(di Alfredo De Matteo) Sono trascorsi ormai quasi quarantuno anni dall’entrata in vigore della legge 194/1978 che ha legalizzato l’omicidio dell’innocente nel grembo materno e che ha causato la morte, finora, di oltre sei milioni di persone. Eppure, essa continua a godere di un certo pregiudizio positivo soprattutto in ambito pro-life,anche da chi tende comunque a giudicarla una norma iniqua.
Per costoro la 194 è costituita da due parti separate e distinte, quasi a formare altrettanti differenti corpi normativi: una negativa che regolamenta l’aborto volontario e l’altra positiva che indica delle possibili alternative all’aborto stesso. In particolare, gli articoli 1 e 2 della legge conterrebbero delle disposizioni tese a limitare gli aborti e ad aiutare le madri in difficoltà, che sarebbero rimaste in larga parte disattese, ossia non applicate.
Tale tesi è emersa chiaramente anche nel Congresso Mondiale delle Famiglie che si è appena concluso. Massimo Gandolfini, il leader dell’evento che ha suscitato molte polemiche per via della presenza di numerosi politici e per il patrocinio concesso dal ministero della Famiglia, ha dichiarato che «in Italia, dal 1978 ad oggi, sono stati uccisi sei milioni di bambini (…) Noi diciamo che la legge 194 va applicata tutta. Voglio ricordare che dagli anni 70 ad oggi sono stati salvati 200.000 bambini grazie ad associazioni finanziate con la beneficenza, mentre lo Stato non ci ha messo un euro (…) Dico ai politici: finanziate i primi 5 articoli della legge 194».
Sulla stessa lunghezza d’onda gli interventi dei politici intervenuti al convegno i quali hanno sostanzialmente ribadito che la 194 va applicata soprattutto nella prima parte, che parla di tutela della donna e della gravidanza.
È sempre nell’ottica di una sostanziale accettazione dell’attuale legislazione che va inquadrata la proposta di legge presentata dalla Lega che mira a riconoscere la soggettività giuridica e l’adottabilità del concepito, al fine di contrastare l’aborto volontario. Stefani, il primo firmatario del disegno di legge approdato alle commissioni riunite giustizia e affari sociali il 15 marzo scorso, ha dichiarato al Corriere che «la libertà della donna di abortire non viene toccata ma viene data una possibilità in più alla donna», mentre per Alberto Gambino, giurista e presidente di Scienza & Vita, «l’idea rappresenta una valida alternativa all’aborto che non può che essere presa in considerazione da chiunque abbia a cuore la vita nascente e la stessa salute psico-fisica della madre».
In realtà, provvedimenti del genere, seppur affatto negativi, rischiano di aggravare le conseguenze dell’aborto anziché mitigarle; alla base vi è infatti la sostanziale accettazione della legge 194 che rappresenta la causa prima del dilagare degli aborti, della mentalità abortista ed eugenetica imperante e dello sfaldamento della famiglia, assieme ad altre leggi inique come quella sul divorzio.
La legge 194 nacque in un contesto storico che vide da una parte schierati i fautori della libertà di scelta della donna con a capo il partito radicale e i movimenti femministi ed anticristiani, dall’altra la Chiesa Cattolica e parte della società civile a favore della difesa della vita innocente. Le menzogne dei radicali sul numero di donne morte in seguito agli aborti clandestini, amplificate dagli asserviti mass media, unite ad un generale progressivo allontanamento della società italiana dai valori naturali e cristiani sotto la spinta della rivoluzione sessuale e culturale, indussero l’allora governo democristiano guidato da Giulio Andreotti, alle prese con gravi problemi di tenuta politica, ad accogliere in toto le richieste degli abortisti, avendo cura di occultare le vere intenzioni del legislatore.
Il risultato fu il varo della 194, una legge profondamente ipocrita che, di fatto, ha trasformato un delitto in un diritto insindacabile della donna. Per rendersi conto della natura perversa della 194 basta prendere in esame l’articolo 1 della legge in cui è scritto che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite».
Come può una norma pensata per legittimare l’uccisione dell’innocente nel grembo materno voler al contempo tutelare la vita umana dal suo inizio (quale?) e riconoscere valore sociale alla maternità invero negata dall’introduzione dell’abominevole pratica dell’aborto a semplice richiesta? Del resto, le statistiche sull’attuazione della legge 194 dimostrano che l’aborto è usato principalmente come mezzo di controllo delle nascite e non certo perché la legge è stata disattesa ma come inevitabile conseguenza dell’elevazione a dogma del pseudo principio di autodeterminazione femminile.
Il vero problema è che all’indomani dell’approvazione della sciagurata legge 194 il Movimento per la vita italiano e le gerarchie ecclesiastiche scelsero di abbandonare una linea di opposizione chiara e netta per intraprendere la via del dialogo e del compromesso, della rinuncia alla battaglia sui principi e sulle idee. Tale scelta strategica si è rivelata un completo fallimento, non solo perché la cultura della morte è avanzata senza incontrare ostacoli ma anche perché il tema aborto è progressivamente sparito dal dibattito politico e culturale.
Tuttavia, in questi ultimi anni il dibattito intorno all’aborto ed in particolare alla legge 194 è parzialmente emerso dall’oblio culturale e mediatico in cui era stato relegato. Appuntamento dunque al prossimo 18 maggio per la IX edizione della Marcia per la Vita che rappresenterà come di consueto una grande occasione per ribadire con forza che la legge 194 non va in alcun modo migliorata, né rivista, né applicata meglio ed in tutte le sue parti. Ma solamente abrogata. (Alfredo De Matteo)