di Giovanni Tortelli
Quando un saggio storico si legge come un romanzo, vuol dire che quel saggio ha raggiunto l’equilibrio perfetto di strumento di qualità culturale superiore, fruibile però anche da un pubblico vasto. La qual cosa significa poi che la cultura è ben più che secca erudizione per specialisti.
Il prezioso saggio di Gianvito Armenise (Gianvito Armenise, Giuseppe Mario Arpino. Il diplomatico di Ferdinando II di Borbone, Solfanelli, Chieti 2021), frutto di una documentatissima ricerca storico-archivistica sul diplomatico e giurista Giuseppe Mario Arpino centra perfettamente il bersaglio di strumento di ricostruzione e di indagine culturale di prim’ordine, e nello stesso tempo di affascinante racconto di quegli abili e integerrimi alti funzionari di Stato che, come Arpino, fecero grande il Regno del Sud su cui riposava quella Borbonia felix il cui rimpianto giunge fino ai giorni nostri.
La storia di Giuseppe Mario Arpino – nato a Modugno, nell’immediato entroterra barese, l’8 settembre 1804 ed avviato ad un cursus honorum che lo vide laurearsi in giurisprudenza all’Università di Napoli e da lì prendere il volo verso le più alte cariche dello Stato fino alle soglie della nomina a ministro degli Esteri del Regno delle Due Sicilie, che solo la morte improvvisa gli negò all’ultimo momento – diventa, con l’abile penna di Armenise, una ricostruzione del personaggio e della sua epoca, ricchissima di informazioni storiche, archivistiche e d’ambiente.
Armenise non si è limitato solo a cesellare un cameo intorno alla figura di Giuseppe Mario Arpino, ma ha sapientemente collocato questa importante personalità in uno scacchiere più ampio, dimostrandone i collegamenti e la statura di livello internazionale.
Giuseppe Mario era cresciuto in un ambiente familiare dove, come si direbbe oggi, si «faceva politica», però secondo un’ispirazione filoliberale e filogiacobina. Agostino, il padre di Giuseppe Mario, commerciante di panni, era nativo di Vico Equense ma si era poi trasferito a Modugno, sull’«altro mare», l’Adriatico, a più di trecento miglia di distanza dalla terra natale. A Modugno, Agostino figura nell’elenco dei sindaci ma anche degli affiliati alla carboneria modugnese, e forse per questo motivo – in un periodo di forte contrapposizione coi sanfedisti – dovette trasferirsi di nuovo a Napoli, avendo l’opportunità di ricongiungersi al figlio in via di addottoramento in quell’Università.
Fin dalle prime pagine si nota come Armenise inserisca pianamente ed efficacemente la storia locale di una famiglia nella Grande storia. Tutto il saggio è costruito con queste incursioni che dal particolare ci portano al quadro d’insieme, facendo capire al lettore che la Grande storia si basa non solo sui grandi eventi, sulle grandi battaglie, sulle rivoluzioni o sui moti di popolo ma anche sulle piccole storie familiari.
Arpino era un uomo d’altri tempi anche per allora, fedelissimo al Re e al Regno delle Due Sicilie fino allo scrupolo, quando noi oggi vediamo invece come, in un sistema consociativo di una democrazia falsa e impossibile, la fedeltà – soprattutto in politica – sia ormai un valore desueto. Arpino riuscì a conservare anche nella sua veste di uomo pubblico quella sobrietà e morigeratezza che aveva nella vita privata, qualità che furono apprezzate sia nella sua veste di giudice della Corte dei conti del Regno, sia nella sua veste di diplomatico apprezzato e stimato anche dalle Corti straniere dove ebbe a svolgere prestigiosi incarichi per conto del suo Sovrano.
