di Vittorio Acerbi

Il più grande di tutti.

“Dal tubare della colomba allo scrosciare della tempesta, dall’impiego sottile dei sagaci artifici al tremendo limite in cui la cultura si perde nel tumultuante caos della natura, egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte.”
(Franz Grillparzer – orazione funebre in memoria di Ludwid van Beethoven)

Per il ruolo centrale che gli è riconosciuto nella storia della musica e per l’intramontabile popolarità delle sue composizioni, la figura di Ludwig van Beethoven è tutt’oggi una delle più conosciute, studiate e interrogate. La grande mole di appunti musicali non pubblicati (più di ottomila pagine) trovati tra le carte del musicista giustifica un intenso lavoro musicologico ancora in corso, mentre le diverse generazioni di interpreti si rivolgono di continuo alla lettura di sempre nuovi aspetti che sembrano scaturire dalle composizioni più famose. Una figura quella di Beethoven, della quale si tende a sottolineare il carattere di universalità, che tutto sommato discende dalle profonde radici illuministiche del suo pensiero e dal coinvolgimento nei grandi processi di trasformazione culturale che avvennero in Europa a cavallo fra Settecento e Ottocento. Allo stesso tempo di Beethoven si percepiscono sempre più il carattere estremamente individualistico e l’originalità assoluta dei lavori, spesso scritti con un linguaggio che ha ben poco in comune con quello dei musicisti a lui contemporanei.

(Il giovane Ludwig nel 1783)

Ludwig van Beethoven nasce quasi sicuramente il 16 dicembre del 1770 (il certificato battesimale è del 17 dicembre) a Bonn, allora sede dell’Elettorato di Colonia, uno dei tanti Stati che componevano una Germania estremamente frammentata dal punto di vista della geografia politica, anche se profondamente unita da un ambiente culturale che proprio tra la seconda metà del Settecento e il secolo nuovo esprimerà grandissime figure di letterati, musicisti, scienziati, filosofi. A partire dal 1784 il reggente dello “staterello” tedesco sarà l’Elettore Arcivescovo Maximilian Franz, figlio minore di Maria Teresa e quindi fratello del potentissimo imperatore d’Austria Giuseppe II, nonché di Maria Antonietta di Francia. Il suo insediamento era scaturito da un’abile mossa politica da parte degli Asburgo per creare un avamposto viennese nell’alta Germania e quindi contrastare la sempre più ingombrante influenza prussiana.
Bonn è una città tranquilla e conservatrice. La sua corte fornisce rifugio agli aristocratici mentre la rivolta che scuoterà l’Europa sta lentamente maturando. Kappelmeister (direttore musicale di palazzo) è Ludwig van Beethoven. Ma costui non è il protagonista che vi aspettereste, bensì il nonno del celebre compositore. Nel mezzo ai due Ludwig c’è Johann. Il padre di Beethoven non viene certo ricordato dalle cronache come un musicista degno di nota; è mediocre ed è un fervente alcolizzato. Johann e sua moglie Maria Magdalena avranno sette figli, ma di questi ne sopravvivono solo tre: Ludwig, Kaspar e Nicolas. Inutile dire che il nome Ludwig era stato dato ad almeno due dei precedenti figli prima del nostro protagonista.
Il timido e sensibile Ludwig dimostra sin da subito precoci segni di talento musicale, tanto che il padre decide di insegnargli a suonare il pianoforte. Le sue lezioni sono accompagnate però da una violenza inaudita. Quando sbagliava il fraseggio, quando la musica non suonava come il padre voleva Ludwig riceveva uno schiaffo, una spinta o un pugno. Lo rinchiudeva spesso al buio in cantina. Nonostante i maltrattamenti, all’età di cinque anni è un musicista promettente, tanto che il padre sogna di trasformarlo in un altro Wolfgang Amadeus Mozart. Con la differenza che l’austriaco era supportato, oltre che coccolato, dai suoi familiari. Il piccolo Beethoven ha talento, ma non è un secondo Mozart. Nessuno è un secondo Mozart. E nessuno sarà mai un secondo Beethoven.
Johann si arricchisce con le prestazioni musicali del figlio, usa il denaro per bere e, una volta tornato a casa, sveglia il figlio obbligandolo a suonare per lui e gli amici. Ma la mancanza di lucidità dovuta al risveglio brusco del padre lo fa inesorabilmente sbagliare; e così si ripetono le violenze. È un miracolo che il giovane Ludwig non abbia deciso di intraprendere una carriera diversa da quella della musica. Tuttavia sarà l’amore per la musica a fargli superare tutto il resto.
I traumi legati alla sua gioventù lo plasmeranno per sempre. Non se ne andrà mai quella convinzione che il mondo è un luogo pericoloso. Imparò che è difficile fidarsi delle persone. Diviene così un solitario che si isola, non solo dalla famiglia, ma anche dai compagni di scuola.
Non riesce molto nello studio, tuttavia dimostra grande attitudine alla musica. Costantemente si esercita al pianoforte. E sebbene suoni meglio da solo che in presenza di altre persone, riesce col tempo a convivere con questo suo disagio, tanto che tiene il suo primo concerto pubblico all’età di sette anni. L’esito è un successo. Ad assistere all’esibizione c’è Christian Gottlob Neefe che sarà il primo (vero) insegnante del giovane; sarà proprio lui a metterlo sulla strada della grandezza.

