di Lorenzo Gasperini

L’istituzione del lasciapassare verde (non a caso il colore della vergogna) si configura sostanzialmente come un obbligo giuridico nella misura in cui condiziona l’esercizio delle libertà naturali. Vige nella modernità un pregiudizio sofistico che considera fondamentali le libertà normalmente meno utilizzate dalla persona umana, quali pubblicare libri ed eleggere assemblee parlamentari. La vita quotidiana si sostanzia perlopiù di altro: lavoro, sacramenti, attività sportiva, cene con gli amici, opere di carità spirituale e corporale. Nell’ultimo anno e mezzo sono questi ultimi tratti ordinari della fisionomia dell’umano ad essere stati compressi senza alcuna tematizzazione degli stessi, considerati quali beni superflui, e questo indica che siamo di fronte ad uno dei tanti attacchi che la gnosi imperitura via via sferra contro la natura umana. Data la mancata tematizzazione di questi, comunque la si pensi sulle misure opportune per gestire la diffusione del virus, l’attacco alla natura umana è fattualmente rilevato.

Ora, se -come dicevamo in principio- le nuove disposizioni subordinano l’esercizio delle libertà umane naturali all’ottenimento del lasciapassare verde, significa che per vivere da uomini è obbligatorio ottenere il marchio. Il condizionamento è quindi un obbligo espresso in forma di proposta. Come a dire: si è liberi di girare senza marchio -e, dunque, senza farmaco sperimentale- purché si conduca una vita non umana. Quella che ultimamente ha causato – tra i vari effetti- l’aumento dei problemi psichici nel nostro Paese.

Ovviamente non è che la vita marchiata sia più umana, giacché questa è l’essenza di ogni ricatto: far scegliere tra un bene importante e la dignità, e chi perde la dignità perde più di chi è stato defraudato dei propri beni.

Nelle nuove disposizioni biopolitiche il rapporto tra imposizione e azione risulta inoltre invertito rispetto a quello in cui si gioca ordinariamente il dispositivo giuridico del divieto. È la differenza che corre tra vietare ai cittadini di bere una determinata sostanza e invece imporgli di berne una aprendo loro la bocca con la forza della Polizia (ovvero revocando la normale esistenza umana se non accettano di bere quel che lo Stato ha deciso). Si aggiunga poi che la disposizione biopolitica si distingue da altre tipologie di disposizione in quanto in questo caso l’oggetto del fare comandato è il corpo stesso della persona.

Queste differenze non sono affatto irrilevanti se si ha una visione classica e cristiana della persona e dei confini tra spazio personale e biopolitica.

Soprattutto, però, occorre rispondere a coloro che assumono le proprie premesse dalle scienze empiriche (le quali – ricordiamolo – sono di per sé capaci di fornire solo proposizioni probabili e non certe, a maggior ragione in condizioni di scarso studio e limitata sperimentazione) dando per evidente che il risultato della vaccinazione di massa (quella del 100% o giù di lì, a cui puntano gli invasati della tecnopolitica, i fanatici della dose, i drogati del cocktail, come certi Generali) sia socialmente utile e produca più benefici che danni.

Al netto del grave difetto epistemologico di cui abbiamo appena detto e ammesso e non concesso che si possano investire tali premesse mutuate dalle scienze empiriche di una forza proporzionata a dare vigore a degli obblighi, il problema  di questa argomentazione è quello di pensare alla società umana come ad una comunità di suini da allevamento o di topi, secondo la bella immagine fornita da un altro fanatico della pera vaccinale, l’intrattenitore Burioni.

Nella dottrina classica dello Stato non si decide ciò che è lecito per il potere politico in base alle mere conseguenze (teoria consequenzialista) delle disposizioni, ma in base alla sfera di competenza: è proprio il metodo quindi che vedendo qui lo Stato impegnato nell’imporre de facto un farmaco sperimentale al cittadino, entrando a gamba tesa negli obblighi circa il suo corpo (e si badi bene: non a proibizione di intrinsece mala, come accade nel divieto di abortire come nel negare il diritto al suicidio) che una visione cristiana della politica dovrebbe preservare da quella che si configura a tutti gli effetti come una grave tentazione totalitaria.
Che il corpo sia disponibile alla sperimentazione dello Stato e alle fragili inferenze da premesse meramente probabili, con l’esautorazione più assoluta della persona nel declinare le conoscenze nella propria personale situazione e nel ponderare i beni, i rischi, i benefici, le probabilità in gioco nel proprio caso specifico, è contrario alla complessità dell’ordine della natura, alla sussidiarietà e all’armonia delle parti, aprendo inoltre la strada ad un possibilità di utilizzo del corpo da parte del potere che è quantomeno temerario e imprudente per chiunque sappia che uno scenario, una modalità di esercizio del potere, una facoltà tecnica, una volta inaugurate sono difficilmente revocabile, motivo per cui in politica ogni atto dovrebbe essere prudenzialmente valutato non solo in se stesso ma anche in quanto inaugurazione di un orizzonte di possibilità. Possibilità che potrà essere usata con intenzioni di differente rango, nel corso del tempo, e che può essere quondi prudente decidere di contingentare quanto alla forza di esercizio.

Tutti i totalitarismi sono stati in grado di giustificare se stessi argomentando con le necessità del bene comune e quel che più rileva non è solo che quelle argomentazioni fossero materialmente infondate, ma anche che per realizzare il bene desiderato si sia considerato possibile sopprimere ogni sfera naturale di competenza, ogni complessità del valutare e dell’agire, che la “teoria sociale” abbia potuto giustificare qualsiasi soppressione delle istanze di sussidiarietà e di competenza dei corpi intermedi e persino della persona su se stessa.

L’ordine del bene è un ordine certamente più complesso di quello liberale e individualista del contratto ma anche di quello consequenzialista della massimizzazione del risultato, e che sia lo Stato a deliberare sulla sottoposizione dei corpi dei cittadini ad una sperimentazione farmacologica, in un campo che per complessità tecnica (strutturale e indipendente dalla scienza di chi se ne occupa, data per esempio l’imprevedibilità degli effetti di lungo termine per la medicina stessa) esula dalla normale iniziativa di ordinamento delle cose umane sociali al loro fine e quindi dal campo di ciò che può essere prescritto dall’autorità politica ai cittadini. 

La politica e l’etica sono guidate da principi diversi da quelli dell’economia (calcolo di conseguenze in termini di entrate ed uscite, compreso calcolo del numero delle vite, peraltro con previa accettazione di ignoranza circa importanti esternalità capaci di generare significative conseguenze) e nessun Burioni può seppellire alla coscienza Aristotele, Agostino e Tommaso, come nulla fossero. Seppellire ad una lucidità che si è assopita sì, ma alla verità e alla coscienza no.

Un popolo consapevole e fiero sarebbe disposto a tutto per impedire l’inaugurazione di questa nuova forma di esercizio biopolitico che nella superba bramosia di essere “apprendista stregone” mutua certezze da scienze inferiori -esse stesse incerte a proposito delle convinzioni che propongono- per trarne alchimie, disposizioni e obblighi il cui effetto di lungo termine sulla salute umana rimane sconosciuto mentre quello sulle forme di esercizio del potere che verranno è facilmente intuibile anche leggendo l’ultimo preoccupante decreto legge.

Lorenzo Gasperini