Arpino divenne uomo di Stato qualche decennio dopo che il toscano Bernardo Tanucci, illuminista e anticattolico e influentissimo Segretario di Stato, prima di Re Carlo VII e poi di Re Ferdinando IV, aveva posto le basi per una riforma laica e modernista del Regno, intaccando – ma solo nominalmente – il potere baronale sulle terre infeudate, e limitando seriamente i privilegi della Chiesa.
Armenise spiega in modo assolutamente chiaro e storicamente esatto uno dei problemi che saranno alla base della “questione meridionale”: il latifondo e il potere dei baroni sulle terre concesse loro in feudo ab antiquo. In realtà si trattò di uno scontro di poteri: da un lato le baronie che imponevano tasse e gabelle a pastori e contadini che volevano esercitare gli usi civici di coltura, raccolta dei frutti e pascolo sulle loro terre. Dall’altra il Re che, col suo potere demaniale su una porzione più ristretta di quelle terre, le concedeva liberamente a contadini e pastori per gli stessi usi. Si trattava di una questione di politica economica che sfociava però nella politica sociale dando luogo a forti attriti.
Un conflitto destinato a perdurare nel tempo sotto i regni di Ferdinando IV, Francesco I e Ferdinando II. Un conflitto che la propaganda nordista da Garibaldi in poi pensò di liquidare appunto con la vuota formula di «questione meridionale» considerandola sprezzantemente un retaggio medievale e non invece una seria questione economica tout-court da affrontare e risolvere. Infatti i governi nordisti ebbero a sottostimarla e a rinviarla alle successive politiche dilatorie dello Stato unitario.
Ebbene, tutto questo per dire – come dice e prova, documenti alla mano, Armenise – che il nostro Giuseppe Mario Arpino fu nominato nel 1848 “Gran Consigliere della corte de’ Conti, destinato in missione al disimpegno della (…) contabilità”, quindi con mansioni di luogotenenza delle Finanze al di là del Faro, cioè dislocato a Palermo e in Sicilia col delicatissimo compito di intervenire proprio sulla vexata quaestio dei diritti baronali che proprio in Sicilia, più ancora che nel Regno di Napoli, erano questione spinosa e attuale. L’Autore non esita di parlare al riguardo di una sorta di «protomafia» nata all’insegna di questi diritti baronali e latifondisti, avvertita già come pericolo dal Sovrano e pertanto deciso a limitarla, se non a sradicarla, grazie all’opera di un integerrimo giudice come Giuseppe Mario Arpino. Il quale subì anche una campagna di stampa avversa e denigratoria in perfetto stile «repubblicano».
Fu in Sicilia che Giuseppe Mario Arpino ebbe il primo confronto con un giovane, disinvolto, squattrinato Francesco Crispi, futuro presidente del consiglio dell’Italia unita.
La notevole penna, e l’esperienza ex professo di economista di Gianvito Armenise, mettono in evidenza l’assoluta mancanza di scrupoli civili e morali del giovane Crispi quando ebbe la capacità di costituire un’agenzia esattoriale privata e parallela a quella statale: insomma una vera e propria truffa erariale ai danni del Regno. Così si mettevano le basi dell’Italia unita.
A Palermo, il nostro strinse legami ancor più stretti con gli ambienti borbonici dell’Isola e fu a Palermo che conobbe la futura moglie, Maria Cristina Anselmo, fra l’altro una fine poetessa nonché nipote per parte di madre del famoso pittore Giuseppe Velazquez e figlia di un collega di Giuseppe Mario alla Corte dei Conti di Palermo.
Una donna fedele, anche dopo la morte del marito, certamente un’intellettuale che cercò rifugio a Firenze negli ultimi anni della sua pur breve vita. Anche a proposito del trasferimento di Maria Cristina a Firenze dopo la morte del marito, Armenise presenta delle ipotesi che offrono uno spaccato interessante della società del tempo e dei rapporti fra le vaie Case Regnanti.