Il giovane Ludwig impara la musica di maestri come Johann Sebastian Bach (passaggio obbligatorio di ogni musicista) e Joseph Haydn che era stato a sua volta, oltre che amico caro, maestro di Mozart. La musica di quegli anni si svilupperà proprio sotto il triumvirato Haydn, Mozart, Beethoven; e sebbene il primo fosse il Lepido della situazione, fu nondimeno un grande compositore che ebbe la sfortuna di rimanere solo secondo ai mostri sacri.

All’età di dieci anni lascia definitivamente la scuola per dedicarsi alla musica. È ispirato dal clima della cultura illuminista di quegli anni. È affascinato dalle idee di libertà di Kant e Voltaire che attaccano gli aristocratici che governano l’Europa da secoli. Comincia quindi a frequentare salotti dove impara a sbottonarsi di quella solitudine che era solito indossare; inizia a discutere ad alta voce del pensiero degli intellettuali del suo tempo. E come adesso si può dare sfogo alla mente senza alcun vincolo, ugualmente lo si può fare con la musica. Beethoven diventa il perfetto esempio nel rompere gli schemi musicali. Nessuno prima di lui oserà farlo. Le tre sonate, composte all’età di tredici anni, che passano sotto il nome di “Juvenilia” sono la prova di un nuovo approccio compositivo. Basta con la musica di intrattenimento; d’ora in poi la musica dovrà essere capace di trasformare e muovere le persone.

Nel 1783 il maestro Neefe pubblica un annuncio su una rivista di musica esortando i nobili di Bonn a finanziare il viaggio e la formazione del dodicenne Ludwig nella scintillante Vienna. Sede dell’impero asburgico e capitale mondiale della musica. Neefe assicura: “Beethoven è un genio!”
Nel 1787 un gruppo di aristocratici investe il proprio denaro sulla stella nascente della musica. A Vienna i nobili rovesciano il proprio denaro su artisti di ogni genere; per coloro che hanno talento il guadagno è relativamente facile. Ma oltre che banco di prova, la capitale austriaca rappresenta anche la possibilità di conoscere il più famoso compositore di sempre: Wolfgang Amadeus Mozart. Benché sia solo da dieci giorni a Vienna, Beethoven non ha perso tempo ad entrare nelle grazie di qualche nobile. Decide quindi di sfruttare le sue conoscenze per riuscire ad avere un’audizione in Domgasse, nella casa di Mozart. Qui il compositore salisburghese teneva la propria scuola di musica. Quando non era impegnato a comporre, le sue attenzioni si riversarono su Johann Hummel, giovane e talentuoso allievo che Mozart cercava di plasmare a sua immagine e somiglianza. Quando a metà aprile del 1787 avvenne l’incontro, Mozart aveva trentuno anni. Elegantissimo, occhi grandi ed enorme vivacità. Beethoven di appena sedici anni, portava i capelli disordinati, folte ciglia che contornavano uno sguardo penetrante ed oscuro. Una indole trasandata e scontrosa. Mozart diede al giovane Ludwig un tema da sviluppare e questi, sebbene ardito nel presentarsi al più grande di tutti (sino ad ora), era confuso ed emozionato. Tanto che Mozart se ne uscì con un: “Davvero molto grazioso, ma troppo meccanico” (Nota a margine: stiamo parlando di un giovane ed acerbo Beethoven ben inteso, ma tutto si potrà dire di lui tranne che risulti meccanico). L’audizione sarebbe finita qui se gli amici non fossero intervenuti chiedendo al maestro di dare una seconda possibilità al ragazzo. Così Beethoven suonò un nuovo tema. Mozart era incredulo. Corse improvvisamente dalla moglie che stava intrattenendo degli ospiti nella stanza accanto e disse: “Tieni d’occhio questo ragazzo. Un giorno darà al mondo qualcosa di cui parlare.”
Beethoven è entusiasta di aver fatto colpo sull’eroe della sua infanzia e vorrebbe poter studiare con lui. Ma quello sarà il primo ed unico incontro fra i due più grandi di sempre.

