di Marcello Veneziani
Tratto da Marcello Veneziani
Cinquant’anni fa, il 17 maggio del 1972, fu ucciso il commissario Luigi Calabresi e non da organizzazioni terroristiche come le Brigate rosse, ma da un’associazione che agiva alla luce del sole, con il concorso ideologico dell’Intellettuale Collettivo che ne spronò, con le sue ottocento firme, l’azione contro “il servo fascista” delle istituzioni.
Quando ripenso ai primi anni settanta, li ricordo in bianco e nero come la tv del tempo; i maglioni dolcevita, le basette lunghe, la 500, le spranghe e le catene, i poliziotti, il sessantotto inacidito in terrorismo, la lotta politica che degradava nella lotta armata, le stragi. Quelle immagini, lievi o cruente, si compendiano tutte nel ritratto di Luigi Calabresi, commissario e martire negli anni di piombo. Ove per piombo s’intende non solo quello delle armi ma anche quello che scorreva sotto le rotative. E che condannò Calabresi con una fatwa che si rivelò di parola.
Lo ricordo in bianco e nero, con un dolcevita, le basette lunghe, lo sguardo fiero e meridionale, la sua cinquecento, tra i poliziotti, e poi le violenze di quegli anni, i cortei, gli insulti, il linciaggio a mezzo stampa, l’omicidio.
La figura di Luigi Calabresi è un ritratto in piedi. Un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di uomo d’ordine. Un’espressione antica, terribilmente demodé, le compendiava tutte: Servitore dello Stato. Così si definiva Luigi Calabresi. E a chi fa una smorfia d’insofferenza per un’espressione antiquata e retorica, ripensi con rispetto che a quella definizione Calabresi restò fedele fino alla morte. Inclusa. Tutto per 270mila lire mensili, uno stipendio medio per quei tempi, che a Milano con famiglia a carico non consentiva una vita agiata. Un minimo decoro, però senza scialare. Ad aggravare il suo ritratto di uomo d’onore, vi era in Calabresi anche il suo fervente senso religioso. “Sono nelle mani di Dio” diceva. In un suo scritto, Calabresi criticava il degrado del senso civico e la riduzione delle aspettative di vita al successo, al sesso e al denaro. Era l’affiorare della società dei consumi; Calabresi aveva visto sul nascere la barbarie benestante del nostro tempo, privo di valori. La borghesia cinica e miscredente muoveva allora i suoi primi passi. Sarà quella borghesia “illuminata” a partorire anche i radical chic e i salotti nemici di Calabresi.
A Calabresi fu data dal presidente Ciampi, con 32 anni di ritardo, la medaglia d’oro al valore civile. Un riconoscimento postumo, assai postumo, che si insinuava come una piccola parentesi nel fiume di parole, interventi, pressioni per la grazia a Sofri e Bompressi (coprotagonisti del delitto con Marino e Pietrostefani). Nell’immaginario collettivo del Paese, i martiri erano diventati loro, non Calabresi. Sofri scontò le sue colpe senza viltà e senza pentimenti; e il delirio della violenza rivoluzionaria non oscurò la sua lucidità.
La vicenda Calabresi resta una ferita profonda nella storia civile ma anche culturale del nostro paese. Non possiamo dimenticare che si mobilitarono contro di lui, nel famigerato manifesto, i tre quarti della cultura e dell’intellighentia italiana. Ottocento firmatari, l’intero establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, tuttora in auge, si schierarono contro di lui, lo squalificarono, lo delegittimarono. Crearono un clima di ostilità e di legittimazione del delitto. Non è il caso di rivangare con rancore quegli anni e quegli errori che mutarono in orrori; non ne ricorderò neanche uno di quei firmatari e nemmeno il giornale che li pubblicò. Ma quando si tratta di far la storia di quegli anni, bisogna pur dirla la verità, per intero, senza reticenze, non come fece un film dedicatogli; bisogna ricordare la mobilitazione che collegò il partito armato al partito degli intellettuali, l’estremismo rosso e la sinistra intellettual-militante, in un intreccio da cui scappò più di un morto.
Non capiremmo neanche la lobby continua in favore della scarcerazione degli assassini e dei loro diretti mandanti se non ricordassimo quelle ottocento firme. E se non ricordassimo le fulgide carriere di quel ceto di sessantottini arrabbiati che si raccolsero intorno a Lotta Continua. Belle intelligenze, non c’è che dire, ma all’epoca anche spietati radicali, feroci nel linguaggio e violenti nell’azione, teorici convinti che “uccidere un fascista (o un poliziotto) non è reato”; che poi si disseminarono nella tv e nel giornalismo, nella sinistra e non solo.
Il furore di quegli anni oscurò le menti e inferocì gli animi, ma Calabresi fu uno dei pochi che lasciò a noi ragazzi degli anni settanta la residua speranza nello Stato, nell’amor patrio, nella fedeltà alla propria missione. Quando sento parlare oggi di fedeltà alla Costituzione, vorrei ricordare che altri, come Calabresi, come Dalla Chiesa, e poi Falcone e Borsellino, scontarono sulla propria pelle la fedeltà non a una carta, ma ad una missione, a una patria, a uno Stato. Che li mandava allo sbaraglio e poi si dimenticava di loro. Del Commissario resta viva un’immagine raccontata da Luciano Garibaldi in un libro dedicato a lui: quella di Calabresi che passando con suo figlio ancora bambino, davanti alle scritte minacciose e infamanti contro di lui, “Calabresi assassino”, ha un sussulto di tragico ottimismo e dice tra sé: meno male che lui non sa ancora leggere. Poi quella scritta si capovolse e da anatema si fece intenzione e poi azione: non Calabresi assassino ma assassino Calabresi. Sono passati cinquant’anni, e domani un tribunale parigino dovrà ancora decidere sull’estradizione di Giorgio Pietrostefani per il delitto Calabresi…
La Verità, 17 maggio 2022