Tratto da: Totalità.it
Il presule scomparso nella sua Bergamo, anche lui colpito dal coronavirus, sempre a fianco degli ultimi e degli ammalati. Un esempio di coerenza e di assoluta fedeltà ai principi cattolici.
di Domenico Del Nero
Voi non siete un uomo: siete un prete. Un prete non è un uomo: è qualcosa di meno …. O qualcosa di più. Dipende …
E’ l’ultimo Guareschi, autore che anche Don Savino Tamanza amava: negli ultimi anni amaro e disilluso, ma incrollabile nella fede. E il grande scrittore padano non avrebbe avuto dubbi: Don Savino era qualcosa di più, molto di più. E il virus se lo è portato via, nella sua Bergamo così duramente colpita, il 21 marzo scorso.
Chi, come chi scrive, ha avuto il privilegio di conoscerlo, di servire messa al suo fianco, di averlo come confessore e direttore spirituale, ricorda soprattutto la sua forza e la sua dolcezza. Ti faceva capire che il cristiano è un uomo in cammino, che non deve aver paura delle sue cadute ma nemmeno adagiarsi in esse: nessuno sconto al peccato, ma piena comprensione del peccatore.
La sua storia di sacerdote non era stata facile: dopo alcuni anni ad Ecône, nei seminari di Monsignor Marcel Lefebvre, il vescovo fedele alla Tradizione che oggi più che mai appare come un faro di luce nelle tenebre, don Savino non aveva completato lì la sua formazione, ma aveva conservato un profondo rispetto per la figura di monsignor Lefebvre; di lì il suo grande amore per messa tridentina, il suo celebrare sempre e comunque con il Canone Romano anche quando diceva la Messa del “Novus Ordo”
Padre Clementissimo, noi ti supplichiamo ….
Il suo modo di celebrare rivelava chiaramente che al primo posto c’era Dio. Che dicesse la Messa Tradizionale o celebrasse il ben più misero e ambiguo rito postconciliare, Don Savino riusciva sempre e comunque a far capire che non si era davanti al “presidente di una assemblea”, come a volte viene oggi definito il sacerdote, né difronte allo show di un prete da karaoke o altre “amenità” a cui ci tocca talvolta assistere: uno dei suoi motti preferiti era Instaurare omnia in Christo (S. Pio X) e lo si vedeva benissimo. Assistere a una sua messa voleva dire veramente sentirsi toccare dalla Grazia e alzare lo sguardo verso il Divino: era solo uno strumento del rito, ma uno strumento che ti apriva le porte del Cielo. La dolcezza, la dignità, l’affettuosa cura con cui pronunciava ogni parola – soprattutto della consacrazione – erano una delle tante prove della sua indubbia Fede che riusciva davvero a comunicare a chi gli stava vicino.
Portò sempre con umile fierezza la sua divisa: l’abito talare, che non ha mai voluto sostituire con surrogati di qualsiasi sorta; del resto in gioventù era stato tra gli Alpini e per lui rispettare la divisa e la bandiera era prima che dovere uno stile di vita; a maggior ragione dopo la svolta sacerdotale, a cui era arrivato in età matura: nato nel 1946, ebbe la vestizione religiosa il 2 febbraio 1978 a Ecône.
In seguito era approdato nel seminario vescovile di Massa: la diocesi era allora retta da un vescovo buono e saggio, che non si era lasciato contaminare più di tanto dalle ubriacature moderniste: Monsignor Aldo Forzoni, che accolse fraternamente Don Savino e altri suoi confratelli e a cui il nostro sacerdote fu sempre grato e intimamente legato, anche durante i lunghi anni della malattia del presule, colpito da un ictus sin dal 1982. Ebbe l’ordinazione sacerdotale nel 1984 e fu incardinato nella diocesi di Massa Carrara: finì in un piccolo borgo alla porte di Massa, S. Eustachio, ma questo non gli impedì certo di svolgere al meglio la sua missione, sia per la popolazione locale, sia per gli amici che andavano a trovarlo sia per chi si recava lì per conoscerlo e ascoltarlo.
Da alcuni anni era tornato nella sua Bergamo, per stare vicino alla madre molto anziana e si è trovato coinvolto nel ciclone dell’epidemia. I ricordi e le necrologie ricordano il suo impegno a fianco degli ultimi, degli emarginati, degli ammalati; e proprio il voler stare vicino fino all’ultimo a chi ha particolarmente bisogno di un conforto spirituale prima che fisico è probabile che lo abbia portato a concludere la sua giornata terrena, in questi giorni in cui questo conforto è tanto più necessario quanto poco praticato. Ricordo come, già a S. Eustachio, aprisse con grande generosità la sua porta a chiunque cercasse il suo aiuto, anche personaggi che a volte sembravano in realtà volersi approfittare di lui: “Un sacerdote non può assolutamente scegliere chi aiutare e chi no” rispose una volta a una mia osservazione in quel senso.
Bonum Certamen Certavi, ho combattuto la buona battaglia: sicuramente Don Savino, giunto davanti a Dio, può far sue le parole di San Paolo; una battaglia che affrontava veramente in tutti i campi, reali e virtuali, compreso Facebook dove postava instancabilmente materiali “controcorrente”, come la difesa di sacerdoti ingiustamente perseguitati per aver fatto il loro dovere o le battaglie per quei “principi irrinunciabili” come l’aborto, a cui oggi sin troppo clero rinuncia senza il minimo problema.
Insomma: un padre Cristoforo in un mondo di Don Abbondio e lo ha dimostrato sino all’ultimo giorno della sua vita. Sempre amando quella Chiesa che per lui forse a volte è stata più matrigna che madre, ma Don Savino era ben capace di guardare oltre l’aspetto umano e sapeva che il vero capo non era di questo mondo. Mi piace chiudere con un altro ricordo personale, piccolo ma significativo: gli avevo tempo fa sottoposto un mio articolo a carattere religioso. Tra le sue osservazioni, mi colpì in particolare questa:
“Piccola osservazione: Chiesa si scrive con la C maiuscola quando è riferita al corpo mistico di Cristo.” Già, con la C maiuscola, verissimo. Ed ora quella Chiesa con la maiuscola lo ha sicuramente accolto tra i suoi Santi: “ In Paradisum deducant te Angeli;in tuo adventu suscipiant te Martyres …
Siamo noi però ad avere bisogno di persone così: perché come ricordava Guareschi, un prete, quando è veramente tale, è più che un uomo.