Dopo soli quattordici giorni, Beethoven è costretto a rientrare a Bonn perché sua madre si è ammalata di tubercolosi. Morirà in quella stessa estate. Beethoven è un uomo che per tutta la vita combatterà coi propri sentimenti. Ed è combattuto anche sulla figura della madre; donna a cui lui era affezionato, ma che non ha saputo proteggerlo dai maltrattamenti del padre. Il padre nel frattempo è pensionato, beve più di prima e non riesce a mantenere la famiglia. Sta al giovane Ludwig prendere in mano la situazione e diventare, di fatto, il capofamiglia a soli diciotto anni. La consapevolezza di aver dovuto abbandonare Vienna per tornare ad occuparsi della famiglia è frustrante. Trova lavoro presso la corte di Bonn come suonatore di viola, strumento che conosce a malapena e che per l’occasione impara suonare in poco tempo.
Stabilizzata la situazione economica familiare, può ora concentrarsi sulla composizione. E una sua composizione la dedica proprio all’imperatore Giuseppe II da poco scomparso. Tuttavia il pezzo si rivela così difficile che molti musicisti si rifiuteranno di suonarlo; problematica questa che si ripeterà più volte nella carriera di Beethoven. Ludwig però non era tipo da crucciarsi più di tanto quando giungevano le lamentele degli esecutori. Si racconta che uno dei suoi violinisti una volta tentò di fargli riscrivere una parte in modo da renderla più semplice; la risposta: “Cosa vuole che importi a me del suo stupido piccolo violino quando la Musa mi visita?”
E come la concezione musicale per Beethoven doveva cambiare, anche l’Europa sulla spinta della Rivoluzione Francese (prima) e di Napoleone (dopo) stava cambiando. Le circostanze fanno sì che nel 1792 la sua musica passi fra le mani di Joseph Haydn che decide di fargli da maestro e lo riporta a vivere a Vienna.

(Ritratto di Joseph Haydn)

Forse il miracolo musicale sta proprio nella proposta di Haydn. Haydn era il perfetto maestro che poteva presentarsi all’impavido ed irrequieto Beethoven, perché, in quest’ultimo, aveva percepito doti incredibili, cercando di affinarle e farle successivamente esplodere. È impensabile concepire per Beethoven un maestro come Mozart; non sarebbe divenuto tanto grande con tutta probabilità. Due persone irrequiete, senza alcun ordine; Haydn era il giusto compromesso; colui che avrebbe insegnato il giusto ordine al giovane promettente. E per quanto Haydn rimanga il Lepido di turno, sarà il vero anello di congiunzione fra i due grandi compositori. Capace di dare lezioni di musica a Mozart (sebbene Mozart fosse già ampiamente affermato nello scenario musicale, più dello stesso Haydn), e lezioni alla nuova promessa della musica europea.
Dopo solo un mese dal suo ritorno a Vienna muore il padre Johann. Ludwig si rifiuta di prendere parte al funerale dell’uomo che tanto gli ha arrecato dolore.
Con Joseph Haydn al suo fianco, Ludwig ha il biglietto da visita per tutti i migliori salotti di Vienna. E benché i nobili cercassero perlopiù l’intrattenimento nella musica (per anni erano stati influenzati da Mozart), capirono che lui era qualcosa di diverso. Non solo nella musica, ma anche nella sua spigolosa personalità.
Non teneva cura della sua persona. Ed era anche piuttosto bruttino, di pelle scura e butterata dal vaiolo. Eppure quando mette mano alla tastiera, non c’è giudizio estetico sulla persona che tenga.