Non c’è dubbio che il capitolo più interessante riguarda l’attività diplomatica svolta da Giuseppe Mario Arpino, a dimostrazione, fra l’altro, dei rapporti internazionali intrattenuti dal Regno delle Due Sicilie con le altre Potenze, la Gran Bretagna, la Russia e gli Stati Uniti. Tutt’altro dunque che un Regno chiuso nei suoi confini, come la propaganda unitaria massonica e progressista ha sempre cercato di farlo passare.
Fin dalla fine del Settecento, gli Stati uniti d’America in particolare si erano mostrati solleciti verso la Corte borbonica per trovare degli accordi di carattere commerciale. Questa sintonia d’intese fra gli Stati Uniti e il Regno di Napoli aveva peraltro subito un brusco arresto a causa della politica di Murat il quale nel 1809 era addirittura intervenuto con atti di sequestro di navi americane, innescando una grave crisi politica e diplomatica minacciata dall’incaricato d’affari americano Nelson su mandato del presidente Jackson. Una crisi che fu risolta solo nel 1832, dunque un ventennio dopo i sequestri delle navi da parte di Murat, quando gli americani ottennero un risarcimento per tali atti contro la loro libertà commerciale. Ciò servì naturalmente anche alla ripresa delle intese commerciali fra i due Paesi. Che, come ben documenta Armenise, non furono né facili né immediate, vista anche l’ostilità di Paesi concorrenti come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna. Fu quindi solo nel 1845 che si arrivò ad un vero e proprio trattato commerciale fra i due Paesi e solo nel 1853 il Regno delle Due Sicilie e gli Stati Uniti d’America stabilirono rapporti diplomatici stabili. È lo stesso incaricato d’affari americano che testimonia che le ultime difficoltà concernevano la richiesta statunitense di ottenere una cappella protestante per garantire la libertà di culto dei cittadini americani. Ferdinando II avrebbe preferito far naufragare l’intero trattato pur di accondiscendere e per questo l’opera di Giuseppe Mario Arpino si presentò subito come delicatissima. Tuttavia l’incaricato americano ebbe a riferire che Arpino era stato “il più grande uomo d’affari” con cui avesse avuto rapporti a Napoli e che “leggeva l’inglese con facilità”. Arpino riuscì a concludere la trattativa includendo nel trattato anche la previsione di una stabile linea di piroscafi fra Napoli e gli Stati Uniti, mentre furono per il momento accantonate le distanze circa la libertà di culto.
Meno di dieci ore dopo aver apposto la firma sul trattato, Giuseppe Mario Arpino moriva lasciando tutti nello sconcerto, compreso Owen, l’incaricato americano, il quale riconobbe subito che la morte di Arpino significava “una grave perdita pubblica”.
Fu “vera” morte naturale dovuta davvero a colera o ad arresto cardiaco come fu detto? Armenise ci lascia col sospetto circa la rivalità con l’Inghilterra che, a causa del trattato, vedeva perdere una gran fetta di profitti e di vantaggi col Regno delle Due Sicilie.
In un tempo particolarmente grigio come il presente, in cui il relativismo regna incontrastato in ogni luogo ma soprattutto nei santuari della politica e anche della scienza, considerata un tempo come “esatta”, ha ragione Mario Pagano che nella sua bellissima Presentazione al saggio di Gianvito Armenise non esita ad affermare che con questo saggio di storia locale si arriva direttamente “a passaggi dirimenti per la storia dello stesso Regno di Napoli” e che “Armenise si avvia “lungo percorsi di necessaria rivisitazione storica di alcune visioni per molto e troppo tempo considerate come inviolabili ed ideologicamente protette”, cioè l’altra faccia del relativismo, quando il relativismo – soprattutto quello storico – si fa arroganza e prepotenza culturale sulla genuina indagine storica.
Ci auguriamo che questo saggio sia il primo di una lunga serie e ringraziamo perciò Gianvito Armenise, autore di un gioiello d’indagine in forma di romanzo. Che non è davvero poco.