L’attuale Governo e, in particolare, la Lega di Matteo Salvini vanno sempre più caratterizzando la loro immagine con il motto: «Prima gli italiani!». E moltissimi prelati ed alti prelati italiani sono insorti, sostenendo che il principio è contrario al comandamento divino di amare il proprio prossimo come se stessi, in quanto discrimina tra fratello e fratello: tutti, secondo questa dottrina, devono essere destinatari dello stesso amore e non è lecito preferire gli uni a discapito degli altri; se è proprio una distinzione deve essere fatta, allora è obbligatorio scegliere il più bisognoso, secondo la nota teoria della «opzione preferenziale per i poveri», che pare caratterizzare, se non monopolizzare, i documenti ecclesiali seguiti al Concilio Vaticano II. Ma è proprio vero che il bisogno genera il diritto e, soprattutto, ingenera automaticamente nel prossimo un obbligo di aiuto?
È assolutamente vero che l’amore verso il prossimo è comandamento sommo, secondo solo all’amore verso Dio, tanto che Nostro Signore Gesù Cristo ci dice che in questi due amori è racchiusa e sintetizzata tutta la Legge: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»[1]. E, per chiarirci chi sia il nostro prossimo, Gesù narra la parabola del buon samaritano: prossimo è qualunque uomo, anche se appartenente ad un altro popolo, anche se seguace di una religione eretica. Parrebbe proprio che abbiano ragione i vescovi. Ma non è esattamente così.
Per amore di Dio (e solo per amore di Dio), bisogna amare, come dicevamo, tutti gli uomini, senza distinzioni, persino i nostri nemici e coloro che compiono le più atroci nefandezze, anche ai nostri danni. Questo, però, non significa che abbiamo il diritto e, tanto meno, il dovere di trattare tutti nello stesso modo e di avere il medesimo atteggiamento nei confronti di tutti.
Innanzitutto, vengono i doveri di giustizia, che non possono venire sacrificati a nessun dovere di carità. La giustizia è tutta racchiusa nell’antico brocardo latino «Unicuique suum tribuere» (dare a ciascuno il suo). I doveri di giustizia creano, in capo alla persona verso cui li abbiamo, un diritto all’adempimento: non solo si è tenuti ad adempierli, ma il beneficiario ha diritto a pretendere che noi lo facciamo. Non così i doveri di carità, che non generano alcun diritto in capo al beneficiario, proprio perché essi sono doveri di giustizia nei confronti di Dio, che rimane l’unico a poterne pretendere l’adempimento.
I doveri di carità, poi, sono graduati e gerarchizzati. Innanzitutto, ovviamente, vengono i doveri di carità verso Dio, che, di fatto, sono doveri di giustizia, perché Gli è dovuto tutto l’amore di cui siamo capaci: tutto ciò che siamo, tutto ciò che possiamo divenire, tutto ciò che abbiamo, tutte le nostre energie, tutto il nostro tempo, tutta la nostra mente e tutto il nostro cuore Gli appartengono e tutto ciò che possiamo fare per Lui è sempre e solo parziale adempimento del debito che abbiamo nei Suoi confronti.
Vengono, poi, i doveri nei confronti delle persone che l’Onnipotente ci ha affidato. In primo luogo, i familiari: figli, coniuge, genitori. Qui il confine tra i doveri di giustizia e quelli di carità si fa molto sottile, ma, anche una volta adempiuti tutti i doveri di giustizia, i doveri di carità, nei loro confronti e nei confronti della famiglia nel suo insieme e come istituzione, sono assolutamente primari rispetto a quelli nei confronti di ogni altro essere umano.
Dopo i familiari vengono gli amici e tutti coloro verso i quali, per qualunque ragione ed a qualunque titolo, abbiamo delle responsabilità. Rientrano in questa categoria anche i doveri verso la Patria, nei quali la distinzione tra quelli di giustizia e quelli di carità si fa più netta, rispetto a quanto non sia per i doveri nei confronti della famiglia, ma conserva vaste zone di labilità. Per quanto concerne i doveri verso i connazionali e verso la Nazione, essi si differenziano fortemente in relazione al ruolo pubblico che ciascuno ricopre: maggiore è il ruolo che si ricopre e, ovviamente, maggiori sono i doveri di carità che si è tenuti ad avere nei confronti della Patria e dei compatrioti; sommi, questo riguardo, sono i doveri di carità del sovrano e, più in generale, di ogni governante, ma questo principio si applica anche nei confronti di chiunque abbia, anche solo di fatto, ruoli di prestigio e di autorità.