Già prima della fine del secolo si è già esibito in tutta Vienna.
Molti altri musicisti tentano di sfidarlo pubblicamente, ma uno dopo l’altro falliscono miseramente.
Beethoven è un eversivo in tutto, anche nel modo di (mal)trattare talvolta il pianoforte. E tuttavia alle sue esibizioni non è difficile vedere donne che svengono o uomini che piangono.
Nel 1794 interrompe i suoi studi con Haydn e comincia ad essere indipendente per introdursi fra gli aristocratici. Comincia a diventare oggetto di contesa fra il principe Karl Lichnowsky e il principe von Lobkovitz. Ognuno finisce sempre con l’offrire più soldi dell’altro al compositore; e benché Beethoven faccia capire che non può essere comprato, il denaro gli permette di dedicarsi interamente alla composizione.
Nel frattempo il suo ego cresceva, tanto che cominciò a sentirsi prima sullo stesso piano dei nobili, successivamente superiore a loro. Si riteneva inferiore solo a Dio, perché anche lui (come Dio) era un creatore. E per quanto ciò possa essere visto come un atto di superbia, rappresenta invece il voto più solenne all’arte. Ogni cosa che avrebbe composto sarebbe dovuta essere perfetta; come perfetta era la creazione di Dio. Beethoven non compone per il proprio committente, compone per l’unico committente: Dio.
Chiaramente questo è quello che pensa dentro di sé; esternamente doveva mantenere quella facciata di chi, ogni tanto, doveva fare una dedica ai suoi mecenati. Ne è un chiaro esempio esempio la “Patetica” dedicata a Lichnowsky. Proprio con quest’ultimo avrà una furiosa lite abbandonando d’improvviso la sua residenza col seguente biglietto: “Ci sono molti Lichnowsky. C’è un solo Beethoven.”
Anche se qualche tempo più tardi farà pace col principe.
Da pianista di provincia adesso è il pupillo della classe aristocratica.

Nel 1796 cominciano i primi problemi di sordità che diverrà totale nel 1815. Nonostante ciò riesce nel 1800 a comporre la sua prima sinfonia, dedicata a Gottfried van Swieten.
Un giorno Stravinskij in vena di scherzare, ha detto che Vivaldi ha composto per cinquecento volte lo stesso concerto; e aveva ragione, naturalmente, se pensiamo allo schema strutturale di un concerto vivaldiano, che non muta (quasi) mai. Da Beethoven in poi, la coscienza moderna impone ad ogni musicista delle continue e travagliate scelte creative, nel senso che ogni composizione si costituisce ad esito individualizzato, diverso dalle precedenti opere dello stesso genere, siano sinfonie o concerti, sonate o lavori cameristici e perfino opere teatrali: diviene cioè irripetibile. Quanto questo comportamento e destino siano strettamente collegati a quell’individualismo che è cardine fondamentale, portante, della concezione romantica è evidente: tuttavia, a ben vedere, è fenomeno prefigurato nettamente già nelle ultime composizioni dei grandi maestri classici, Mozart e Haydn. Mozart, durante la sua breve esistenza, ha composto oltre quaranta sinfonie; ma se prestiamo attenzione alla cronologia, vediamo che in questo ambito le sue opere più riconoscibili sono le ultime sei sinfonie, dalla Haffner alla Jupiter, che coprono lo spazio di sei anni. Questo fatto ci dice infallibilmente che Mozart, tanto fecondo da non sentirsi troppo oberato da altri pur pressanti impegni soprattutto teatrali, nella fase finale della sua creazione tendesse all’individualità, scrivendo opere tutte di altissimo livello perché scevre di una pur prodigiosa routine esperita in precedenza. Ciò avviene anche, ma in misura minore e soprattutto diversa, con le dodici Sinfonie londinesi che Haydn compose in poco meno di quattro anni. Sono quasi un corpo unitario, e tuttavia qualche evento estemporaneo ce ne lascia distinguere qualcuna dalle altre. Si può dire insomma che ancora con Haydn la sinfonia era un genere certamente impegnativo, ma sostanzialmente collegato a un’esperienza professionale, se non vogliamo configurarla come espressione di altissimo artigianato: in tal senso Haydn non aveva difficoltà sostanziali o problemi nello scrivere opere diciamo così di “consumo”: e ciò anche quando cambia situazione sociale, ossia quando passa da musicista di corte stipendiato dagli Esterhazy a nuovo artista indipendente, permeato di ideali illuministici, allineato così al citoyen francese come al prototipo della prima e dinamica fase della borghesia. In questa prospettiva è quanto mai efficace l’arguta differenza proposta dai musicologici contemporanei tra il sinfonista classico e quello moderno che inizia proprio con Beethoven: prima una sinfonia non costava ad un compositore maggior fatica di quanto ne costi ad una gallina fare l’uovo, mentre per Beethoven, la creazione di una sinfonia comincia a divenire fatica simile a quella di partorire un figlio. Che è diverso, ogni volta, dai suoi fratelli, pur essendo nello stesso sangue. Ed è effettivamente da Beethoven in poi che le sinfonie, nell’opera di ogni musicista, non si potranno più contare secondo le decine ma secondo unità, raramente superando il fatidico numero nove.

