di Fabio Fuiano

fonte Corrispondenzaromana.it

In occasione della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno, è stato presentato un nuovo film del regista spagnolo Pedro Almodóvar, il primo in lingua inglese, intitolato The Room Next Door. La pellicola è incentrata sul tema dell’eutanasia e Almodóvar, in conferenza stampa, ha affermato: «Questo film è a favore dell’eutanasia. È qualcosa che ammiriamo nel personaggio di Tilda, che decide che per sbarazzarsi del cancro è necessario prendere la decisione che prende. Trova un modo per raggiungere il suo obiettivo con l’aiuto della sua amica, ma devono comportarsi come se fossero dei criminali». Applausi scroscianti nella sala della conferenza stampa. Il regista ha continuato dicendo: «In Spagna abbiamo una legge sull’eutanasia. Dovrebbe essere possibile in tutto il mondo. Dovrebbe essere regolamentata e il medico dovrebbe essere autorizzato ad aiutare il suo paziente». Superfluo dire che, a vincere il Leone d’oro, è stato proprio Almodóvar.

Non è una novità che il cinema venga utilizzato per veicolare messaggi del genere e, in effetti, si tratta di uno strumento molto potente perché certe idee permeino il substrato culturale di un popolo, soprattutto quando il messaggio è ad altissimo contenuto emotivo. Ma sta proprio qui il problema: viviamo in un contesto dove l’emozione si mangia la ragione e, dunque, la menzogna si mangia la verità. L’occasione dell’uscita di questo film dà modo di riflettere sul tema in maniera seria cercando di mantenere, come coordinate di riferimento, i principi morali della Legge naturale.

Anzitutto, sembra utile definire in modo chiaro i termini della questione in quanto spesso, quando si parla di un determinato argomento, il favore o lo sfavore si fondano per lo più sull’idea soggettiva che ci si è fatti del medesimo e non sulla sua realtà oggettiva. L’eutanasia non sfugge da tale dinamica. Il favore delle persone per tale pratica è dettato dall’idea soggettiva che essa sia semplicemente una legittima risposta da dare ad una altrettanto legittima richiesta di un paziente in condizioni che egli reputa insopportabili. La si vede come l’estrema espressione di autodeterminazione dell’individuo e, quindi, a giusto titolo denominata “buona morte”. Tutto ciò, occultando la vera natura dell’eutanasia, ovvero che essa altro non è che l’omicidio del consenziente.

Il prof. Mario Palmaro trattò il vasto tema dell’eutanasia nel suo libro Eutanasia: diritto o delitto? Il conflitto tra i principi di autonomia e di indisponibilità della vita umana, (Giappichelli editore, Torino 2012). Purtroppo, ci muoviamo oggi in un ambiente «decisamente schierato, che si riconosce in una posizione, riassumibile in una formula di questo genere: il soggetto è padrone delle sue scelte, di tutte le sue scelte e nessuno potrà o dovrà interferire con questo potere invincibile».

Le persone, si sentono tranquillizzate quando i mass media presentano l’eutanasia come applicazione inconfutabile del principio di autonomia, invocando il diritto di ogni persona a decidere quando e come morire. In tal modo, si pensa, vengono “sventate” iniziative terapeutiche del medico o dello Stato, descritti come pericolosi oppressori che ambiscono ad invadere lo spazio di libertà del singolo.

Già in un precedente articolo su CR, commentando il caso di suicidio assistito della cinquantacinquenne del Friuli-Venezia Giulia, si riportarono gli argomenti rigorosi con cui Palmaro dimostrava (pp. 85-89) come il principio di autonomia, lungi dall’essere affermazione dell’individuo contro la volontà arbitraria del potere pubblico, si ritrova, alla fine, proprio in balia di tale potere, essendosi privato del baluardo dell’indisponibilità della vita. Infatti, laddove si negasse che uno Stato deve poter dare a tutti accesso all’eutanasia (dunque anche a persone sane) si sarebbe costretti ad ammettere che è proprio il potere pubblico a dover sancire dei criteri, avulsi dalla volontà dei singoli, sulla base dei quali decidere chi può accedervi e chi no. Salvo poi vedere tali “paletti” travolti, come di consueto, dal fiume in piena di sentenze della Corte costituzionale.