Al fondo di questa scala ideale, stanno tutti gli altri uomini, verso i quali i doveri di carità variano a seconda delle infinite circostanze in cui possa trovarsi ciascuno. Fatte salve alcune “vocazioni”[2] particolari, i doveri di carità nei confronti di queste persone si riducono al giusto impegno ad evitare i peccati di omissione: se mi si presenta un’occasione di bene, il cui adempimento, ovviamente, non comprometta quello di doveri maggiori, sono tenuto, nei limiti del possibile e della ragionevolezza, a non «girarmi dall’altra parte». Ma non sempre prendersi a cuore la situazione significa prestare soccorso a chi si trova in stato di bisogno e, soprattutto, non sempre significa farlo come egli ritiene opportuno e/o desidera, poiché si ha sempre il dovere di valutare gli effetti del nostro comportamento, evitando che l’assecondare un nostro impulso emotivo del momento possa fare più male che bene.
Tutto ciò premesso, consegue che un governante è assolutamente tenuto, nella sua attività pubblica al servizio della Patria, a privilegiare i propri connazionali rispetto ad ogni altra persona. Nei loro confronti ha, innanzitutto, dei doveri di giustizia, derivanti dal suo ruolo all’interno della Nazione: ricoprire ruoli di potere implica di doverli esercitare per il bene comune, nell’interesse della giustizia e della Patria; tali doveri sono principalmente ed essenzialmente nei confronti di coloro sui quali tale potere si esercita e non nei confronti dell’universo mondo. È di ogni evidenza che questo principio non giustifica violenze ed iniquità nei confronti di non cittadini, ma significa che l’attività di governo deve avere come beneficiari diretti coloro che sono governati e solo conseguentemente il resto dell’umanità, che ha tutto da guadagnare da Nazioni ben amministrate.
Il motto «prima gli italiani!», lungi dal contraddire i principi della carità fraterna, come sarebbe potuto sembrare a prima vista, li incarna pienamente; potremmo, anzi, dire che ne è una brillante sintesi. È un motto particolarmente equilibrato, perché, da un lato, antepone gli interessi dei connazionali e della collettività nazionale tutta a quelli del resto dell’umanità, ma, dall’altro, sottolinea la non esclusività della cura degli interessi della Patria, sottintendendo chiaramente che i nostri governanti intendono sovvenire, sia pure in maniera subordinata rispetto agli italiani, anche ai bisogni degli stranieri, evitando quegli eccessi di nazionalismo egoistico, assolutamente incompatibili con l’universalismo cattolico.
Mi permetto di sottolineare, incidentalmente, come non esista alcun diritto soggettivo all’immigrazione e come, su questo tema, il primario dovere dei governanti di uno Stato sia quello di tutelare le proprie frontiere e di ribadire con la massima fermezza il principio secondo il quale lo straniero che desidera, per qualunque ragione, entrare nello Stato deve, previamente, ottenerne l’autorizzazione dalle legittime autorità competenti. Come il bisogno non autorizza all’occupazione violenta di immobili altrui, così non autorizza all’immigrazione selvaggia, il cui contenimento, fino, si spera, alla sua totale repressione, rappresenta un principio d’ordine e di armonica convivenza tra i popoli e, conseguentemente, uno strumento fondamentale per il mantenimento della pace.
Che la quasi totalità dei Pastori si ostini a non voler vedere ed a non voler comprendere i principi così elementari di morale cattolica mostra fino a che punto sia giunta la crisi della Chiesa.
[1] Mt 22,37-40.
[2] Il termine «vocazione» indica, in senso stretto, la chiamata soprannaturale di Dio al sacerdozio e/o alla vita religiosa. In questo caso viene utilizzato nel significato più generico di chiamata, da parte di Dio, ad una missione, anche umana e terrena.
fonte : Europa Cristiana