tratto da: Corrispondenza Romana
di Tommaso Scandroglio
Al liceo Zucchi di Monza, il 10 novembre scorso, è andata in scena – è proprio il caso di dirlo – un’iniziativa promossa dagli studenti che ha preso il nome di Zucchingonna: gli studenti maschi, insieme alle loro compagne, hanno seguito le lezioni indossando una gonna «per manifestare il desiderio di vivere in un luogo in cui sentirsi liberi di essere ciò che si è e di non essere definiti dai vestiti che si indossano». Lo slogan che ha accompagnato l’iniziativa, alla sua seconda edizione, è in piena sintonia con il politicamente corretto: “Siamo contro la sessualizzazione del corpo” e la “mascolinità tossica”.
Sui social gli studenti hanno spiegato: «Le gonne sono considerate un indumento tipicamente femminile, spesso al centro di scambi di idee riguardo al loro essere appropriate rispetto al contesto, in particolare quello scolastico. Se è un uomo a portare la gonna la cosa è spesso considerata riprovevole, poiché visto come capo ‘poco mascolino’ e da ‘donna’». Federico Contini, uno dei rappresentanti d’istituto, aggiunge: «Vogliamo mettere fine a tutti quegli stereotipi di cui spesso si sente parlare. Spesso si sente commentare l’abbigliamento delle ragazze come se il loro modo di vestire fosse una continua provocazione, non deve essere così. Lo stesso vale per il concetto maschile ‘l’uomo deve essere forte, non può piangere’ questo è un atteggiamento sbagliato, anche i ragazzi possono essere fragili e devono potersi esprimere liberamente».
Accogliamo volentieri l’invito rivolto ai maschi di esprimersi liberamente articolando qualche riflessione a margine di questa iniziativa. In primo luogo è errato essere contro la sessualizzazione del corpo perché il corpo è sessualizzato ossia ha un suo sesso: o maschile o femminile. È un dato di fatto. Ogni ideologia – e la teoria gender è una di questa – ha un minimo comun denominatore che la lega alle altre: la volontà di non riconoscere il reale e di combatterlo. Non riconoscere la realtà sessuale biologica del corpo si inserisce in questa voluta cecità culturale.
In secondo luogo appuntiamo una discriminazione a danno degli uomini: se essere femmine è sempre un bene, essere maschi spesso non lo è. Perché l’uomo se fa l’uomo e non scade in derive misogine dovrebbe essere tossico? In realtà siamo nel pieno dell’onda lunga del femminismo radicale: è l’uomo in quanto tale ad essere sbagliato. Dunque femminilizziamolo, ad esempio mettendogli una gonna. Un abito che poi è quasi scomparso dal guardaroba delle donne, eccetto nella sua versione mini, per un semplice motivo: l’uomo deve farsi efebico, ma la donna per essere davvero donna deve mascolinizzarsi assumendo ruoli, psicologie, costumi e quindi anche abiti prettamente maschili. Quindi due pesi e due misure entrando poi in palese contraddizione: se l’uomo è tossico perché imitarlo? E poi come è possibile diventare davvero donna volendo farsi uomo che, genetica alla mano, è il suo opposto complementare?
Nel solco di questa contraddizione si inserisce il logoro giudizio secondo il quale «l’uomo deve essere forte e non deve piangere» è una espressione stereotipata e da cestinare. L’uomo per inclinazione naturale è chiamato ad essere forte – lo stesso dicasi della donna ma in modi diversi – e a nessuno dovremmo augurare di essere fragile, ma solido, compatto. L’uomo può anche piangere – nei Vangeli Gesù piange – ma non dovrebbe avvenire per fragilità, ma per un giustificato dolore che può provenire anche da una profonda sensibilità interiore che non contraddice il fatto di essere in possesso della virtù della fortezza. L’uomo e la donna forti usano della virtù della fortezza per incanalare e quindi innalzare ad alte vette la propria sensibilità. Il ritratto dell’uomo debole e fragile è nuovamente una modalità di femminilizzazione del maschio, una delle tante espressioni della cancel culture. In questo caso è il maschio che deve essere cancellato. Tra l’altro sono proprio i maschi fragili che spesso diventano i carnefici delle donne, perché laddove c’è debolezza di carattere la persona può diventare o vittima che non si ribella oppure carnefice che usa violenza. L’uomo forte non usa violenza proprio perché non ne sente bisogno, domina l’ira, le pulsioni e i problemi e non si fa dominare da questi, è capace di autocontrollo ed è portato a proteggere la donna. Quindi più renderete il maschio svenevole ed emaciato interiormente, più uomini violenti ci saranno. Maggior profumo di virilità verrà dall’uomo, meno donne abusate ci saranno.
