esempio, o altri infiniti surrogati. Così le classi basse scelgono il tecnologico, e le classi alte continuano a scegliere lo scientifico tradizionale. Perfetto! Dovremmo dire apertamente che è un imbroglio, dirlo alle famiglie meno accorte. […] Dovremmo dire: guardate che il vero liceo è quello con il latino, se scegliete l’altro va bene, ma vostro figlio non potrà poi andare all’università. Cioè, ci andrà ma farà molta più fatica, e riuscirà solo se sceglierà corsi di laurea deboli, perché certi esami duri non ce la farà a passarli, senza aver fatto il liceo con il latino». Che poi oggi in seconda liceo si arriva grosso modo al programma di latino che un tempo si faceva in terza media…!
Certo, in un mondo in cui bisogna esprimere un pensiero con al massimo 140 caratteri (vedi Twitter) o con video di pochi secondi su Tik Tok e dove si sta tornando a una sorta di linguaggio primitivo per immagini con le foto su Instagram o con messaggi costituiti di emoticon, la prof.ssa Mastrocola che parla dell’importanza del latino, della parafrasi, dell’analisi logica sembra un marziano. E lo appare ancor di più quando, riferendosi alla scuola media da lei frequentata alla fine degli anni sessanta, ricorda l’importanza di studiare scrivendo. E oltretutto a mano! «Scrivere – osserva – era un modo di studiare. Studiare era far durare le cose che si leggevano. E per farle durare bisognava inciderle sulla testa, stamparle. […] Ciò che si legge soltanto, vola via. […] Studiare non è leggere. Bisogna selezionare, riorganizzare, trattenere, ricordare. E ricordare è imprimere».
Una scuola contro i ceti popolari
Insomma, per andare al punto, «abbassare il livello culturale dello studio – dice Ricolfi – non è democratico, anzi è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare e, grazie a fenomeni quali le lezioni private a gogò, ce la faranno sempre. Bisogna rendere in grado i “poveri” (gli umili, gli svantaggiati, i ceti meno abbienti) di fare le scuole migliori. Rendere in grado! Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose! Non farà né il liceo né l’università, un ragazzo, se non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso di quel che legge, e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato».
In barba alle sciagurate tesi espresse da don Milani, «una volta raggiunta l’unità linguistica degli italiani, dagli anni settanta in poi, una scuola alta e difficile avrebbe avvantaggiato (non svantaggiato!) i poveri. […] Se il cosiddetto ascensore sociale non funziona più, è perché ai poveri, per non farli sentire poveri, abbiamo dato una scuola impoverita. Senza dei ed eroi e senza le parole antiche», dice la Mastrocola. Ed «era il sapere teorico che bisognava mettere a disposizione di tutti (soprattutto dei figli di contadini, visto che il sapere pratico lo possedevano già), invece di svilire questo genere di studi bollandoli come elitari e lasciando i figli dei contadini nell’angolo della loro cultura d’origine».
Perché «sul destino sociale di un ragazzo non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione. A parità di altre condizioni, una scuola indulgente e di bassa qualità riduce le chance si successo, ma soprattutto – qui sta il punto cruciale – una cattiva istruzione amplifica il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi. La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza».
Ecco allora che «ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti».
Opporsi alla Cancel Culture
La prof.ssa Mastrocola delinea anche l’immagine del vero insegnante, del tipo di maestro oggi diventato sempre più raro, quasi una mosca bianca, proprio a causa del generale livellamento verso il basso, in pieno stile comunista.
Nello studente la motivazione, la “scintilla”, nasce solo se il maestro ti fa innamorare dei libri, a lezione. «Con la sua voce, le parole che sceglie di dire e le pause che decide di fare. Con gli occhi, come li muove, come li posa. E anche con quante cose sa, perché più cose sa, più riuscirà a intessere legami, imprevedibili e stupefacenti, tra i testi, tra le parole, tra i temi, anche lontani tra loro. Deve aver letto molti libri, e deve averli amati: perché così trasmetterà quei libri, ma anche l’amore. Dev’essere molto colto un’insegnante, lo vogliamo dire? Parlo di cultura, non di erudizione. Parlo di quella cultura profonda e non esibita, nemmeno tanto consapevole, fatta di sottili strati, accumulata negli anni e depositata sul fondo, che riemerge a tratti, senza nemmeno volerlo. […] Se un insegnante ne sa poco o niente della sua materia, si arrampica sui vetri, legge dal libro, parla d’altro e si butta su attività esterne».
Per la Mastrocola la scuola media di un tempo «faceva due cose uguali per tutti: dava a tutti la letteratura antica ed esigeva che tutti la studiassimo. C’insegnava l’altezza. E la lontananza. E il rispetto della distanza, della diversità, di se stessi. E ancor di più c’insegnava l’uguaglianza, l’essere giudicati tutti con lo stesso metro: per quel che si dimostra di sapere, e di valere […]. Nulla più della letteratura (e dell’arte in generale) è democratico: è esattamente ciò che può aiutare tutti, portandoli alle altezze che non hanno avuto in sorte».
Solo una scuola così potrà evitare quel nefasto fenomeno cui stiamo assistendo negli ultimi anni qui in Occidente chiamato cancel culture, che porta ad abbattere statue, abolire le favole classiche, i miti antichi, Omero e Dante, perché tutti ritenuti fonti di violenza, maschilismo, omofobia e quant’altro. Non adatti ai tempi nuovi. Discriminatori. Origine di odio sociale. Questo, come scrive la Mastrocola «succede quando non si ha più dimestichezza con il passato, non si sanno collocare le cose nel tempo. Succede quando non si è più in grado di leggere interpretando, di cogliere il valore simbolico di una storia, il doppio livello semantico di una parola. Così, tutto viene travolto dal delirio del politicamente corretto, frullato in un presente che confonde e distrugge».
Purtroppo, come spiega varie volte Luca Ricolfi, non ci troviamo di fronte ad un disastro, dal quale prima o poi e seppur con grande sforzo, si riesce a ricostruire. Siamo piuttosto davanti ad una vera e propria catastrofe educativa, dalla quale, umanamente parlando, è impossibile uscir fuori.