Palmaro aggiungeva inoltre che, «una volta definiti i criteri di accesso all’eutanasia, diverrà impossibile aprire una discussione su “che fare” con quei pazienti in possesso di quei requisiti ma incapaci di esprimere la propria volontà autonoma. Non è forse pienamente logico estendere anche a costoro una morte pietosa, anche in assenza dell’esercizio esplicito della famosa “autodeterminazione”?».

Per comprendere però come si è giunti a questo punto, Palmaro mise in luce le cause della diffusione di una mentalità favorevole all’eutanasia (pp. 1-4). Essa «è alimentata innanzitutto da una serie di elementi peculiari della società contemporanea, che agiscono come vero e proprio “terreno di coltura” per approdare, negli esiti, alla legalizzazione della “dolce morte”». Palmaro ne elencava dieci:

«1) Dio è rimosso dalla vita pubblica ed è espropriato dei Suoi diritti. L’uomo risponde solo a sé stesso, enfatizzando i concetti di autodeterminazione e di autonomia. In questo modo l’uomo si costituisce norma a sé stesso e misura dei propri giudizi. Dunque, egli rivendica una signoria assoluta sulla propria vita, sul momento e sul modo con cui “uscire dalla vita”.

2) Una mentalità sempre meno incline a riconoscere la vita di ogni uomo come valore in sé stesso.

3) La dottrina della c.d. “qualità della vita”, intesa come misurazione del valore della vita attraverso una formula che calcola il peso della vita sulla base di alcuni moltiplicatori: efficienza, godibilità psicofisica, sofferenze, handicap. Se uno di questi fattori è pari a zero, anche il risultato dell’equazione sarà zero. Certe vite umane valgono zero.

4) Sempre nel solco di questa visione, si può giungere a ritenere che certe vite abbiano addirittura un saldo negativo, poiché esse comportano costi sociali, costi umani per i parenti, costi per la sottrazione di risorse per malati in migliori condizioni e così via.

5) In queste condizioni, la vita è da rifuggire con ogni mezzo. Essa è rappresentata come una prigione, dalla quale si deve evadere per riacquistare la libertà.

6) La morte è il nuovo tabù della società in cui viviamo. L’uomo contemporaneo ha un rapporto ambiguo e problematico con la morte. In assenza di dolore e malattia, la morte è percepita come la fine assurda di una vita ancora da godere. Ecco perché, di norma, della morte non si deve parlare e sulla morte non si può riflettere.

7) D’altro canto, quando la vita perde smalto e si appesantisce per un’invalidità o semplicemente per il passare degli anni, la morte è percepita come liberazione da un’esistenza, ritenuta priva di senso.

8) L’uomo risponde soltanto alle leggi della società liberamente stabilite in base al consenso generale o maggioritario. La democrazia procedurale o relativista diviene il modello abituale di esercizio della sovranità, nel quale ogni contenuto può diventare norma giuridica.

9) La pietà viene usata come lubrificante della macchina eutanasica: i sinceri sentimenti di pena, di compassione, di angoscia che affliggono coloro che assistono un malato divengono argomenti efficaci per giustificare l’eliminazione repentina del paziente.

10) In questo clima complessivo si rimuove dalla discussione etica e giuridica il fatto di cui si sta dibattendo: per praticare l’eutanasia bisogna letteralmente compiere un atto omicida».

È così che l’eutanasia, da delitto, diviene “diritto”, cui corrisponde in capo ad altri un dovere. Questo è ciò che esalta il film di Almodóvar: la disperazione dell’uomo contemporaneo, la cui vita è stata privata del suo fine ultimo e quindi del suo senso profondo, fino a desiderare non solo di essere uccisi, ma che addirittura lo Stato legiferi affinché altri abbiano il dovere di soddisfare tale richiesta.