(Ritratto del giovane Beethoven)

Sempre nel 1800 si innamora di una sua allieva, Giulietta Guicciardi. La famiglia originaria di Reggio Emilia si trovava a Vienna perché il padre era un diplomatico e non badava a spese per l’educazione musicale della figlia, tanto da potersi permettere un insegnante come Beethoven. Il compositore tedesco comporrà e dedicherà a lei la famosa “Sonata al chiaro di luna”. A scapito di quanto possa suggerire il nome dell’opera, non ci sarebbero immagini lacustri e lunari, bensì il ricordo di due scene del Re Lear di Shakespeare, il re che si sveglia e riconosce la figlia Cordelia (il primo movimento), e il dolore e la rabbia del re con Cordelia morta fra le braccia.
Benché la Guicciardi sia affascinata e lusingata non ha intenzione di sposarlo; due anni più tardi si unirà in matrimonio con il conte von Gallenberg.
Il suo ego smisurato lo rende sempre più solo, la recente delusione amorosa, la consapevolezza che perderà definitivamente l’udito rendono Beethoven un uomo sempre più angosciato dalla vita.
Col tempo gli sbalzi d’umore e la collera peggioreranno. E proprio perché non riusciva a fidarsi degli altri, il suo orgoglio non gli permetteva di confidare le sue irrequietudini agli amici.
Nella primavera del 1802 si ritira a Heiligenstadt, un piccolo paesino poco fuori Vienna, nella speranza che le condizioni di salute migliorino. Si reca alle acque termali quotidianamente, fa frequenti bagni nel Danubio e utilizza trombe di bronzo nelle orecchie per percepire meglio i suoni. Tutti questi rimedi falliscono. La campana che giorno dopo giorno udiva con chiarezza, lentamente scomparirà nel silenzio assoluto. Secoli dopo la scrittrice americana Flannery O’Connor avrebbe scritto: “In un certo senso la malattia è un luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore.”
In una lettera di quello stesso anno confessa la sua angoscia ai fratelli: “Sono costretto a vivere da emarginato. Se mi avventuro nella compagnia degli uomini sono sopraffatto da un terrore cocente. Sarebbe bastato poco per mettere fine alla mia vita. È stata solo l’arte a trattenermi.”
La lettera non sarà mai spedita. Sarà ritrovata anni dopo nel suo scrittoio dopo la sua morte.

E sebbene questo esito (la sordità per un musicista) sembra appartenere ad un destino ridicolo in chiave deandreiana, era proprio la musica a donargli ottimismo. Beethoven sapeva che il fuoco sacro ardeva ancora in lui.

In una pellicola su Beethoven, ahimè molto poco affidabile sulla biografia del musicista, c’è una scena interessante che racconta, a mio parere, lo spirito col quale viveva Beethoven di quegli anni. A Vienna devono costruire un nuovo ponte sul Danubio e tutti i migliori ingegneri hanno presentato i loro progetti. Il compositore ha un diverbio con uno di questi: “Il vostro ponte non ha anima. Voi costruite ponti per unire gli uomini sulla terra, io costruisco ponti per unire le anime a Dio. A molti Dio sussurra nelle orecchie e invece urla nelle mie!” (Beethoven in quel momento è già completamente sordo). Dopodiché distrugge il ponte col suo bastone nello stupore generale di tutti. “Come vi sentite adesso? Arrabbiato? Furioso? Volete uccidermi? Imparate a trovare l’anima nel vostro lavoro e saprete costruire ponti.”
Al di là della finzione cinematografica è probabile che Beethoven potesse davvero risultare imprevedibile come in questo frangente.
Più sopraggiunge la completa sordità, più riesce a staccarsi dal frastuono della vita. Col tempo quest’ultima sarà sinonimo di distrazione per il compositore. Quella che per lui inizialmente è una disgrazia, si trasforma quasi in una benedizione perché adesso nella sua testa c’è solo la musica che suona. Una musica che è disordinata e confusa; lo si capisce bene dagli appunti sconclusionati che però lentamente diverranno la sua migliore musica.
Se la decadenza fisica lo stava abbattendo, sarà il suo spirito e la sua forza di volontà a mantenerlo sempre intraprendente e attivo.