In terzo luogo questa iniziativa del liceo Zucchi esprime plasticamente uno dei concetti di base della teoria gender: non esistono i sessi, il sesso è una costruzione autonoma dell’individuo ed è fluido. Quindi al bando le categorie “maschio” e “femmina”, al bando le definizioni. La definizione infatti rimanda a confini, barriere, limiti da superare perché nemici della libertà. Per paradosso si esalta la libertà come strumento per trovare e avvalorare la propria identità, ma così intesa – ossia la libertà è la volontà di abbattere o scavalcare ogni limite naturale – finisce per essere antagonista dell’identità, perché quest’ultima si pone sempre come “definizione” di un qualcosa che è separato da un altro qualcosa, come un perimetro che distingue un ente da un altro ente, che lo chiude, lo de-finisce rispetto al mondo, altrimenti tale ente sarebbe indefinito, indistinguibile, appunto liquido. Dunque tutta la semantica, anche nel campo della moda, che esprime una connotazione univoca maschio/femmina è da bandire, è uno “stereotipo” che castra il libero arbitrio del soggetto, perché lo confina in una definizione. Lo stereotipo, all’opposto, è proprio la teoria del gender perché reitera una menzogna: uomini e donne sono in tutto e per tutto uguali. Sono uguali per dignità, ossia per preziosità intrinseca, ma non lo sono fisicamente, psicologicamente, caratterialmente. Da qui il bello di connotarsi, di distinguersi sessualmente anche nell’abbigliamento. In questo caso il mantra “la diversità è ricchezza” chissà perché non vale.
Infine una considerazione di carattere psico-sociale. Mettiamo a confronto questi ragazzi con quelli del ’68. Entrambi portano avanti un messaggio rivoluzionario. I sessantottini scrissero alcune premesse (vedi la liberazione sessuale) portate a conclusione dai loro epigoni (la liberazione sessuale significa anche liberarsi dal sesso biologico). Dunque “padri” e “figli”, in questo senso, si trovano in perfetta continuità. Però esiste una differenza sostanziale. Allora si contestava un paradigma malaticcio, ma ancora abbastanza presente, abbastanza vissuto dalle persone: vi era sicuramente una certa e corretta sensibilità verso la vita, la famiglia, la sessualità. In breve vi era un paradigma antitetico verso cui opporsi: il famigerato “sistema”. Oggi la contestazione di questi ragazzi avviene con piena serenità nel sistema stesso tanto è vero che il preside, i genitori, i media sono tutti dalla loro parte. È una rivoluzione di velluto nel senso che è una rivoluzione comoda, senza rischi, senza spargimenti di sangue perché perfettamente allineata al mainstream, al politicamente corretto, a quegli stereotipi che invece loro per paradosso vorrebbero cancellare. Ed è una contestazione sicuramente vincente perché tutta la società ha ormai abbondantemente accolto i principi per cui quei ragazzi si sono messi la gonna. Quegli studenti quindi non sono nemici del “potere”, delle istituzioni (scuola, famiglia, governo) – come veniva asserito nel ’68 – bensì sono organici ad esse perché sia loro che “i grandi” hanno il medesimo sentire, marciano nella stessa direzione. Insomma la loro protesta è, nella prospettiva interna, alla fine innocua perché rovescia acqua sul bagnato, perché è come spingere un’altalena quando è in moto e non quando si arresta all’apice della sua corsa, perché è come aggiungere un mormorio alle grida di una folla urlante. Nella prospettiva esterna invece, ossia guardando la realtà con gli occhi di Dio e della Chiesa, tale iniziativa si pone come l’ennesimo tentativo di scardinare l’ordine naturale voluto dal Creatore ed è quindi da criticare.