di Guido Scatizzi
La malattia del mondo non dev’essere la fatica ultima, in senso cronologico, di Francesco Borgonovo, il quale, da giornalista attento e sagace, si è già prodigato a chiosare ulteriormente sulle vicende in continuo mutamento di questo tempo sospeso. Ma La malattia del mondo è certamente il testo in cui il giornalista emiliano, si direbbe con il “pretesto” della pandemia, ha condensato le proprie considerazioni più alte e profonde, quasi a conferire loro l’organicità di un sistema.
Fin dall’incipit, infatti, la disamina delle cause e delle implicazioni del Covid-19 si allarga ad un piano più ampio, che chiama in causa il modello di sviluppo liberal-capitalistico sul quale è intervenuta l’epidemia e che, in qualche misura, insieme ad un individualismo globalizzato, ha dato origine alla stessa. «Il coronavirus origina, prima di tutto, dal superamento di un limite umano: invece di convivere il più armoniosamente possibile con le altre forze del creato, l’uomo va a provocarle come se fosse il loro padrone. […] Della natura noi uomini siamo, al massimo, i custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro ruolo, o quando tentiamo di farci “creatori” sostituendoci al “Creatore”, allora scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica» (p. 11). Da questa considerazione iniziale, il lettore è condotto a rileggere ed interpretare le dinamiche portanti della contemporaneità mediante la diade schmittiana terra/mare, che si rivela quanto mai adeguata a far emergere le contraddizioni insite nel presente, almeno da un recente passato.
Borgonovo denuncia, pertanto, l’imperante processo di destrutturazione dell’uomo, lodato e favorito dal mainstream,basato innanzitutto sulla resezione delle radici, su uno sradicamento che neutralizza ogni identità e che, in tal modo, rende fruibile quel che diviene un mero “capitale umano” a chi abbia le capacità (economiche prima di tutto) per disporne. Eppure, ricorda l’autore citando Giovanni Paolo II, «l’espressione “patria” si collega con il concetto e con la realtà di padre (pater). La patria […] si identifica con l’insieme di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri» (p. 86), un portato che ci qualifica e ci identifica, riempendo di significato la nostra memoria.
In ogni caso, la patria non è solo il luogo storico ed eloquente del passato, ma è anzitutto il perimetro entro cui si trova la casa, il cuore pulsante della dinamicità del presente, che patisce ad oggi lo stesso trattamento riservato alla terra dei padri. Abbattere la propria casa s’intitola il capitolo sesto e centrale del libro, a segnare il gorgo profondo in cui l’Occidente è sceso e che non sembra ancora deciso a risalire.
La terra, la casa, l’ambiente, mentre subiscono una violenta decostruzione, sono attenzionate, con ben altri presupposti, dall’ideologia ambientalista dominante, che ne fa degli idoli vuoti, disincarnati, funzionali soltanto alla imbalsamazione degli attuali modelli esistenziali e di sviluppo. «Ma che ambientalismo è quello che vuole l’estinzione dell’uomo? Non dobbiamo difendere la natura perché altrimenti moriremo. Dobbiamo farlo perché è uno dei nostri compiti. Non per egoismo, quindi, ma
per amore, per slancio vitale. E come può amare la natura chi vuole continuamente sovvertirla?» (p. 163). Questi drammatici interrogativi, tutt’affatto retorici, consentono all’autore di trascendere dal piano polemico dell’invettiva a quello filosofico della prospettiva: «La rivoluzione ecologica necessaria non può non tenere in considerazione l’essere umano. E per metterla in pratica c’è una sola via praticabile. […] Una via che ci costringe, nell’epoca della talassocrazia, a riprendere contatto con la Terra. La Terra come luogo in cui piantare radici, in cui costruire una casa, in cui creare una famiglia, e da lì una nazione. […] Senza la terraferma sotto i piedi non si può costruire alcuna casa che ospiti una famiglia. E la casa deve essere il punto di partenza della vera rivoluzione ecologica. […] La parola “ecologica”, infatti, deriva da oikos, che significa “casa”. Essere ecologisti, dunque, vuol dire aver cura della propria casa. […] Aver cura della casa significa, tra le altre cose, rispettare le tradizioni. Comprendere che l’essere umano ha un posto nel mondo. Non nell’ambiente, bensì nella natura, in quello che un tempo si chiamava “il creato”» (p. 164). Precisamente in queste pagine, in queste righe, si racchiude la pars costruens, la panacea alla “malattia del mondo”, che rappresenta certamente la sezione più originale del saggio, pullulante di felici riferimenti (Chesterton, Eliot, Giovanni Paolo II, Pound, Risé, Schmitt, Scruton, per citare i più ricorrenti).
Da questo orizzonte, veramente ecologico, che recupera in chiave propulsiva la terra e la casa, non può mancare la famiglia, anima del focolare e ad esso intimamente legata. È questa realtà originaria, ormai prossima a defungere, a racchiudere in sé tutto il potenziale ri-creativo necessario a far tremare il sistema neoliberista, che non può fare a meno di combatterla esattamente come tenta di distruggere le nazioni e la stabilità della casa. «La famiglia», spiega infatti Borgonovo, «è l’ultimo baluardo contro un sistema che mercifica qualunque aspetto della vita umana. La famiglia è il luogo del dono e della gratuità, dove i rapporti fra esseri umani non sono regolamentati da contratti commerciali e non si basano sull’interesse. […] Nel mondo neoliberista i figli si comprano o si fabbricano, non sono gratuiti. Gli individui, se stanno insieme, lo fanno per interesse o per potere. […] La famiglia è, di questi tempi, il solo argine all’isolamento, al trionfo dell’egoismo e del narcisismo» (p. 169).
Tuttavia, a questa disamina propositiva mancherebbero una mèta, e quindi una direttrice di marcia, se non tenessimo insieme ciò che sta sotto di noi (la terra), ciò che sta intorno a noi (la casa) con ciò che sta sopra di noi, che ci precede e ci attende: il cielo. Nel suggestivo Radici nel cielo, capitolo conclusivo del libro, Borgonovo invoca per il suolo arido e desolato della terra «un’acqua salvifica, quella pioggia che arriva dall’alto, dal cielo» (p. 191), che ci consente di aprirci ad un salutare slancio verso l’alto, a guisa degli alberi, che hanno profonde radici in terra, per proiettare germogli fecondi in cielo.
«Dobbiamo proteggere la nostra salute, ripristinare l’equilibrio naturale, frenando la dismisura che ci renderà facili prede di altre pestilenze, di epidemie e di “malattie del benessere”. Ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di un’altra salus: la salvezza dell’anima» (p. 203). Quella salus aeterna animarum, che la Chiesa indica come «suprema lex», è invero la sola e definitiva propiziazione in grado di riconciliare, di generazione in generazione, le creature, il creato ed il Creatore.
Guido Scatizzi