Fra il 1802 e il 1804 compone la terza sinfonia detta “Eroica”. La sinfonia conferma la ritrovata forza d’animo dell’artista. Inizialmente la dedica ad uno dei suoi eroi, Napoleone; l’affinità con Napoleone forse sta proprio nella lotta all’aristocrazia che Beethoven sposava in pieno. Inoltre entrambi avevano rinnegato il proprio padre.
Proprio quando il condottiero francese si proclama imperatore nel 1804, Beethoven prende coscienza di questo tradimento e rivede la sua dedica alla sinfonia in favore del principe von Lobkovitz.
Nel 1807 compone la quinta sinfonia con la sua iconica introduzione “ta-ta-ta-taaa!”. Se l’Eroica è dedicata allo spirito guerriero degli uomini, nella quinta sinfonia si assiste ad una fiera apertura che racconta la costante lotta dell’uomo contro le insidie del destino; fino alla vittoria finale su di esso.
Solo un anno dopo comporrà la sesta sinfonia detta “Pastorale”. Negli appunti scarabocchiati ai margini dell’opera scrive che la musica “dovrà suonare come le cose che ormai non sente più: come il canto degli uccelli e del vento”. Beethoven è un grande amante della natura. In una lettera all’amica Therese Malfatti scrive: “Quanto è fortunata lei, che ha potuto trasferirsi così presto in campagna. Io non potrò avere questa gioia sino al giorno 8, ma già me ne rallegro come un bambino solo a pensarci. Che bellezza potermene andare finalmente in giro fra siepi e boschi, fra alberi, erbe e rocce. Nessuno può amare la campagna quanto io l’amo. La natura rimanda l’eco che l’uomo desidera udire”. Ma, oltre al bisogno fisico della campagna, vi è anche un sentimento più profondo: la coscienza di una pace, di una tranquillità dello spirito che soltanto la contemplazione della natura può dare. In solitudine, egli può intrecciare quell’intimo colloquio con Dio che sente a lui vicino. In un suo taccuino prima di comporre la Pastorale scriveva: “Onnipotente, nella foresta! Io sono beato, felice: ogni albero parla attraverso te, o Dio! Che splendore! In una tale regione boscosa, in ogni cima vi è pace, la pace per servire Lui. Nel bosco c’è un incanto. È come se in campagna ogni albero mi facesse intendere la Sua voce dicendomi: santo, santo. Chi mai potrà esprimere tutto ciò?”. La sinfonia è un meraviglioso inno alla natura. Personalmente non credo ci sia espressione musicale migliore per descrivere la primavera e la natura come ha fatto Beethoven nella sesta.

(Caspar Friedrich – Paesaggio con lago di montagna, mattino)

Alcuni credono che la sinfonia sia stata ispirata da Josephine Brunsvik. Beethoven si era per l’appunto invaghito della donna ma anch’ella, come la precedente, decide di mettere fine alla relazione con Ludwig per sposare un nobile.
Nel 1812 si innamora di nuovo, e di nuovo senza speranza. Scrive lettere appassionate ad una donna la cui identità è celata, rivolgendosi a lei come “amata immortale” (titolo di un altro film sul compositore). Proprio l’amata immortale diventerà uno dei più grandi misteri romantici del suo tempo.
Nel 1809 Beethoven ha trentanove anni e la sua sordità avanza inesorabile. Solo dieci anni prima era il miglior pianista di Vienna e adesso non è più capace di suonare il pianoforte; colleziona infatti una serie di pessime esibizioni che generano la derisione e il pettegolezzo fra i salotti viennesi.
“O uomini che mi reputate e definite astioso, scontroso, e addirittura misantropo, quanto siete ingiusti verso di me! Voi non conoscete la causa segreta di ciò che mi fa apparire. Pur essendo nato con un temperamento ardente e vivace, incline perfino alle attrattive della società, sono stato presto obbligato a isolarmi e a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato respinto dalla triste esperienza della mia debolezza d’udito. Non riuscivo a dire alla gente: parlate più forte, gridate, sono sordo. Come potevo infatti confessare la debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri?”.
Decide di abbandonare il pianoforte in pubblico per dedicarsi interamente alla composizione.
Nell’autunno del 1811 si innamora della bella ma cagionevole Antonie Brentano; quest’ultima è anche la moglie di uno dei suoi migliori amici. E nonostante la malattia della giovane, Beethoven va spesso a trovarla. Fa sistemare nella sua camera un pianoforte che suona per lei. E i due alla fine si innamoreranno davvero. La maggior parte degli studiosi pensa che l’amata immortale sia proprio la Brentano. Nel giro di un anno la loro relazione finisce. La donna oltre che essere sposata e madre di quattro figli, è una nobile e quindi lontana dalla classe sociale del compositore. Ancora una volta Beethoven deve affrontare l’ennesima delusione amorosa.
Per quanto Beethoven sia un uomo interamente passionale, e lo era davvero in tutto ciò che faceva (Goethe dirà di lui: “Non ho mai incontrato un artista così fortemente concentrato, così energico, così interiore”), più che l’amore fisico desiderava fortemente avere una famiglia, essere padre.
Tuttavia c’è un’altra possibile candidata ad essere l’amata immortale: la precedente fiamma Josephine Brunsvik. Infatti nove mesi dopo che è stata scritta la lettera all’amata immortale (che fu scritta ma non fu mai inviata al destinatario; probabilmente perché Beethoven si vergognava di mettere a nudo i suoi sentimenti), la Brunsvik dà alla luce una figlia. Quest’ultima si rivela essere una capace pianista, e somiglia pure al celebre compositore.
Che fosse una donna reale o meno non lo sapremo mai, certo è che un’amata immortale sarà per sempre la musica.

Nel 1814 compone il Fidelio, l’unica opera lirica di Beethoven. Parla di un prigioniero politico liberato dalla buia e triste cella da una bella donna. Il Fidelio è uno degli atti di fede nell’umanità più toccanti mai stato creato da un’artista. Ed è questo lo scopo di Beethoven. Sarà portato in scena per la prima volta in occasione della conferenza di pace a Vienna. Le armate di Napoleone sono state sconfitte e l’opera diventa l’inno delle forze vincitrici. Richard Wagner anni dopo dirà di aver intrapreso la carriera di compositore dopo aver ascoltato il Fidelio.
Nonostante il grande successo, nel 1815 Ludwig si getta in una spinosa questione che rovinerà indelebilmente la sua immagine. Dopo la morte del fratello Kaspar scatena una feroce battaglia giudiziaria per ottenere l’affidamento del nipote di otto anni, anche se il testamento del fratello lascia la potestà alla madre. Beethoven è uno scapolo, fa le ore piccole, beve con sempre più frequenza; non è certo una figura paterna. Forse fu proprio per il pessimo rapporto che aveva avuto col proprio padre che cercò con ogni mezzo necessario di diventare lui un nuovo padre per il nipote. Voleva sottrarlo al controllo della madre da lui giudicata indegna e pericolosa, e spera finalmente di ottenere giustizia dal tribunale. Quale tribunale? Naturalmente il Landrecht, il tribunale privilegiato incaricato di dirimere il contenzioso della nobiltà. Ma il tribunale, dopo aver esaminato l’incartamento, lo rigetta, e trasferisce la causa al Magistrato civile della Municipalità di Vienna, incaricato di occuparsi di tutto quanto riguarda la borghesia e il popolo. Ma come è possibile… il “van” premesso al cognome non è forse un titolo di nobiltà? Beethoven confessa all’amico Karl Bernard, un giornalista che in quel periodo gli è molto vicino, che il “van” non è di nobili origini. “Beeth” significa bietola, “hoven” fattoria, coltivazione. Tuttavia la famiglia è di origine fiamminga e quindi si mischiava perfettamente ai cognomi della nobiltà olandese. Dopo questo scandalo sarà deriso ed umiliato. La battaglia legale va avanti per cinque anni con grande dispendio economico, tuttavia alla fine Ludwig ne esce vittorioso. Karl va a vivere con lo zio, ma il rapporto sarà snervante per entrambi.
Il più famoso compositore vivente gira ora come un vagabondo per le strade, incurante di ciò che la gente pensa di lui. Gli amici lentamente lo abbandonano per il suo carattere divenuto insostenibile; i bambini per strada gli tirano pietre addosso; gli affittuari lo cacciano da un appartamento all’altro.
Nella sua esteriorità Beethoven mostra tutto il suo disordine, ma nella sua testa la musica continua a suonare ordinata, chiara e precisa.
Nel 1823 ammetterà di aver ritrovato se stesso abbracciando la fede cristiana. Si era sempre ritenuto un credente in Dio senza mai credere nella Chiesa. Dopo aver studiato con dedizione la musica sacra, compone la celebre Missa Solemnis, un’opera che trasformerà i suoi travagli in trionfi.
Nel 1824 completerà quella che risulterà essere la sua opera più famosa, la nona sinfona. È un Beethoven che ancora una volta ha saputo emergere dal baratro. E ne è uscito vincitore. Al di sopra di tutti. Componendo una delle musiche più belle, e l’ha fatto completamente sordo. Dedicata al re di Prussia Federico Guglielmo III, è la prima sinfonia in cui sia mai stato utilizzato un coro. Per il finale utilizza infatti i versi dell’ “Inno alla gioia” di Johann Schiller, un inno alla fratellanza di tutti i popoli. La nona sinfonia è la prova di come Beethoven credesse davvero nella fratellanza di tutti, in comunione con Dio.
Durante la prima esecuzione dell’opera, Beethoven non può sentire gli applausi e le ovazioni del pubblico. Il contralto Caroline Unger è costretta a farlo girare per vederlo quel trionfo, sebbene non possa più sentirlo. Tutta quella gente che negli ultimi anni lo aveva disprezzato era lì, plaudente. Aveva nuovamente vinto.

(Frontespizio prima edizione della nona sinfonia)

Nel 1826 il nipote, ormai adulto, tenta il suicidio. In mancanza di Ludwig viene portato dalla madre perché lo assista. Ancora una volta scandalo; i demoni tornano a tormentarlo. Benché Karl si riprenda del tutto, a Beethoven riaffiorano i ricordi della sua infanzia travagliata.
Cercherà di comporre una decima sinfonia, ma il dolore è talmente forte che non riesce a completarla. Nel frattempo però scrive la “Grande Fuga”, talmente ardua per gli esecutori contemporanei, come pure inaccessibile e impopolare per la maggior parte del pubblico, che per una volta Beethoven mise da parte la sua caparbietà venendo in contro all’editore che gli chiese di pubblicare la fuga come un’opera a parte. Un aneddoto racconta che quando la composizione fu eseguita per la prima volta, il pubblico acclamò il bis soltanto per i due movimenti centrali del quartetto. Beethoven, furioso, fu sentito lamentarsi: “E perché non il bis della fuga? Quella soltanto dovrebbe essere ripetuta! Gentaglia! Asini!”. Che Beethoven abbia sempre saputo dividere i giudizi delle sue opere era all’ordine del giorno. Non esiste il grazioso in Beethoven: o ne sei contrariato, o ne sei investito dalla bellezza. La Grande Fuga sarà bocciata da Daniel Mason e Louis Spohr; Stravinskij dirà: “Il perfetto miracolo di tutta la musica. Senza essere datata, né storicamente connotata entro i confini stilistici dell’epoca in cui fu composta, anche soltanto nel ritmo, è una composizione più sapiente e più raffinata di qualsiasi musica ideata durante il mio secolo. Musica contemporanea che rimarrà contemporanea per sempre”. Mi permetto di dire che Mason e Spohr non sono Stravinskij.
Il 22 marzo 1827 riceve l’estrema unzione. Il 26 marzo mentre sta infuriando una tempesta, Beethoven alza il pugno in direzione della tormenta, dopodiché muore. Anche negli ultimi istanti di vita voleva dimostrare di avere ancora tanto per cui combattere. E se nel suo spirito vi era questo sentimento, il corpo era giunto al suo capolinea.
Nelle sue ultime volontà lascerà tutto al nipote Karl che ormai lo aveva abbandonato.
Dopo pochi istanti dalla sua morte, alcuni scultori fanno una maschera funeraria. Gli esecutori testamentari gli tagliano tutti i capelli per venderli all’asta agli estimatori.
Quasi la totalità dei presenti al suo funerale non capivano nulla di musica. Eppure erano lì per Beethoven. Perché era stato un eroe e un rivoluzionario. Mozart per tutta la vita si è circondato di persone. Alla sua morte non c’era nessuno, ed è finito in una fossa comune. Beethoven ha vissuto solo e per tutta la vita è stato allontanato nei rapporti umani (musica a parte). Quando è morto al suo funerale erano presenti ventimila persone.
Non era stato un Mozart 2, era stato il perfetto compositore con i mezzi che Dio gli aveva concesso. Non avrebbe potuto essere più di questo. È il simbolo della musica.
Il talento è ciò che un uomo possiede; il genio è ciò che possiede un uomo. Beethoven era un posseduto. La reazione a tutti gli eventi nefasti che avevano fatto parte della sua vita è stupefacente. Perdita dell’udito, maltrattamenti fisici, delusioni amorose, derisioni pubbliche. Ma la sua passione, oltre che cambiare la musica per sempre, gli salverà la vita.
È riuscito ad elevarci spiritualmente, perché aveva attraversato l’inferno. Beethoven è immortale.